Giornale storico E LETTERARIO DELLA pubblicato sotto gli auspici della Società Ligure di Storia Patria M. Lupo Gentile: Sulla consorteria feudale dei Nobili di Ripafratta, pag. 5 — G-. Rossi : Documenti sopra il contado di Ventiniiglia, pag. 67. — VARIETÀ: G-. Sforza. La caccia all’orso in Garfagnana nel secolo XYI, pag. 79 — B. Romano. Alcune lettere inedite di Filippo Pananti, pag. 86 — BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO: Vi si parla di: B. Peyron (N.), L. Gallois (tì. Bigoni), pag. 98. — ANNUNZI ANALITICI: Vi si parla di: F. Podestà, E. Musatti, G. U. Oxilia, E. Maddalena, E. Bertana, M. Lupo Gentile, A. D’Ancona, E. Maddalena, G. Zaccagnini, H. Hauvette, E. Maddalena, F. C. Pellegrini, G. Dolcetti, C. Cipolla, L. A. Cervetto, P. Castellini, G. Olivieri, E. Penco, M. Lupo Gentile, pag. 103. — SPIGOLATURE E NOTIZIE, pag. 112. — APPUNTI DI BIBLIOGRAFIA LIGURE, pag. 118. LIGURIA DIRETTO DA -A. O II ILiLE NERI E DA UBALDO MAZZINI ANNO VI Fascicolo 1-2-3 1905 Gennaio-Febbraio-Marzo SOMMARIO. DIREZIONE Genova - Corso Mentana 43-12 AMMINISTRAZIONE Genova. - Tip. della Gioventù La Svezia - Amministrazione del Giornale GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA DIRETTO DA ACHILLE NERI e UBALDO MAZZINI E PUBBLICATO SOTTO GLI AUSPICI DELLA SOCIETÀ LIGURE DI STORIA PATRIA VOLUME VI LA SPEZIA SOCIETÀ D’ INCORAGGIAMENTO EDITRICE MCMV GENOVA - TIP. DELLA GIOVENTÙ SULLA CONSORTERIA FEUDALE DEI NOBILI DI RIPAFRATTA I numerosi gruppi di corporazioni, di consorterie gentilizie , di cappelle urbane e suburbane nei comuni feudali sono sempre un prodotto del nuovo momento storico, in cui questi si trovano, cioè del nuovo organismo interno della vita sociale sviluppatosi in essi. Quando infatti sorgono nuove attività che si esplicano nel commercio, nelle industrie, nelle arti, per necessità debbono sorgere nuove forme, che danno alla vita comunale un’altra fisonomia. Così si spiega il sorgere delle corporazioni d’arti e mestieri, delle compagnie d’armi, di certe forme associative come le cappelle, le porte, i quartieri e le consorterie. Questo spirito associativo si estende in tutta la vita sociale ed individuale, ed abbraccia economia, religione, politica. Ora mentre il popolo si adagia nelle associazioni artigiane, industriali e commerciali, la nobiltà nella forma giuridica delle consorterie, le quali si formano col successivo aggregarsi di famiglie ad una, a cui queste si legano con rapporti consanguinei, militari e commerciali, pigliando un nome comune e fabbri- — 6 — cando un castello o una torre che serva di ricovero e di difesa in tempi di turbolenze. Generalmente dopo il secolo XII le consorterie da rudimentali e poche, organizzate economicamente e politicamente, si fanno vigorose, i membri che le componevano prima si aumentano, si discipliuano e allora esse acquistano un vero valore legale e politico. Legale, perchè le leggi consorziali esigono che ogni consorte sia responsabile dell’ altro e tutti a vicenda si proteggano, s’aiutino e vendichino ogni offesa ricevuta. Politico, perchè i consorti, essendosi costituiti in un ente proprio ed indipendente, possono combattere in favore o contro il comune nelle contese civili che nascono in questo o contro qualunque altro che possa danneggiare i loro interessi economici. Lo studio di queste consorterie gentilizie è importante , perche serve a lumeggiare il periodo della vita comunale che sempre affascina e eh’ è sempre per gli studiosi una miniera inesauribile di utili e feconde ricerche. Naturalmente per fare un lavoro sistematico e completo su questa forma di associazione dell’epoca feudale , bisognerebbe conoscere un buon numero di consorterie. Lavori di simil fatta, dobbiamo pur riconoscerlo, ne abbiamo pochissimi. Perciò con questo mio studio mi son proposto di fare la storia della Consorteria dei Nobili di Ripafratta , determinando, secondo che mi è stato possibile, i rapporti giuridici di detti Nobili col comune pisano, illustrandone l'importanza politica a causa della posizione del castello e la parte avuta nelle secolari contese fra Pisa e Lucca. Ilo sfiorato anche, per quanto mi è stato consentito dai documenti raccolti negli archivi, la loro potenzialità e-conomica, 1’ estensione delle loro terre, i confini della loro giurisdizione e in particolar modo mi son diffuso a narrare le relazioni reciproche fra i Nobili e il comune rurale di Ripafratta. — 7 - I. Ripafratta o Librafatta è tuttora un castello semidiruto con sottostante borgata nella valle del Serchio. Le mura castellane con la torre giacciono propriamente sulla pendice occidentale di un poggio che costituisce l’ultimo sprone di Monte Maggiore e confinano con Filettole e Castiglioncello , poggi alquanto vicini fra loro in guisa da restare uno stretto passaggio alle acque del Serchio. Se dobbiamo credere al Repetti (1), Ripafratta u ripete chiaramente la sua etimologia dalle acque correnti del Serchio e dell’Ozzeri, le quali costà ruppero la ripa de’ poggi per aprirsi un passaggio alla marina di Pisa „. Comunque sia l’origine del nome, è certo che nel sec. X la moderna contrada di Ripafratta portava il nome generico di Ripa (2). I signori che poi si dissero u i Nobili di Ripafratta „ e formarono una grande consorteria, ben regolata da apposito Statuto, ci appariscono in principio come semplici concessionari. Infatti nel 970 Adalongo, Vescovo di Lucca, diede a livello a Ildebrando, figlio di Teuperto , due casalini e altri beni colla chiesa di San Pietro e quella di S. Ponziano di Urbanule: un pezzo di terra fuori di Lucca presso la chiesa di S. Frediano e nove case in Maremma, appartenenti a S. Regolo di Populonia (3). Ildebrando era obbligato a pagare ogki anno nel mese di maggio un censo di sedici soldi d’ argento. Nello stesso anno gli diede pure a livello la pieve di S. Martino e di S. Giovanni Battista posta in Flesso con tutti i beni e le decime, che gli uomini solevano pagare nelle ville di “ Petruvio, Vicopelago, Puziolo , Mezzana, Cellasumma, Soteriana, Ripa, Nave, Eribrandi, Amiate, Dardatico (4) Queste ville, fra cui notiamo u Ripa „ (1) Rkpf.tti. Dizionario geogr., fi» , stor. della Toscana, a Ripa/ratta. (2) Barsocciiixi. Memorie e documenti per servire all' istoria del ducalo di Lucca. Lucca, 1S11. To. V, III doc. 1420. (8) Balocchisi, op. cit., doc. 1-119. (4) Babsocchiki, op. cit., doc. 1120. che darà poi il nome alla consorteria, si continuarono a dare a livello allo stesso concessionario o ad altri della sua famiglia. Cosi il 3 ottobre del 980 il vescovo Guido (1) allivellò i medesimi beni a Gherardo, fratello d’Ildebrando, però questa volta non u in integrum „ ma solo la terza parte e quindi col censo minore di soldi cinque e denari quattro, poi nello stesso anno (2) gliene diede a livello la metà con un censo di soldi sette e denari sei. Il censo cresce e diminuisce in ragione delle porzioni di beni ehe si allivellano. Queste e altre innumerevoli concessioni livellari fatte allora dalla mensa lucchese ci manifestano le condizioni precarie in cui si trovava nel secolo X il vescovo di Lucca, il quale era costretto a sminuzzare il suo patrimonio ecclesiastico per mezzo di carte livellari. Nella identica condizione del vescovo di Lucca si trovava allora la maggior parte dei vescovi i-taliani, i quali essendo ingolfati nelle ambizioni e nelle passioni politiche, avevano bisogno per soddisfare queste di denaro e di fautori del loro partito. Non c’ era altro mezzo migliore che dilapidare il patrimonio ecclesiastico dando le loro terre a livello, laonde non deve recar meraviglia se nel sec. X e XI si trovano un’infinità di questi contratti livellari. Gli scrittori ecclesiastici si lamentavano amaramente di vedere scemato in quel modo il patrimonio della Chiesa, che avrebbe affrettato la sua rovina, e a ragione, ma questo fatto in realtà recò un gran bene, perchè la cittadinanza italiana venne ad acquistare una nuova posizione di fronte alle Chiese (3). I nostri concessionari (che poi si diranno i Nobili di Ripafratta) colle terre avute in livello e messe a cultura si formarono un peculio, onde cominciarono a comprare delle terre. E infatti il 10 maggio 987 un Sismondo (4), (1) Barsocchini, op. cit., doc. 1514. (2) Barsocchini, op. cit., doc. 1517. (3) Davidsohn. Oeschichte von Florcnz, p. 142. (4) Pergamena n. 8 dell’Archivio privato E-oncioni in Pisa presso l’avvocato Manfredo E-oncioni a cui sento il dovere di esprimere pubblicamente i miei più sentiti sensi di gratitudine per la sua squisita cortesia. — 9 — soprannominato Tunito , vendette per il prezzo di soldi mille a un Manfredo l’intiera metà delle quindici parti fra case, fondi e masserie, esistenti nei luoghi di Limiti, Vico Merdarioli, Vecchiano, Carrara al Pero, Fausina e Arena. Chi è questo Manfredo? Da chi è discendente? In che relazione sta con Teuperto, e con Ildebrando e Gherardo suoi figli ? Alcuni documenti dell’Archivio arcivescovile di Lucca ci permettono di rispondere alle domande che ci siamo proposte. Nel 996 un Giovanni, figlio di Teuperto, riceve a livello dal vescovo di Lucca beni a Vione (1). Ora in una carta del 1017 un Bernardo di Rodolfo manifesta che Ma-ginfredo figlio di Giovanni ha ceduto a lui la terza parte del castello che avea in Milliano con beni a Tripallo e Alari e a sua volta la dona a Sicheimo detto Sigizio di Alticoso. Identifichiamo questo Maginfredo con quel Manfredo di cui si parla nell’ atto di vendita di Sismondo e con quel “ Maginfrido figlio q. Iohannis (2) „ che ha il 28 maggio 1020 beni a livello dal vescovo Grimizo. Questo (1) Barsocchini, op. cit., doc. 1706. (2) A tergo della pergamena (Arch. Arciv. di Lucca © e. n. 75) trovo scritto: « libello Managifridi (molto sbiadito) feu.... dominorum de Ri-pafracta Datum Mainfrido fìlio quondam Ioliannis de rebus pertinentibus plebi de Flexo ». La scrittura certo non è contemporanea, ma del sec. XII o XIII quando le concessioni livellari si erano tutte trasformate in feudali. Così molte altre pergamene di livello del sec. X, portano scritto a tergo con caratteri un po’ posteriori la parola « feu-dum ». Non mancano es. in Barsocchini, op. cit., to. V, p. I, dissert. 8a c feudum Corvariensium » « feudum dominorum de Maona » ecc. Nel Libri• Iurium Nobilium de Ripa/racla (cod. prez. del sec. XIV che si conserva nell’Arch. privato della famiglia Rondoni in Pisa, n. 59 bis) a fo. 6 tergo si trova trascritto il documento originale, però nel luogo, dove nell’orig. troviamo « tibi Maginfrido fìlio q. Iohannis » nella trascrizione è « Manfredo Roncionio ». Questo cognome Roncioni dato a Manfredo non sarebbe una falsificazione, ma l’aggiunta del casato nel secolo XIV quando esso si era già formato. Senza fondamento si debbono ritenere le congetture del Lami (Codice diplomatico toscano I, 482) che fa derivare questo cognome da Baroncione , di cui si parla in una carta pisana del 780 dataci dal Muratori. Questo fu prima giustamente notato dal Brunetti (Cod. dipi, tose., I, 482) Vedi anche Ardi. Stor. Ilal., VI, to. I, serie I, p. X della prefaz. alle storie del Roncioni, nota I. — 10 — u Maginfredo, Magnifredo o Manfredo „ sarebbe figlio di Giovanni e costui alla sua volta di Teuperto. Onde Peu-perto si potrebbe considerare come un antenato dei Signori , da cui provennero i Nobili di Ripafratta. Questo a me sembra probabile, però non v’ è alcuna ragione di credere che Teuperto (1) sia il capostipite e che la concessione livellare del 970 sia proprio la prima. Le donazioni e concessioni imperiali fatte ai nostri Signori di Ripafratta datano dal 3 agosto 996. In quest’anno Ottone III, da Pavia coll’intervento del marchese Ugone (2), concede a Manfredo una vigna nel contado di Lucca, la quale chiamavasi Croce, poi la terra di Monte S. Bartolomeo nel luogo detto di Sorbole, tre monti : Valle Bonelli, Lupocavo e il monte u de valle Querculi due reguli mansi a Loniano, e una parte di terra tuori le mura della città di Pisa. Con questa concessione si dava a lui piena facoltà di tenere quelle terre, venderle e commutarle. Nessuno o duca, o marchese, o arcivescovo, avrebbe potuto molestarlo e privarlo dei beni senza alcun legale giudizio, e se alcuno lo avesse osato, avrebbe dovuto pagare lire 150 d’oro, metà alla camera imperiale e metà a Manfredo o ai suoi eredi (3). Manfredo si mo- (1) Teuperto era figlio di un altro Teuperto e nel 9-11 con Uberto Ma-laspina marchese e conte del palazzo sedette in un giudizio che si tenne pei beni del vescovato di Lucca (Barsocchini, op. cit., doc. 1281). Rodolfo del q. Teuperto che dal vescovo Teudegrimo di Lucca ricevette nel 988 beni a livello nella pieve di S. Martino e di S. G. Battista con porzione di debito degli uomini di detta Pieve, sarà probabilmente figliuolo di Teuperto, l’antenato dei Nobili di Ripafratta, sicché i fratelli sarebbero quattro: Ildebrando, Gherardo, Giovanni e Rodolfo (Barsocchini, op. cit., doc. 1563. Faccio notare eh’ egli nell’ intestazione del documento dice che il vescovo allivella beni a Rodolfo « da cui discendono i Nobili di Ripafratta »). (2) Ugo o Ugone soprannominato il Grande di stirpe salica, il qualo riunì sotto di sè il marchesato di Toscana, di Camerino e il ducato di Spoleto. Hegel Storia della costituz. dei municipii ital., tradotta dal Conti. Milano, 1861, p. 394. (3) M. G. E., Peutz., II, p. II, N. 223. Diplomata. Boh.meii, Reg. 780. Stumpf, Reg., 1090.. Orsucci, Castelli e comuni del distretto e diocesi di Lucca. Ms. del sec. XVIII (Arch. Lucchese). Liber Iurium cit., fo. 4. Il Pertz dopo Manfredo, mette tra due parentesi « Roncionio ». Egli si dovette fondare sul Liber Iurium e sull’Orsueci. L’ Orsucci a sua volta — 11 — strò ossequiente alla potestà imperiale e avrà probabilmente anche prestato servizio ad Ottone, il quale “ ob devotum ingenium habilemque pervitium „ da Roma gli fece un’ altra concessione il 7 ottobre del 1000 di una corte di nome Sestaria e di una terra chiamata Fossula nel contado di Lucca con tutti i servi, i campi, le selve e tre monti: Monte Maggiore, Monte Vergario, su cui era situata la chiesa di S. Bartolomeo , e Valle della Croce con tutta la giurisdizione civile e criminale (1). Da Todi poi il 20 dicembre 1001 dona a lui la corte di Lugnano nel contado di Pisa con tutte le sue pertinenze (2) “ cum omnibus eorum mancipiis hominibus et personis ecclesiis hedificiis terris montibus campis pratis pascuis silvis venationibus aquis aquarumque decursibus piscationibus viis et inviis exitibus et redditibus et introitibus ripe et passedii „. Ora è evidente che in questa zona di terreno, su cui poi si aggirò il patrimonio comune della nostra trascrisse il documento da una copia che un Averardo Simonetti gli mandò nel 1669 e in un punto così dice: « nel 1624 si fece un processo nelle case del vescovato di Lucca per causa della chiesa parrocchiale di S. Bartolomeo dì Ripafratta della diocesi di Lucca per differenze che vertevano fra i Roncioni nobili di Pisa per una parte e il fiscale delle case del vescovato per l’altra, e nella produzione delle scritture per parte del detto Roncioni si copiò del detto privilegio del 996 exemplato da Ser Ueronimo Vanni di Pisa il 1617 dal Liber Iurium ». Ora si sa che i documenti quivi trascritti sono del sec. XIV. Niente di più probabile che nel trascrivere il docum. si sia surrogato alle parole che vengono dopo « fìlio q. Iohannis » il nome del casato già formato « Roncionio ». (1) M. G. II., Diplomata, li, II, 389. (2) M. G. H-, Diplomata, II, N. 421. Se dovessimo credere al Taioli (Istorie ms. di Pisa in Biblioteca univets. f. 22) e al Tiìonci (Annali Pis., ad anno 965) Ottone sarebbe stato mosso a fare tali donazioni per accontentare alcuni nobili del suo seguito, i quali presi dalla dolcezza del clima e dalla fertilità del suolo di Pisa lo avevano pregato che volesse accordar loro di rimanervi. — Di qui secondo i due cronisti avrebbero avuto origine alcune illustri famiglie pisane: Casatti, Orlandi, Ripafratta, Visconti, Veechianesi, Gusmani e Duodi. Comunque sia, qui si tratta d’una donazione vera e propria di certe proprietà, appartenenti prima al demanio imperiale, non di un benefìzio, il quale è revocabile e non costituisce affatto la proprietà del fondo, che non può essere in tal caso nè venduto nè legato (Sciiupfer, Delle istituz. politiche longobardiche, Firenze, 1863, p. 396). - 12 — consorteria, erano le condizioni adatte per un progressivo sviluppo di una vita associativa che doveva portare alla “ comunitas o universitas Ripefractae Abbiamo corti, vigne, oliveti, orti, querceti, boschi, tutto quello che occorreva affinchè una popolazione si alimentasse, si riscaldasse, riparasse la casa e la stalla; poi troviamo le ville e i mansi. Nelle ville brulicava una popolazione di servi della gleba u mancipii „ eh’ erano costretti a lavorare le terre dominicate u res domnicata „ appartenenti a piccoli vassalli vescovili, attirati là probabilmente dalla mite signoria del vescovo. Nei mansi o case masserizie u res massaritiae (1) „ una popolazione di coloni o fittaiuoli liberi, che pagavano il “ redditum de labore, vinum, simulque de bestiis vel de qualibet movilia (2) „. Perciò il carattere geografico e fisico di queste terre, consistenti in vallate fertili, boschi, pascoli e attraversate dal Serchio e dall’ Ozzeri, doveva favorire l’addensarsi della popolazione e quindi il loro organizzarsi posteriormente in comunità, giacché i coloni, benché per contratto coi proprietari fossero legati alla terra e obbligati a decime, a censi in denaro o in derrate, pure coi frutti che ricavavano, lordi dalle imposizioni fiscali, potevano mettere su un peculio che un giorno li avrebbe riscattati. n. Fino alla l.a metà del sec. XI i Signori di Ripafratta si muovono specialmente nell’ orbita della politica lucchese (3), come tutte le altre numerose consorterie dei dintorni, le quali costituiscono quell’ u exercitus lambar-dorum „ che nel 1005 durante la prima guerra fra Pisa e Lucca aiuta il vescovo Lucchese (4). Nel 1014 Ghe- (1) Fustel de Collaxge, L’alleu et le domaine rurale, p. 362. (2) Babsocchini, op. cit., V, III, p. 311. (3) Vedi le carte di livello concesse dal vescovo di Lucca ai Nobili di Ripafratta. Arch. Arcivescovile di Lucca © B. 78. © N. 26. f t-P. 24. (4) Volpe, Studi sulle istituzioni comunali a Pisa. Pisa 1902, p. 20. — 13 - rardo figlio di Teuperto riceve a livello dal vescovo Gri-mizo una corte a Bassirica, poi la chiesa di S. Maria a Campuolo con castelli e beni appartenenti di diritto ad essa (1). Lo stesso vescovo il 28 maggio 1020 (2) allivella a Maginfrido di Giovanni beni della chiesa di S. Martino e di S. Giovanni Battista a Flesso, colle decime pagate dagli uomini delle ville di “ Siziano, Cellasumma, Flesso Maggiore, Flesso Minore, Nave d’ Erinprando, Cumulo „. Parimenti beni della chiesa battesimale di S. Giorgio , Vicopelago , Petroio , Puzziolo e beni della Chiesa di S. Maria fuori di Lucca nel luogo detto Moio coi diritti di sepoltura. Maginfredo aveva 1’ obbligo di far celebrare gli uffizii sacri e di pagare nel mese di marzo una rendita annua di 20 soldi d’argento (3). Queste due carte di livello differiscono dalle precedenti del sec. X specie la seconda, in cui, benché il formulario sia quasi identico, le obbligazioni del concessionario sono di carattere un po’ feudale. Manfredo ha infatti la facoltà di poter “ detinendi eas habendi, tenendi, requirendi, recoliendi, im-periandi, laborare faciendi — Le innumerevoli ville sopra menzionate disseminate nella valle del Serchio e (1) Arch. arcives. di Lucca, f f. N. 26. A tergo leggesi pure « feu... dominorum Ripaefractae ». (2) Arch. arciv. di Lucca © E. N. 75. E anche trascritto nel Liber Iurium cit. f. 6-8. (3) Nel 1026 Ermingarda moglie di Sigifredo e figlia di Rodolfo vende a Bernardo e Udebrandino di Sismorido la sua porzione di beni posti a Saltulo, pervenutele per la morte di esso Sismondo suo fratello. Questi beni possedevano in comune altri eh1 erano « consortes de casa ». (Biblioteca del Capitolo di Lucca, N. 38. P.). Poiché qui si parla di un’Er-mingarda, figlia di Rodolfo, il quale a sua volta era figliuolo di Teuperto, crediamo si tratti della nostra consorteria. L’Orsucci infatti (op. ms. cit.) ricorda questo documento insieme con altri che servirebbero a formare la storia della consorteria dei Nobili di Ripafratta, sicché questo viene a confermare quello che abbiamo asserito. In quanto al vescovo Grimizo, l’Orsucci dice che fu figliuolo di Teuperto, e indica la fonte da cui attinge questa notizia : « Daniello dei Nobili, Memorie del vescovato di Lucca mss. appresso Bartolomeo dei Nobili ». Importanti sarebbero queste memorie, se si potessero trovare. A ogni modo la notizia che ci dà l’Orsucci è preziosa, e allora ci spieghiamo come questo vescovo, oltre alle ragioni sopradette, forse spinto a concedere terre a livello, per favorire i suoi parenti. dell’ Ozzeri, contenenti popolazione di servi e di rustici soggetti prima a lavorare le terre che appartenevano ed erano amministrate direttamente o indirettamente dal vescovo di Lucca, sono sottomesse ora ai consorti di Ri-pafratta. Le concessioni livellari fatte ad esse confermano sempre più come le popolazioni dei castelli fossero talvolta, ed è il nostro caso, composte originariamente di genti di ville, prima date a livello e trasformatesi più tardi in feudi per gradi insensibili. Questa trasformazione per le ville concesse ai Signori di Ripafratta è già avvenuta alla fine del sec. XI col sorgere del “ castrum Ripaefractae „ (1) e colla fondazione del monastero di S. Paolo in Pugnano (2). Di più la fondazione del mona- fi) Nel marzo del 10S6 un Lamberto di Specioso , i fratelli Lamberto ed Eurieo di Enrico, Ubaldo e Guidone di Sismondo offrono le porzioni a ciascuno di loro spettanti di un pezzo di terra alla chiesa di S. Paolo e a qnella di S. Stefano a Pugnano, colla condizione che le suddette chiese non siano in avvenire sottoposte ad alcuna autorità secolare o vescovile, ma alla abbadessa e alle monache e che l’abbadessa debba in ogni tempo eleggersi col consiglio dei donatori. (Perg. di S. Anna in Archivio di Stato Pisano, n. l.° marzo 1086). L’atto fu rogato in « castro Ripaefractae ». Qui vediamo delinearsi tre della famiglia di quei Nobili. Fatto pure nel « castro Ripaefractae » è un atto del 16 settembre 1086 col quale Ubaldo di Sismondo e "Willia sua moglie vendono un pezzo di terra. (Archivio Roncioni per*;, n. 32). E evidente perciò che la edificazione del castello è già avvenuta prima del 1086. Ubaldo sarà stato un consorte, poiché chi poteva rogare un atto in un pastello, se non il signore o i signori che n’erano padroni? (2) Questo monastero fu fondato dai Signori di Ripafratta, i quali gli assegnarono anche un patrimonio; non possiamo però dire quando precisamente fosse stato edificato, certo nel 1086 esisteva, perchè in quest’anno, come abbiamo detto nella nota precedente, alcuni di loro donarono vari beni alle chiese e ai monasteri di S. Paolo e di S. Stefano, (Cfr. anche Matthei, Ecclesiae Pisanae Historia. Lucae, 1768, la nota 3.a in appendice, p. il). Le donazioni al monastero di S. Paolo da parte dei nostri consorti continuarono posteriormente. (Vedi Perg. di S. Anna, 13 marzo 1104; 13 maggio 1104, 27 agosto 1218 in Arch. di Stato pis.). Nel 1140 sorsero delle quistioni a proposito delle decime che si pagavano al monastero di S. Paolo fra la pieve di Pugnano e questo monastero. L’arcivescovo di Pisa s’interpose e stabili che il pievano avesse la quarta parte delle decime e il resto dovesse darsi al monastero di 8. Paolo per beneficio delle Suore di S. Benedetto che ivi vivevano. (Pergam, di S. Anna del 18 nov. 1140). Una bolla poi d’Innocenzo II diretta all’ abbadessa di S. Paolo di Pugnano conferma ai Signori di Ripafratta il dritto - listerò mostra come la nostra consorteria è già bella e formata, poiché l’indice della costituzione della consorteria feudale, uno dei primi atti collettivi di essa è la fondazione di una chiesa o di un monastero , comune a un consorzio di famiglie, che trovano dopo la difesa degli interessi comuni in tal modo un cemento morale più forte. I nostri consorti sia rispetto ai beni donati dagli imperatori, sia rispetto alle concessioni livellari trasformatesi in veri e propri feudi, si possono ora avvicinare alla categoria dei “ capitanei,, cioè di quelli che possedevano signorie territoriali e uffìcii regi. Essi infatti , come vedremo meglio in appresso, non solo avevano giurisdizione feudale nelle cause civili, ma anche nelle criminali con una corte detta “ la corte dei Cattani „ (1) ed esercitavano le regalie. Il titolo “ Nobiles „ dato a loro sarebbe un anacronismo nel secolo X e XI, poiché questo si costituisce nel sec. XIII mentre prima è in formazione. Solo allora, nel secolo XIII, acquista un significato determinato e una importanza politica, e fra i nobili e gli ignobili comincia un profondo distacco che si fa più rilevante nelle campagne (2). Quale azione esercitarono i nostri consorti sulla città di Pisa, e quale la città esercitò su di essi? di sepoltura nella chiesa del monastero e sancisce la definizione della lite fatta dall’ arcivescovo Balduino (Pergam, di S. Anna del 21 maggio 1141). (1) I Cattani che travagliavano non poco le città specialmente nel lucchese in fine all’XI secolo, erano detti anche lambardi, non per distinguersi da un supposto municipio romano e neppure per distinguersi dai Franchi, ma per la libertà da essi conservata ab antico, come i cittadini di Mantova avevano sempre mantenuto il nome di arimanni. (Hegel, op. cit., p. 479). — Questi lombardi perciò rappresentano i liberi sopravvissuti al naufragio della loro classe o quelli che emancipatisi pei primi si organizzavano in un consorzio privato, servendo cosi di incitamento alle popolazioni rurali viventi negli aggregati economici delle corti signorili di costituirsi anch’ esse in comunità. (Volpe, op. cit, p. 31). (2) Vedi le osservazioni del Borghini sulla nobiltà, riprodotte dal Bahui nel Bollettino della Società dantesca. N. S. II, 5. Salvemini, La dignità cavalleresca nel comune di Firenze, Firenze. 1896, p. 14; e Magnati e Popolani in Firenze. Firenze, 1899, p. 24. - 16 - Questo influsso non fu esercitato nè subito esclusiva-mente dai signori di Ripafratta, ma 1’ esercitarono e lo subirono tutti i capitani e i signori del contado pisano. In generale nella Toscana i margravi o marchesi, i duchi che risiedevano nella città, poco ostacolarono l’incremento dei governi municipali, al contrario i capitanei vivendo nel contado fecero sì che queste città non raggiungessero con pari rapidità dei comuni lombardi grandezza e prosperità. Questi ultimi facilmente distrussero i castelli dove riparavano i signori feudali e riacquistarono ed ampliarono il loro primitivo territorio ; le città toscane invece per la conformazione territoriale intersecata da monti e da colline, diversissima dalle pianure lombarde, dovevano avere circostanze politiche varie e domini più divisi. Quivi i grandi e piccoli signori, conti e capitani (cattani) per 1’ assenza, prima del sorgere del comune, d’ogni sovranità arcivescovile ritardarono perciò il libero svolgimento comunale (1). Ma quando sorse il comune creando nelle città nuovi organi amministrativi, sviluppando nuovi bisogni finanziari, esso allora cominciò ad esercitare una potente forza di attrazione nel contado , dove rifioriva la vita locale, capace di diventare parte attiva della città, mentre prima il “ comitatus „ era una morta appendice, una massa omogenea e indistinta (2). m. I Nobili di Ripafratta, come tutti i Signori rurali, a-vevano il dritto di imporre gabelle e dazi di pedaggi non solo alle genti soggette, ma anche a quelli che passando per il Serchio entravano nei loro possedimenti per andare nel territorio di Pisa o di Lucca (3). Ora, secondo il Roncioni, i Lucchesi nel 1104, non volendo più pagare il solito dazio, mossero loro guerra; i Nobili non essendo (1) Hegel, Storia della costituz., cit. p. 478. (2) Volpe, op. cit., p. 7. (3) Vedi il Breve consortium et dominorum de Riyafrucla in Arch. Stor. Ital., VI, II, p. 808-12. — 17 — tanto forti da poter resistere, domandarono aiuto ai Pisani, i quali ritornati da poco tempo dalla Sardegna andarono contro i Lucchesi e ricuperarono il castello tolto da costoro. I nemici vi tornarono un’altra volta, ma furono di nuovo vinti l’anno 1105. Nel seguente i Lucchesi fecero maggior sforzo di gente, risoluti di conquistare ad ogni costo il castello, però furono obbligati dai Pisani a retrocedere. Queste contese apportarono danno ai Pisani e ai Lucchesi, finché Enrico V, se dobbiamo credere al Roncioni, si intromise e fatte deporre le armi “ si trasferi nel luogo stesso per il quale era nata la guerra ; ed a-vendo vedute e considerate le ragioni da una parte e dall’altra, finalmente sentenziò, che potessero usare i nobili di Librafratta detto dazio o gabella e che dove era posto, s’intendesse contado di Pisa: perocché era di là dal Serchio, ma il luogo appunto non si sa al presente. E così si pacificarono insieme queste due repubbliche l’anno da che Cristo apparve al mondo MCVII; e cosi si quietarono le turbolenze di questa nascente guerra „ (1). Le narrazioni del Taioli e dell’Orsucci differiscono di molto da quella del Roncioni e non mancano di errori (2). L’Orsucci così dice: “ nel tempo che li Pisani erano all’impresa di Terrasanta, i Lucchesi armata mano avevano tolto il castello di Ripafratta alli Pisani e quello tenevano come cosa propria, benché ingiustamente. Tornati i Pisani di Gerusalemme, mandarono più fiate i loro ambasciatori alla città di Lucca, ma indarno e protestarono la guerra, e se bene tre o quattro volte le gente lucchese fur percorse e dannificate , non per questo i Pisani riliebbero il castello e per vendicarsi delle offese radunarono grandissimo esercito, ma trovandosi Henri co in Italia venne a Pisa, s’interpose per fare accordi e pace tra 1’ una e 1’ altra città, e chiamati a sé l’ambaseiatori lucchesi con autorità piena di capituiare (1) Roncioni Raffaeli/). Istorie pisane, (in Arch. Stor. Ita! , VI, I), p. 157-8. (2) Vedi Ousucci, op. ms. cit. Egli si riferisce alla Storia ms. di Lorenzo Taidi, cfr. Taioi.i, op. ms. cit., a fo. 88. Giorn. St. e Leti, della Liguria. 2 — 18 — et i Pisani, nel medesimo modo compose la pace e giudicò che la città di Lucca in capo di 3 giorni dovesse con effetto haver restituito ai Pisani Librafratta, come fecero per timore dell’ imperatore e restarono amici dei Pisani Secondo questo cronista il castello di Ripafratta era già, prima che scoppiasse la guerra, in possesso dei Pisani, a cui l’avrebbero tolto i Lucchesi e restituito un'altra volta per l’intromissione dell’imperatore. Ciò non si può affatto credere, perchè come mai Ubaldo avrebbe ceduto al comune di Pisa nel 1109 la terza parte del castello, se questo fosse venuto prima in possesso dei Pisani? Possiamo ammettere l’intromissione di Enrico V, senza alcun bisogno di credere col Roncioni che l’imperatore si fosse recato proprio a Ripafratta. Sebbene il Roncioni attinga nelle sue storie a buone fonti, che a noi sono rimaste ignote, pure stentiamo a credere che l’imperatore fosse andato in quel luogo stesso : nessuna altra testimonianza ci induce ad ammetterlo (1). Non si trattava poi di esigere dazi nel contado di Pisa o in quello di Lucca, ma solo di pedaggi nella gola di Ripafratta e ripatici (2) nel Serchio. Ma si deve credere veramente che i Lucchesi mossero guerra ai Nobili di Ripafratta, solo perchè non volevano pagare i dazi di pedaggio e di ripatico? Questo potrà essere stato un pretesto, invece la ragione vera, a parer mio, è d’indole politica e commerciale. La guerra fra Pisa e Lucca sarebbe una delle manifestazioni della forza municipale delle due città, forza che apparirà anche nelle imprese guerresche in lontani paesi (3). Tanto (1) Bernardo Marangone nel Vetus Chronicon Pisanum {Ardi. Stor. II., VI, p. II; all’anno 1107 così dice: « RexHenrigus IIIII cum ingenti exercitu venit Italiam et Pisa, et fecit pacem inter Pisanos et Lucenses. In eadem guerra vicerunt Pisani Lucenses tribus vicibus in campo, et castellum Bipafractam recuperaverunt, et ripam, unde lis fuit, retinuerunt ». Probabilmente l’imperatore giunse a Pisa alla fine del 1110 (stile comune) o al principio del 1111. Vedi Chron. Var. Pisan. in Murat., S. Ii. I., 168. Tboncj, Annali Pisani, all’anno 1110-11. (2) Vedi il Breve Consortum, cit. (3) Ragionevolmente l’Hegel osserva che « allorquando Enrico V nel- - 19 — i Lucchesi quanto i Pisani per la posizione strategica del castello riparato da alti colli (situato fra due città vicine e potenti, in un luogo idoneo e ai piedi del Monte Maggiore), potevano aprirsi coll’ occupazione di esso una via al loro commercio interno e difendersi nel contempo da chiunque cercasse ostacolare i loro interessi economici. Di qui i Pisani potevano penetrare nel contado e nella diocesi di Lucca e sbarrarsi una via verso l’interno della Toscana. Cosi si spiega l’ardore messo da ambedue i contendenti e specialmente l’insistenza del popolo pisano in questa guerra, come nelle altre, poiché esso mirava a dominare nelle valli dell’ Arno, dell’ Era e del Serchio, dove la popolazione era numerosa e le colline pullulavano di castelli fortissimi, di cui molti dipendevano dalla mensa arcivescovile di Lucca. Dopo questa guerra , in cui i Signori di Ripafratta dovettero di certo sentire il peso delle armi delle due città e un’ eco lontana della vita che sbocciava a Pisa più fervida che a Lucca, a-vremo un nuovo orientamento nella loro politica. Essi infatti cominceranno ad aggirarsi d’ora in poi nell’orbita della politica di Pisa, che più forte dell’altro comune rivale li attira a sé, allo scopo di assicurare protezione ai cittadini che si recheranno a commerciare in quei luoghi e di accrescere le proprie milizie. Questo fatto era naturalmente favorito dal frazionamento dei loro possessi consorziali o gentilizi, cosa tutta propria della aristocrazia terriera della Toscana, presso la quale i figli dividevano in parti uguali i beni ereditari, tanto che si arrivava sino a possedere un quarantottesimo di castello (1). Perciò ogni singolo possessore al contatto della l’anno 1110 discese per la prima volta con una potente armata in Italia, ritrovò quasi tutte le città reggentisi a governo libero e indipendente... Reggevansi già per consoli da loro medesime creati e la interna loro forza appalesavasi sovente e nelle gloriose gesta guerresche in lontarii paesi, come quelle che le città marittime di Venezia, Pisa e Genova avevano intrapreso contro i Saraceni e nelle guerre che facevansi l’un l’altra. Così Milano era in continua furiosa lotta con Lodi ». Hegel, op. cit., p. 454-55. (1) Pohlmann. Die Wirthschaftspolitik der fiorentine!' Renaissance, 1878, pag. 1. — 20 - nuova corrente di vita, che emanava dal comune maggiore, vendeva o donava la sua parte di castello solo o con tutti gli altri consorti. Così nel 1109 Ubaldo di Sigismondo e Matilde sua moglie donarono all’arcivescovo Pietro Moriconi, all’opera del Duomo e ai Consoli “ bonae fidei consortes „ la terza parte del castello o poggio di Ripafratta e Carbonaria, obbligando “ iure pignoris „ la parte che spettava loro del castello e del suo distretto, del ripatico e del placito (1). Si obbligarono pure di riconoscere per diretta signora e patrona la Chiesa Maggiore e la Mensa arcivescovile, di non mettere il castellano nel detto castello senza l’approvazione dell’Arcivescovo, nè di permutare il detto feudo con il comune di Lucca o con quella Mensa vescovile. Ogni qualvolta poi volessero fare qualche acquisto nel poggio di Ripafratta, dovevano ammettere la chiesa pisana per metà alla compera (2). Tutte queste obbligazioni, e specialmente 1’ ultima, derivano dalla infeudazione del castello fatta al comune ed indicano già una diminuzione di dominio, come l’obbligo che i Gherardesca nel 1142 contraggono colla chiesa pisana di non vendere se non ad essa i castelli e le corti, che possedevano o possederebbero nel contado di Pisa (3). Cosi i Nobili di Ripafratta si piegarono colla vendita della terza parte del castello a diventare u homines „ dell’arcivescovo, che alla fin fine rappresentava il comune pisano. Poiché i rapporti fra il comune e la Mensa arcivescovile in Pisa furono diversi che in altri comuni, come p. es. in quello di Milano , il comune tipico per eccellenza. Qui prima i valvassori si sollevarono contro Ariberto d’Intimiano, poi Lanzone con tutto il suo partito popolano contro i nobili, e 1’ arcive- (1) Muratori, Antiquitates, III: Excerpta Ardi. Pis., Milano, 17-10, p. 1118. La donazione è fatta principalmente a « Petro archiepiscopo suisque successoribus et operariis Sanctae Mariae et Pisanis consulibus ad utilitatem praedictae Ecclesiae et pisani populi ». (2) Lo stesso fanno i castellani di Vivagio nel 1114, (Muratori, Anliq. III, 1117, an. 1114), e nel 1120 quelli di Bientina ali’Arcivescovo. Ivi, 1133, an. 1129. (3; Macchini, Difesa del Dominio dei Conti di Donoratico, v. I, p. 20. — 21 — scovo, e infine si ebbe al principio del sec. XII l’amalgama di tutti i tre ceti (capitani, valvassori, popolo) i quali affidarono ai consoli la suprema autorità del governo municipale, che non riconobbe dipendenza alcuna dall’arcivescovo. A Pisa invece all’ arcivescovo , benché non avesse acquistato un dritto di supremazia sulla città, nè vi esercitasse giurisdizione temporale, la confidenza dei Pisani aveva fatto acquistare una posizione morale tale, che la Chiesa divise la sua autorità col municipio, il quale a sua volta fece partecipare al governo la Chiesa. Perciò la donazione surriferita fatta a S. Maria e all’Ar-civescovo si deve considerare come fatta al popolo di Pisa, il quale stipulava i suoi trattati a nome dell’ arcivescovo (1). Poiché il comune di fronte ai vassalli investiti dall’ impero non avea ancora acquistato un’ importanza politica, una posizione legale tale, da convalidare certi atti, mentre 1’ arcivescovo era capace di far ciò (2). La personalità civile del comune, non ancora costituita, si trova come in un consorzio col capo spirituale della città. L’uno contribuisce colla forza delle armi, 1’ altro colla forza morale , che gli proviene dalla religione e dalla tradizione secolare dell’unità della diocesi (3). Attratti così i Signori di Ripafratta dalla Repubblica di Pisa colla cessione della terza parte del castello, ogni cura di fortificazione di questo spettava al comune pisano, il quale nel 1162 vi fece potenti ripari (4), nello (1) Hegel, op. cit., p. 474. Moltissimi sono gli atti in cui l’arcivescovo è il rappresentante ufficiale di questa politica, mentre i veri contraenti sono i consoli e il comune, che si muovono prima nell’ ombra e sono sostenuti dalla valida autorità di quello, come il bambino, che ha bisogno da prima di uno che lo sorregga per mano e gli insegni a fare i primi passi. Frequenti sono pure le vendite o donazioni in cui il venditore o donatore alienava alla chiesa pisana tutto ciò che possedeva dall'Era al mare e dalla Cecina all’Arno. (Volpe, op. cit, p. 14). (2) Santini, Studi sull’antica costituzione del comune di Firenze, in Arch. Stor. ItaL, V, t. XVI, p. 25-6. (3) Volpe, op. cit., p. 11. (4) Infatti nel giuramento dei consoli della Repubblica di Pisa all’anno 1162 si legge: «in muris et barbacanis castelli Ripefractae solidos mille expendam vel expendere faciam, et in eiusdem castelli guardia - 22 - stesso giro di tempo in cui faceva costruire torri al Porto Pisano, innalzava il Battistero, il Campanile e cominciava la fabbrica del Camposanto (1). In questo secolo il comune acquistò altre terre e castelli nel contado, esercitando una potente forza di attrazione. Cosi nel 1149 Monte Castello fu conquistato dai Pisani, che l’anno dopo tentarono, ma invano, di impadronirsi di S. Maria a Monte (2). Mentre i nostri consorti dal secolo XII in poi divennero subordinati al comune di Pisa cioè “ homines „ o “ fideles „ di questo, potendo esercitare nel contempo i diritti della loro giurisdizione nelle terre proprie, si resero del tutto indipendenti dal vescovo di Lucca, il quale il 30 maggio 1151 rinunziò per lire 430 ai dritti a lui competenti sui beni che Tasca Adimaro, Uberto di Gherardo avevano avuto in enfiteusi nei confini di Valdiserchio da Ripafratta sino al mare (3). Questa rinunzia dovette essere forzata da parte del vescovo di Lucca, poiché allora il contado era animato da una viva corrente d’energia e di svariate forme di vita giuridica ed economica, e come le terre si levavano contro il loro Signore ecclesiastico, cosi i capitanei contro quelli da cui avevano avuto beni in enfiteusi. Alcuni dei nostri consorti rimangono nella giurisdizione di Ripafratta e di altre terre vicine, altri attirati da Pisa vengono ad abitare la città e vi edificano case e torri. Già messer Salinguerra fin dal 1164 aveva fatto edificare case e torri nella piazzetta di S. Sepolcro in Cinzica (4) studium et operam dabo ». Boxaini. Stalliti inediti della città di l'isa. Breve Consolare, I, p. 11. (1) Per queste costruzioni il comune fece grandi spese e fu costretto anche a frequenti operazioni finanziarie. Vedi il Voi.pf., op. cit., p. 5. (2) Annali Pisani del Tronci, anno 1149-50. (3) Barsocchini Memorie lucchesi, p. Ili, doc. 1820. (4; Ciò si rileva da una carta del sec. XIV, (in Arch. Ronc. n. <7, 2, fra le scritture relative alla giurisdizione di Ripafrattai: « In aeterni dei nomine. Amen. Queste sono le confine della casa e torre, che in dell’ anno 1164 in del tempo che regnava il serenissimo re, et imperatore Frederico possedeva messer Salinguera dei Nobili di Ripafratta et che ora dicesi la Torre dei Roncioni in Cappella di Santo Sepulcro. Uno capo a via di lungo Arno, altro capo a case di messer Cino Ta- — 23 — e Andrea Catanelli nel 1183 fu eletto arbitro insieme con altri cittadini in una quistione sorta a proposito della costruzione di un quarto ponte sull’ Arno (1). Enrico VI poi il 1.° febbraio 1197 concesse a Buonaccorso di Cicogna di costruire finestre, botteghe, uscite, sedili, scale, ballatoi e grondaie. Ciò accenna a una costruzione più signorile e prova che già era cominciata la legislazione edilizia del comune. Altri signori feudali in quel tempo avevano abbandonati i loro castelli per venire ad abitare a Pisa, come i Nobili di Caprona, i Cattani di Val-dera, e quelli di Porcari, Corvara, Cassiano e Buriano. É notevole poi come essi si stanziassero nei quartieri di Cinzica, Fuoriporta e Ponte, dove predominavano i mercanti e gli artefici. Però questi nuovi venuti o per naturale repugnanza o per avversione contro i popolani indigeni stentarono a perdere la loro personalità individuale e collettiva, perchè uniti per la maggior parte in consorteria, come si desume dal giuramento che mille cittadini pisani fecero nel 1188 con Genova (2). In esso cinquantatre persone sono scritte tutte in un gruppo, quasi facessero parte a sè e volessero essere distinte dagli altri, cittadini e piccoli proprietari del contado. Dopo i Visconti, gli Uppezinghi e i Capronesi, troviamo una diecina di Signori di Ripafratta (3), che noi possiamo bene ascrivere nel numero dei cittadini “ selvatici „ per distinguerli dagli indigeni (4). Non avranno avuto certo i pieni diritti di cittadinanza, ma al pari degli altri nobili selvatici (Conti Donoratico, Corniero, Biserno e Castagneto, Uppezzinghi, Capronesi) saranno stati u cives minoris iuris „. Non dovrà recar meraviglia se i Signori vernaio. Classo mediante, uno lato a Chiasso del Roggio, e l’altro lato a casa di Guido della dieta cappella, et la qual chasa e torre tengo io, et possedesi per me Pietro Roncioni sanza contradiction3 alchuna, et ho facto questo ricordo che se per me, o alcuno de mia si volessi alienare, permutare, baractare, sappiasi che si puole ». (1) Roncioni, op. cit., p. 406. (2) Volpe, op. cit., p. 262 e segg. (3) Dal Borgo. Diplomi Pisani, p. 114-26. (4; Santini. Nuovi documenti in Arch. Stor. Ital., V, XIX, p. 24. — 24 - del contado si fabbrichino case nel comune maggiore vicino e compariscano quindi come “ cives poiché il più delle volte sono obbligati dal comune ad acquistare dritti di cittadinanza (1). Ben è vero che talvolta dai castelli dove stavano trincerati, essi amavano di ottenere dritto di cittadinanza nel municipio; in questo caso però non si obbligavano di dimorare in città, tranne in tempo di guerra, poiché in ogni altro tempo stavano nei loro castelli muniti e attendevano al governo dei loro domini (2). Non è raro il caso che fra i consorti “ selvatici „ e il comune maggiore, di cui quelli erano “ cives „ sorgessero delle discordie. I consorti u lombardi „ di Ricavo ebbero quistioni coll’arcivescovo, di cui erano u fideles per l’esazione del pedaggio (3). Anche fra i Nobili di Ripafratta e il Comune di Pisa successe una controversia (4) nel 1184 a cagione dei dazi da pagarsi per il passaggio delle merci nel territorio di Ripafratta. Quelli non solo riscuotevano le gabelle delle rive del Serchio, come loro proprietà, essendo questo dritto stato concesso da Ottone III, ma facevano anche pagare per ciascun carro di mercanzia diciotto denari pisani e per ogni soma, due. Torcello , sindaco dei consoli di Pisa, voleva levar loro tutti questi privilegi, e a tal uopo andava dicendo che i Lucchesi e tutti i popoli, i quali conducevano merci a Pisa si dolevano che si pagasse una gabella sì grave e dannosa, aggiungendo che essi accrescevano il dazio come meglio aggradiva loro, mentre si sarebbe dovuto pagare quattro denari per carro ed uno per la soma. I consoli di Pisa allora chiamarono (1) Santini. Condizione, personale degli abitanti del contado nel sec. XIII. (Arch. Stor. Ital., IV, XVil, p. 188). Per i nobili della Lombardia vedi Lattes, Il dritto consuetudinario delle città lombarde. Milano, 1899, p. 170 e 3G3. (2) Leo. Storia degli stali italiani dalla caduta dell’impero romano fino al 1840 tradotta da A. Loewf. ed E. Alberi. Firenze, 1840, I, p. 147. (3; Arch. Mensa Arciv. di Pisa, perg. 3 febbraio, 1251. (4) Bonaini. Diplomi pisani (in Arch. Stor. Ital., VI, II, Supplem. I, p. 86). Liber Iurium, cit. fo. 25t-26. - 25 - per discolparsi i nobili di Ripafratta, i quali sostenevano che il pagamento era giusto e non aumentato, e se pure fosse stato ingiusto, l’avrebbero potuto fare, perchè loro concesso dai privilegi imperiali (1). S’interpose l’autorità del senato il quale elesse come arbitri Ugone di Rolando e Gualfredo Grassi che furono approvati da quelli dei nostri consorti, che allora si trovavano a Pisa (2). I due giudici, considerate le ragioni di ambedue le parti, definirono la lite così : che i Signori di Ripafratta avessero piena facoltà di far pagare le gravezze sopra i carriaggi e le some, però non dovevano esigere più di denari otto per ciascun carro e uno per soma, e questa gabella dovevano riscuotere tanto dai Pisani quanto dai Lucchesi e dagli abitanti del contado di Lucca, affinchè non fosse rotta la pace fatta con questa città due anni innanzi (3) e fosse osservato il capitolo il quale ordinava che i Lucchesi pagassero le gabelle nello stato di Pisa, come se fossero stati pisarrì. La lite cessò con questo lodo, in cui noi scorgiamo la sollecitudine dei Pisani nel procurare di vivere in pace coi signori del contado, siccome anche si studiavano di cattivarsi la fede di quelle nazioni che avrebbero potuto danneggiare la loro potenza militare e commerciale (4). Dal documento pubblicato dal Bonaini intorno alla controversia sopradetta apparisce che la nostra consor- (1) Raffaello Roncioni, op. cit, p. 410-11. Erra questo cronista quando dice a proposito della controversia: « questi nobili, creandosi ogni anno un consolo il più vecchio di quella famiglia, accrescevano tal dazio », perchè non si può parlare di consoli o rettori della consorteria fra il XI e il XII secolo. Erra anche quando dice che vendevano le gabelle, (p. 410). 02) Opizzone di Ubaldo, Lutterio di Ugone, Mugnario, Butalio che fa compromesso per interesse proprio e degli altri consorti di Ripafratta. (3) La paco fra i Pisani e i Lucchesi fu ratificata nel 1182 nella villa di S. Prospero di Settuano, sottoposta ai Nobili di Ripafratta, dirimpetto a Nozzano. Roncioni , op. cit., p. 399. Secondo il Marangoni in quest’anno i Lucchesi « castrum de Ripafracta obsidere comminabantur » in Arch. Stor. Ital., VI, II, p. 60. (4) Tale è l’intento delle negoziazioni e della pace col re di Maiorica nel 1185. Bonaini. Diplomi pisani, p. 91, doc. XXV. - 26 - teria s’è già avviata alla sua torte costituzione : vi sono espressamente nominati i “ consortes de Ripafracta „ e un Batalio che fa compromesso u prò se et aliis consortibus de Ripafratta Non troviamo ancora il “ consul „ 0 i “ consules che avrebbero dovuto comparire in questa lite, se fossero stati istituiti. Quindi non è improbabile che il “ consul „ della consorteria sorga dopo il 1184, quando questa si organizza fortemente, se teniamo pure conto dell’epoca che ci forniscono altri documenti del tempo sulla istituzione dei “ consules „ delle consorterie del contado di Pisa (1). E proprio in quest’ epoca, cioè tra la fine del XII e il principio del XIII secolo, noi poniamo la compilazione dello statuto, che accompagna sempre la costituzione intima delle consorterie, le quali sentono il bisogno di determinare meglio i rapporti reciproci fra 1 componenti con carte scritte e giurate, come succede anche nelle corporazioni cittadine, quando la fioritura manifestantesi in più modi nella vita economica, si rispecchia sulle leggi che si mettono in iscritto in forma di statuti (2). Ci costringe anche ad ammetterne la compilazione in questo periodo di tempo, il fatto che lo statuto, pubblicato dal Bonaini senza alcuna indicazione cronologica (3), è firmato da consorti, i cui nomi ricorrono in altri documenti riferentisi ai nobili di Ripafratta dell’epoca di cui parliamo (4). (1) Arch. Mensa arciv. Pisa, n. 515. (2) Schupfer. Storia del dritto, p. 412. (3) Bonaini. Breve consortum et dominorum, de Ripafracta (in Arch. Stor. Ital., I, VI, parte II, p. 808 e segg.). L’originale che si trova nell’Arch. Roncioni a carte 9-12 non porta neanche la data. •(4) In una pergamena del 12 settembre 1214 (fra le perg. del monastero di Lupocavo. Vedi Orsucci, op. e loc. cit.) compariscono i seguenti nomi di consorti, i quali cedono dei beni al monastero di Lupocavo: Ritornato, Lamberto e Ranieri f. del q. Lutterio, nobili di Ripafratta per la 3.a parte; Ubaldo del q. Gherardo Teramundi, Mugniano del q. Manfredi, Rodolfo del q. Ranuccio, nipote di Ugolino del q. Raimondo nobili per l’altra terza parte ; Gainello di Geronimo per sè e Guido del q. Rico, Ranuccio e Rosso di Ubaldo, Enrico di Bunino, Ugone di Pancone, tutti dei nobili di Ripafratta. Ora molti di questi nomi corrispondono con altri sottoscritti nello statuto. Cosi: Ritornatus, Lambertus, Rainerius q. Lucterii, Ugolinus Pantonis.. Sappiamo poi che Ugolino - 27 — IV. Corae nei Brevi consolari del comune il giuramento è fatto in prima persona mentre tutti i consoli lo giurano e ciascuno singolarmente, cosi nel nostro statuto tutti giurano singolarmente u ad sancta dei evangelia „ di difendere quello che possedevano in comune , quello che un tempo fu patrimonio comune, e poi era stato diviso fra i singoli membri, e quello che ciascuno possedeva per conto proprio fin da antico. Tre specie di beni si delineano : “ podere quod cum eis habeo comune et nostrum est comune et totura illud quod inter me et ipsos divisum est et comune fuit seu totum quod michi et eis aliquo modo vel iure pertinet vel pertinere potest proprium vel libellatum seu feodum „. L’estensione di questi beni e quindi il confine della giurisdizione andava “ a muris Lucane civitatis.... usque Pisas „, ma propriamente il patrimonio consorziale risiedeva nella valle del Serchio, in quella dell’Arno, nel castel di Vico Pisano, di S. Giovanni e nelle Colline, nei quali luoghi furono sempre i domini dei nostri consorti “ in quibus comune podere consueti sunt habere Lo statuto accenna anche a beni, che possedevano a Pisa, i quali probabilmente consistevano nelle case, dove andavano ad abitare quando venivano in città. Se alcuno dei consorti fosse venuto in lite o in guerra con alcuna persona “ prò podere commune defendendo „ tutti promettevano di aiutarlo cogli averi e colla persona, e se mai quegli avesse ricevuto dei danni, l’avrebbero risarcito secondo la loro parte: “ pro tertia parte totius poderis meorum consortum, que michi in tertiam partem di Raimondo nel 1245 (doc. VI) era console della consorteria. Una Berta nel 1240 (perg. S. Anna 15 nov. 1240) è vedova di Rodolfo dei Nobili di Ripafratta. Ma siccome fra i consorti sottoscritti nello statuto comparisce un Opithonis che abbiamo visto anche nel lodo del 19 settembre 11&4, affermiamo senza dubbio che la compilazione di esso sia avvenuta tra la fine del sec. XII e il principio del sec. XIII. Questa rassegna un po’ pedantesca era pure doverosa. 4 — 28' — ’ contingerit Come la nobiltà cittadina e tutte le varie corporazioni d’arti e mestieri avevano i loro consoli particolari, cosi la nobiltà di campagna, aggregatasi in corporazioni o consorterie, si eleggeva un rettore o console per dirigere gli affari comuni e per esercitare la giurisdizione feudale e patrimoniale (1). Nel nostro statuto ora si parla di u consul vel rector ora di “ consules vel rectores „, il che tradisce il sorgere recente del consolato nella nostra consorteria, la quale ancora non ha fissato il numero dei consoli. Ma in seguito si parlerà sempre di un “ consul „, il quale era uno della consorteria, veniva eletto da tutti i membri e stava in carica un anno. Componeva le discordie e le liti che potevano nascere fra i Nobili o fra gli u homines „ di ciascun consorte, riscuoteva i denari dei censi, le tasse sui carri fino a soldi 40, perchè più in là di questa somma ci doveva essere probabilmente il voto generale dei consorti. Così il console obbligava coloro che passavano per la “ ripa „ di Ripafratta a pagare la tassa del pedaggio tre volte all’anno: nel mese di maggio, in settembre e in gennaio. La sua paga annua era di 60 soldi, ma a-veva anche insieme coi “ consiliarii „ la quarta parte dei censi e dei dazii riscossi sui carri, e per pasqua di resurrezione un agnello. Un consorte, che 'veniva in lite con un altro consorte o cogli u homines „ , o riceveva qualche offesa, aveva l’obbligo di reclamare dinanzi al console o al rettore, il quale doveva provvedere nel miglior modo. Ogni singolo consorte non poteva accogliere nelle sue terre un “ fidelem seu tenitorem „ di un altro consorte, tranne coloro che venivano a macinare nei mulini, ma sempre u cum voluntate illorum consortum meorum in quorum podere stetisset vel est fidelis Nessuno (1) Hegel, op. cit., p. 526. A Modena nel 1185 si parla di rectores dei grandi ("proceres) e dei valvassori in un trattato dove essi promettono di nbbidire in tutto ai rettori della città. I consoli dei Manfredi nel 1174 stipulano un trattato con Reggio. Murat., Antiq., IV, 343 , 637. In una terra del contado pisano nel 1197 abbiamo, Lodavisio e Marsilio « consules pro comuni. ». (Arch. Mensa arciv. Pisa, n. 517, 27 febbraio 1197). — 29 — di loro aveva libertà di vendere “ in solutum vel per transactum „ le terre e i beni immobili, che non facevano parte del patrimonio comune, se non ai consorti più vicini in parentela. Se costoro non volevano comprarli, il consorte venditore doveva farne denunzia al console, il quale avrebbe dato a lui facoltà di venderli fuori della consorteria: “ consuli meo denuntiabo si pro comuni consortum meorum compere voluerit ei pro cumuni vendam pro eo praecio quod inde sine fraude potero..... si autem suprascripti eam nollent emere et tollere inde in antea liceat michi vendere et dare cui michi placuerit „. Ognuno era libero d’infliggere pene ai proprii fedeli, senza che gli altri consorti potessero menomamente ingerirsi a sindacarne gli atti, “ libere arbitrio ac si huic brevi nullo modo tenerem Quando il console doveva allontanarsi “ animo dei serviendi vel animo lucrativo „ eleggeva prima un altro in sua vece, il quale durante il tempo della supplenza riceveva parte dello stipendio di quello. Alla fin d’anno, detratte dal denaro introitato le spese fatte per 1’ utile del patrimonio comune, per la paga del console e dei “ consiliarii „ , il resto si divideva fra i consorti dopo quindici giorni dalla deposizione del console, il quale durante questo periodo di tempo rendeva ragione di tutto 1’ introito delle spese fatte e della sua condotta passata. Oltre al console e ai “ consiliarii „, di cui non sappiamo il numero, c’ era la corte dei Cattani, dove si discutevano le liti e si condannavano gli “ homines „ o “ fideles „. Quale attribuzione avessero i “ consiliarii „ non possiamo determinare con sicurezza. Probabilmente assistevano il console in tutte le faccende che riguardavano gli interessi della consorteria e limitavano il potere di lui col concedere o negare il loro consenso in tutti gli atti (1). Quindici giorni prima di uscire dalla carica, il console chiamava (1) Quest’ultimo ufficio dei « consiliarii » si rileverebbe dal seguente passo dello statuto: « ultra soldos centum per annum non expendam nec expendi consentiam sine parabola consiliatorum meorum omnium ». - 30 — uno o due consorti forse per annunziare, benché nello statuto non se ne dia la ragione, il suo prossimo scadere d’ufficio. I consorti dietro un previo avviso del console avevano 1’ obbligo di far giurare lo statuto ai figliuoli , appena avessero raggiunto 1’ età di 18 anni “ infra XL dies ex quo a consulibus vel rectoribus meis vel ab aliquo eorum inquisitus fuero si potero nisi remanserit parabola meorum consulum vel unius eorum et quominus iurare eum faciam fraudem non committam » (1). V. I nostri consorti al principio del secolo XIII ci appariscono anche come patroni del monastero e della chiesa di Lupocava o Rupecava, che avevano fatto edificare e avevano dotato nel 1214 (2). Questo altro patronato, oltre a quello che già esercitavano sulla chiesa di S. Paolo in Pugnano, mostra sempre più in quest’ epoca la forte costituzione della nostra consorteria, per la quale una chiesa o un monastero era come un mezzo o un simbolo della sua unione spirituale e materiale. Anche i Duodi, i G-aetani e i Gusmani in quell’epoca avevano il patronato sulla chiesa del monastero di S. Vito sull’Arno (3), la quale era stata donata e arricchita da essi. E come fra costoro e i monaci sorsero liti per 1 e-lezione e 1’ insediamento dell’ abbate, così nacque una (1) Il nostro statuto è firmato da una ventina di consorti. Il giuramento degli statuti delle consorterie portava con sè 1’ essere un sangue e vna guerra, come si diceva con frase efficace, cioè l’amarsi come d’un sangue solo, e il trarre ciascuno all’ esaltamento e alla difesa di tutti anche colla perdita della vita. V. Rezasco, Diz. stor. e amministrativo, voce, Consorteria. (2) Risiede sull’ultimo sprone del monte pisano fra Ripafratta e la dogana di Cerasomma presso la Cella che fu detta del Prete Rustico, (Re-petti, op. cit. a Rupecava). I nobili ne avevano il giurispatronato perchè il 12 settembre 1214 donarono a frate Guglielmo eremita dell’ ordine di S. Agostino un pezzo di terra, sul quale si edificò la chiesa di S. Maria posta sul monte di Rupecavo. (Orsucci, op. ms. cit. Egli ricava la notizia dal « Campione del Monastero di Lupocava »). (3) Volpe, op. cit., p. 266. - 31 — quistione fra i Nobili di Ripafratta e gli eremiti di Lupocava o Rupecava, appunto per il molto ingerirsi di quelli sull’elezione dell’ abbate del monastero. Essa si chiuse il 29 dicembre 1242 col lodo fatto dal pievano di Flesso, da Lamberto Solfa, da Lutterio, nobili di Ripafratta, scelti come arbitri da Gaetano Rossi console della consorteria da una parte, e da cinque frati del convento dall’altra. I nobili pretendevano di intervenire nella elezione del pastore o rettol e della Chiesa e dell’eremitorio di Rupecava, perchè ne erano patroni; i frati invece, sebbene riconoscessero il patronato, rispondevano che essi non avevano alcun dritto d’ingerirsi nella elezione. Si stabilì finalmente che quando la chiesa e l’eremitorio vacassero del rettore, uno dei frati dovesse recarsi dal console o dai “ consigliarli „ dei Nobili di Ripafratta ad annunziare che bisognava eleggerne un altro. Dopo, i frati procedevano all’elezione o per scrutinio o per ispirazione divina, e 1’ eletto doveva venire confermato dal console dei Nobili, secondo il dritto di patronato (1). Per quanto i Signori di Ripafratta avessero piena giurisdizione sulle terre e sugli abitanti a loro soggetti, sulla chiesa parrocchiale di S. Bartolomeo, ed esercitassero il patronato sull’eremitorio di Lupocava, sulla chiesa di S. Maria in Pugnano, la giurisdizione politica e militare del castello fin dalla donazione di Ubaldo del 1109 continuava a dipendere dalla repubblica di Pisa. Ciò apparisce chiaramente da un documento del 4 giugno 1234(2) col quale i sindaci o revisori della gestione di Ugo Lupi, marchese di Soragna, poco innanzi podestà di Pisa, i giudici, i notari, i camarlenglii, che non avevano reso conto della loro amministrazione, i castellani di Ripa-fratta e di altri castelli dovevano essere sottoposti al sindacato. I nobili, come cittadini di Pisa , quando ave- (1) Doc. I. Anello la lifco elio l’abbate di S. Vito ebbe coi Duodi, Gae-tani e Gusmani termina con un compromesso che viene a riconoscere il giurispatronato per tutto quello che gli antenati della consorteria a-vevano donato. Vedi loc. cit. (2) Arch. Eoncioni, pergamena del -1 giugno’1234. vano bisogno di aiuto , ricorrevano al podestà di questa città, la quale s’assumeva la difesa dei loro domini contro chiunque avesse voluto danneggiarli. Così nel 1251 insieme coi Porcari e con alcuni cittadini di Pisa i nostri consorti si presentano davanti al podestà perchè il vescovo di Lucca, gli abbati dei monasteri di S. Pancrazio, di S. Sisto e di Quiesa e i nobili di Corvaia e di Vallecchia avevano assalito ed occupato le terre, che possedevano nel contado di Lucca, e lo pregavano che aggiudicasse loro in cambio i beni che quelli possedevano nel territorio di Pisa. Il giudice, dopo averli fatto giurare, li ammise al possesso dei beni chiesti in cambio, assolvendo anche gli abitanti di quelle terre dall’obbligo di riconoscere più i primi padroni e dal pagar loro i dazi, dovendo in luogo di essi riconoscere i Signori di Ripafratta e quegli altri che avevano ricevuto danno (1). Il castello di Ripafratta dopo la guerra fra Pisa e Firenze, terminata nel 1254 colla rotta di S. Savino, servì come capro espiatorio. Il Villani (2) e l’Ammirato (3) dicono che i Pisani, sopraffatti dalla potenza fiorentina, a-vrebbero mandato ambasciatori ad offrire ai nemici le chiavi della città e a chiedere pace, la quale avrebbero ottenuta, ma a duro patto, cioè colla condizione che i Fiorentini fossero liberi da ogni dazio, d’ ogni dritto di mercanzia e che mai i Pisani aiutassero i nemici di quelli, ed affinchè queste cose fossero osservate, dessero loro intanto il castello di Piombino o quello di Ripafratta (4). L’astuto Vernagallo allora nel senato avrebbe (1) Arch. Arcivesc. di Lucca ^ O. 32. Da questo documento si desume anche che i Corvaia e i Vallecchia dalia loro regione montana, erano scesi già nel contado di Pisa, dove possedevano alcuni beni. Quei di Porcari che compariscono coi Nobili di Ripafratta erano cittadini di Pisa fin dal secolo XII. Vedi il giuramento della pace dei 1000 cittadini. Dal Bohgo, op. e loc. cit. (2) Villani. Croniche, VI, 58. (3) Ammirato. Stor., I, 101, 102, anno 1253. Il Tronci (Annali Pisani; anno 1254) si riferisce a quanto dice Ricordano Malespini. (4) A tutti questi particolari non scende il continuatore del Caffaro; vedi nel Pektz, Scriptores, XVIII, p. 231. — 33 - proposto di mostrarsi più gelosi di Ripafratta che di Piombino, affinchè i Fiorentini preferissero quel castello a quest’ultimo. L’astuzia avrebbe colpito nel segno, poiché i Fiorentini furono contenti di ricevere il castello di Ripafratta con 150 ostaggi. Evidentemente qui abbiamo da fare con leggende sorte posteriormente quando i par-ticolari della pace si dimenticarono, e non si seppe spiegare come i Fiorentini, che andavano cercando ansiosamente uno sbocco sul mare , avessero poi preferito Ripafratta. Perciò si coniò la favola di Vernagallo la cui sagacia tornava ad onore dei Pisani, a disonore invece della diplomazia fiorentina (1). I nobili a malincuore dovettero vedere il castello in mano dei Fiorentini, i quali poi lo regalarono ai Lucchesi (2). Però il 24 settembre del 1261 i Pisani, che per difendere i Ghibellini avevano fatto una grossa lega, ricuperarono quella fortissima rocca dove per maggiore sicurezza mandarono dei soldati (3), perchè avevano molto di bisogno, nelle continue guerre che si facevano allora in Toscana fra guelfi e ghibellini, di tenere quel luogo fortificato. Nel 1267 minacciati probabilmente di perdere i loro castelli per opera di Carlo d’Angiò (4), che da Poggibonsi s’era diretto alla volta di Pisa, misero cento custodi a Ripafratta e nelle vicinanze. Allora Guido Pancone console della consorteria, i consorti Gherardo Conte. Gherardo Bocca e Rosso di Coli-gnore si recarono dal podestà di Pisa a lamentarsi d’essere molto gravati delle tante guardie messe nel loro territorio, tornando ciò a danno e diminuzione degli onori e dei dritti di giurisdizione spettanti a loro. Il podestà a nome del comune rispondeva che i dritti non restavano menomati, ma saldi ed integri (5). E in verità i (1) Volpe. Pisa, Firenze e Impero ni principio del 300 in Studi Storici del Crivellucci, voi. XI, p. 189. (2) Eepetti, op. e loe. cit. (3) Bonaini, op. cit., Breve pis. consulis, I, p. 145. (4) Villani. Croniche, VII, 22 : « partito il re Carlo a oste da Poggibonsi co1 Fiorentini, si cavalcarono sopra la città di Pisa ». (5) Doc. II. Giorn. St. e Lelt. della Liguria. 3 — 34 - Pisani non esercitavano ancora alcuna giurisdizione sulle terre dei Nobili, ma solamente sul castello, ed in quel tempo per difendersi dai possibili attacchi misero solo 100 custodi a Ripafratta e nelle vicinanze. I dritti padronali sulle terre e sugli u homines „ dei consorti non erano ancora intaccati menomamente, ed essi davano a livello, vendevano le loro terre, giudicavano i propri u homines „ senza alcuna ingerenza di ufficiale pisano (1). Però in seguito non mancano i tentativi della repubblica di Pisa di volersi intromettere anche nella giurisdizione criminale e civile spettante ai nostri consorti. Il 18 novembre 1282 un Bonaccorso di Benedetto abitante di Ripafratta, a nome del figlio Betto di cui animi nistrava i beni, venne a lamentarsi dinanzi alla u curia maleficiorum „ di Pisa della condanna che questa voleva emanare contro di lui, dicendo che questo diritto spettava ai nobili di Ripafratta, i quali esercitavano sui loro “ homines „ la giurisdizione non solo nelle cose civili, ma anche nelle criminali, da tanto tempo di cui non c’era più memoria. Evidentemente i pisani volevano arrogarsi il diritto di infliggere il bando contro Betto, Bonaccorso invece sosteneva che non spettava a loro, perchè il figliuolo era nato a Ripafratta ed abitava in questo luogo esercitandovi i servizi reali e personali, fino a quando cadde nel bando del console della consorteria. (1) Così a nome di tutta la consorteria nel 1212 Ugolino di Raimondo, Guelfo di Lamberto, Odimondo dei Signori di Ripafratta vendono a un Gherardo Caritelli gli introiti della « ripa » dall’una e dall’ altra parte del fiume per il prezzo di L. 146. (Liber Iurium, cit, fo. 27-28). Nel 1215 poi Ugolino console della consorteria vendo a Rubertino di Guidono Rossi de Cologniore per L. 209 tutti gli introiti, le rendite e i proventi della stessa « ripa » colle medesime condizioni fatte prima a un Amerigo da Ripafratta. Rubertino promette di pagare la 8.& parte agli 8 di giugno di quell’anno, l’altra terza parte dopo 1 mesi. (Liber Iurium cit., f. 26 a tergo 27). In caso di guerra la paga si doveva sospendere. La quale sospensione in caso di guerra non è una consuetudine nuova nella storia del dritto, sappiamo che in alcuni contratti di locazione a Lodi si contiene il patto esplicito che il pagamento del fitto si doveva sospendere in caso di guerra, mentre le consuetudini veronesi escludono ogni riduzione a questo titolo. (Lattes, op. cit., p, 321). — 35 - Il giudice, sentite le deposizioni di Buonaccorso, che dichiarava di protestare fortemente ove si fosse creduto il contrario, pregò il sindaco Lante a voler udire prima i testimoni. Lante acconsenti e i testimoni in numero di 23 fecero delle deposizioni in un giorno stabilito, nelle quali tutti affermarono che gli “ homines „ e il comune di Ripafratta erano sotto la giurisdizione dei Nobili. Il documento non dice in favore di chi fosse stata risolta la lite, ma dalle deposizioni fatte in senso favorevole ai consorti e dalla risoluzione di consimili liti posteriormente, dovrà dedursi che il diritto di condanna fosse rimasto ai Nobili di Ripafratta (1). Più che per il tentativo di intromissione del comune di Pisa sulla giurisdizione criminale e civile della consorteria, il documento ha importanza perchè parla di una “ Comunitas fidelium „ e ci permette di indagare lo stato di vita sociale e giuridica di quell’aggregato di u homines „ in rapporto ai loro signori. I nobili eleggevano ogni anno ufficiali u prò communi „ fra cui si enumerano: Notar!, Camerlenghi, Nunzi, Arbitri, Cafaggiari o guardiani rurali, Banditori (2). Non esisteva ancora un console eletto dagli uomini e solo per gli uomini, il “ consul pro nobilibus „, era anche “ consul pro hominibus Sebbene nello statuto non si parli affatto di una u communitas fidelium e forse perchè in esso si regolavano soltanto i rapporti reciproci dei consorti, pure una u communitas fidelium „ di Ripafratta dobbiamo ammetterla sin dalla seconda metà del ili Vedi doc. III. Un certo Francesco notaio si ricordava di questa giurisdizione esercitata dai Nobili da ‘25 anni , nn Bonaggiunta Grillo riporta i nomi dei consoli e dei rettori ch’egli vide. Uppezzino di rilettolo aggiunge che vide in quel tempo il detto comune governato dai nobili per mezzo di ufficiali, notari, camerlinghi, nunzi, guardiani, arbitri. Tutti i vari testimoni ricordano che un Gherardo Lnno per un delitto da lui commesso fn condannato ed accecato da Guelfo di Ripafratta, allora console del comune « prò se et ipsis nobilibus de Ripafracta sicut alios terrazzanos dicti communis ». i2) In altri comuni rurali questi ufficiali sono eletti dagli uomini della * communitas » d’accordo coi Signori, ovvero eletti dai consoli della * communitas » e investiti dai Signori locali come a Salviano, sottoposto con Livorno ai marchesi di Lunigiana. Volpe, op. cit., p. 61. - 36 — sec. XII, tanto più che i testimoni nelle loro deposizioni ricordano una “ communitas „ soggetta ai Nobili di Ripafratta u per tantum tempus cuius non extat memoria „. Però gli u homines benché costituiti in comunità, non formavano ancora un corpo politico a sé ; pur essendo trasformati socialmente ed economicamente e regolando in modo diverso da prima i loro rapporti coi Nobili, e-rano sempre sotto la loro giurisdizione. In una parola questa comunità senza consoli e senza veri organi rappresentativi viene ad assumere la forma e il carattere di diritto privato e noi la possiamo paragonare a quella di S. Gervasio. Però la formazione della “ communitas „ posteriormente sarà cagione di maggiori rivendicazioni, prodotte dalla cresciuta solidarietà, dall’ impulso e dalla disciplina data alla lotta. Vedremo più tardi come i Signori di Ripafratta faranno concessioni di altra natura, fra cui alcune schiettamente politiche. Ma prima che sorgesse questa u communitas „, in che rapporti giuridici e in che condizioni sociali si trovavano gli “ homines „ di Ripafratta? Nulla di positivo possiamo sapere della vita sociale e giuridica di questi contadini nel sec. XI e nel principio del successivo, ma probabilmente non saranno mancate le agitazioni cagionate dai troppi servigi e dalle angarie. La nuova fioritura della vita cittadina si ripercosse specialmente al principio del sec. XII su tutto il contado pisano, dove la sorgente economica del denaro doveva produrre delle crisi (1). Quando poi la popolazione cominciò ad essere eccessiva anche nel contado, allora i nobili minacciati da un disastro economico si sentirono mancare il terreno sotto i piedi. Vedendo le loro terre deprezzate, cercarono di realizzare in contanti i loro immobili e di inurbarsi, per partecipare al commercio e alle spedizioni marittime, come avvenne ai nostri consorti colla donazione di terza parte del castello nel 1109. In conseguenza di ciò le classi rurali , presso le quali i moti cittadini si ripercuotevano con efficacia, (1) Volpe, op. cit., p. 40 e segg. - 37 — cominciarono a ricostituirsi intimamente, a diventare capaci di organizzazione, di creare forme nuove, associazioni e nuovi istituti giuridici. Allora solo poteva sorgere una “ communitas fidelium „. Questa comunità di Ripafratta nei termini in cui si presenta costituita secondo il documento citato, si può dire che comprenda nel suo seno due organismi: l’aristocratico, rappresentato dai consorti, il democratico da tutti gli abitanti rurali. Diremo meglio due specie di associazioni distinte intimamente, unite esteriormente. Qui non abbiamo una compartecipazione di poteri, perchè il “ consul pro nobilibus „ e “ pro fidelibus „ è consorte ed eletto dai consorti, e gli ufficiali del comune sono eletti ogni anno da essi. Il comune di Ripafratta non è ancora arrivato a quello stadio delle comunità rurali, nel quale i consoli sono e-letti dal popolo e approvati dai signori, o popolo e signori eleggono una persona di fiducia per i loro interessi , ovvero ogni ordine si elegge da sè un proprio console. Dove l’elemento consorziale manca o è alquanto indebolito da non potere opporre resistenza al sorgere dei contadini, il comune rurale raggiunge presto molta autonomia e personalità giuridica (1). Invece nei comu-nelli che hanno da fare con una consorteria molto fòrte ci sono diversi gradi di organizzazione e di autonomia, corrispondenti al crescere delle ricchezze e dei mestieri nelle classi rurali, che quindi sentono aspirazione a maggior indipendenza. VI. I Signori di Ripafratta, com’è stato già detto, non stavano isolati nel loro territorio, tenendosi affatto estranei a quanto succedeva nel comune maggiore, ma spesso prendevano viva parte, al pari degli altri nobili stanziati nel contado e inurbatisi, alle guerre che Pisa sosteneva contro i suoi nemici e talvolta nelle lotte intestine si (1) Davidsohn, Geschìclite cit., p. 322-3. - 38 - schieravano per qualche partito. Infatti nelle guerre fra i Pisani e i Genovesi del 1285, come le altre principali famiglie, combatterono per l’onore della loro città (1). Il conte Ugolino quando si fece amico 1’ arcivescovo Ruggieri per concertare la rovina di Nino Visconti, giudice di Gallura, fu appoggiato anche da un Bonaccorso dei Nobili di Ripafratta (2), e in quelle lotte civili tra i Visconti e l’arcivescovo Ruggieri del 1288, i nobili di Ripafratta insieme coi Gualandi e coi Lanfranchi presero le parti di quest’ultimo e cooperarono alla rovina di U-golino (3). Costui nel 1285 per assicurarsi del governo, dopo avere esiliato molti ghibellini, aveva ceduto alcuni castelli a Firenze ed a Lucca, fra cui quello di Ripafratta , il quale durante la guerra fra la lega guelfa e Pisa continuò ad essere in mano dei Lucchesi (4). Ma fattosi intendere a costoro che una delle condizioni della concordia sarebbe stata la restituzione di alcuni castelli, la rocca di Ripafratta fu ricuperata dai Pisani insieme con Quosa, Asciano, Ponte a Serchio, Nozzano, Castiglion-cello (5) nel 1314. Prima di quest’ anno la repubblica di Lucca vi mandava propri ufficiali e gli abitanti di Ripafratta solevano consegnare ogni anno a lei un cero per Santa Croce (6). L’ uso di portare dei ceri alla chiesa par- (1) Il Roncioni, op. cit., p. 612 e 618 riporta i nomi dei Nobili di Ripafratta che si partirono da Pisa per andare ad incontrare l’armata dei Genovesi: Guelfo Roncioni, Filippo, Andrea Erici, Guglielmo Cattani, Giovanni Scaccieri, Simone Pancone. Ci dà anche il nome di coloro che rimasero prigionieri o morti nella fatale giornata della Meloria : « Puccio Roncioni, Coscio Salinguerra, Rinieri Bonda, Ugo Gobbetta, Puccio Cattanelli e Guelfo Bonda ». (2) Thonci, op. cit., p. 583. Questo Bonaccorso nel 1288, essendo vicario dell’ arcivescovo, morì combattendo presso Bientina p. 544. (3) Roncioni, op. cit., p. 637. Egli a sua volta ricava questa notizia dal Cancelliere del Capitolo della Chiesa Maggiore, il quale ne fece ricordo nel libro dei suoi contratti. (4) Anonimo Pisano in Muratori, S. Tì. /., XXIV, 648. G. Seiìcambi, Croniche pubblicate dai Bongi, Lucca, 1892, I, p. 13. 11 Ptolomeus (in Docum. di st. patria per la prov. di Toscana. 1876, p. 94) nomina anche Bientina. Il Rei-etti (op. e loc. cit.) nomina solo Ripafratta e Viareggio). (5) Tronci, Annali pisani, all’anno 1314. Repetti, op. e loc. cit. (6) Capitoli, 2, c. 8 (in Arch. di Stato lucchese) p. 221. L’Orsucci, op. ms cit., dice: « chome si vede per lo statuto del 1308 Ripafracta, Ponte — 39 - rocchiàle sarebbe una specie di sudditanza feudale, forse un avanzo del dominio dei vescovi nella prima età comunale , ma in realtà gli abitanti di Ripafratta non erano sudditi dei Lucchesi, benché costoro tenessero allora il castello e vi mandassero ufficiali, ma degli antichi loro Signori, sicché nel nostro caso scorgiamo piuttosto un semplice atto di ossequio, che facevano alla chiesa di Lucca. Nemmeno si può considerare atto di sudditanza il cero che gli uomini di Ripafratta offrivano alla beata Maria Vergine a Pisa (1), perchè anche i cittadini di Pisa dovevano offrirlo, il podestà stesso, i senatori, gli ufficiali, i signori di Sardegna, i consoli pisani fuori di città, insomma tutti i vari elementi del comune (2). I Pisani, ricuperato il castello, da prima vi mandavano ogni anno due castellani, i quali dovevano essere nati a Pisa o nel suo distretto e dovevano possedere lire 2000 in beni (3). Il salario di ognuno era di lire 25 e durante l'ufficio che alternavano a vicenda non era loro permesso di uscire dal distretto di Pisa e di contrarre relazioni coi nemici di questa città. La guarnigione non era fissa, perchè nel 1322 troviamo un solo castellano con una paga di lire dieci per ogni mese, poi 25 sergenti sottoposti a un “ magister Nella torre “ de flumine „ erano addetti altri 3 sergenti e 4 nella torre del monte (4). a Serchio e Ohuosa si ghodevano per Lucha. Ripafracta con il castello e el ponte con tutto il vicariato di Val di Serchio sì per li officiali che vi si mandavano. Questo si mostra per il cero che rendevano a Santa Croce e per nota di particolari ». Disgraziatamente gli statuti! di quell’anno non esistono, perchè furono bruciati, sicché non possiamo controllare le due narrative molto posteriori. (1) Bonaini, Brevis pis. communis, I, p. 46 « et idem faciam fieri de candelo ab hominibus Ripafractao dando ». Sarebbe l’anno 1275. (2) Bonaini, Brevis pis. communis, I, p. 45-6. (3) Bonaini, Brevis pis. communis, II, p. 146. Durante le guerre fra la lega guelfa e Pisa il castello dovette ricevere dei guasti, poiché il Po-destà^di Pisa promette di far riparare fra 4 mesi i solari delle torri e di spendere tutto quello che bisogna per ridurlo nel primiero stato. (4) Arch. di Stato di Pisa. Divisione A. 88 c. 8, 89, c. 13 e 19. Anche oggi si vedono queste due torri una a nord, 1’ altra a sud del castello-Dagli Ordinamento/ Salariorum del 1324 si rileva che il castellano, il quale non poteva essere « de burgo Ripefractae vel de tota A alle Serchi », — 40 - Ma a malgrado che i Pisani tenessero un castellano e dei sergenti nel castello di Ripafratta, la giurisdizione della nostra consorteria era intatta e s’ estendeva oltre che su Ripafratta, sui comunelli o borghi di Sosselvoli, Mutigliano e Colognore di Val di Serchio. Quali rapporti esistevano tra il comune rurale di Ripafratta e questi ultimi ? Probabilmente ci saranno stati tra queste piccole comunità rapporti federali, determinati da ragioni topografiche e dalla comune dipendenza patrimoniale agli stessi signori. Poiché 1’ unione di più ville o piccole comunità rurali deriva spesso dalia condizione uguale di fronte a un castello, talvolta questi comunelli rurali formavano nel contado di Pisa una specie di consorteria fra loro in opposizione a quella dei nobili, pagavano in comune le date e le prestanzie, eleggevano insieme consoli ed ufficiali che servivano per tutti i comuni. Il vincolo federativo durava fino a quando duravano gli interessi economici ed aveva lo scopo di sottrarsi il più possibile agli oneri fiscali (1). La giurisdizione esercitata dai nostri consorti, oltre che su Ripafratta, su Sosselvoli, Mutigliano e Colognore, dava non lieve preoccupazione alle piccole comunità rurali circostanti che non erano sottoposte ad alcun signore nè ad alcuna consorteria, e già verso il principio del sec. XIV era sorta una lite fra i Nobili e gli uomini dei ricordati comunelli da un lato e il comune di Pugnano dall’altro, a proposito di determinazioni di confini. Essendosi rivolti gli “ homines „ di Pugnano agli Anziani affinchè provvedessero alle loro dissensioni, fu mandato subito un Ser Testa officiale del capitano di Pisa per vedere sul luogo di che si trattasse. Nonostante le buone intenzioni di lui non si arrivò a mettere la pace fra i dissidenti, per la qual cosa i Pugna- doveva avere un’età superiore ai 30 e inferiore ai 70. Era proibito rigorosamente a lui, ai sergenti e ai canovari di ricevere in dono da coloro che passavano per quel castello con bestie, qualche agnello o « aliud directe vel per obliquum » sotto pena di L. 50. Bonaini, Ordinamento, Salariorum, II, p. 1137. (1) Volpe, op. cit., p. 54-56. - 41 — nesi più tardi si volsero di nuovo agli Anziani, i quali mandarono un’altra volta Ser Testa. I confini finalmente vennero determinati, ma in favore dei Pugnanesi e in danno dei Nobili di Ripafratta. Allora costoro il 26 maggio 1318 fecero una petizione agli Anziani (1), lamentandosi che Testa aveva posti i confini “ in dapnum et preiudicium dictorum communium „, perchè nel modo in cui furono determinati, essi venivano esclusi dalla consueta giurisdizione sui predetti comuni compresi a a turri fiuminis Ripefractae usque ad campum ortalem positum in loco dicto tìemontana..... et usque ad dictum commune (Mutilianum) et villam Colognoli inclusive etiam et per longitudinem et per transversum recta linea usque ad flumen Serchi Per indurre gli Anziani a far mettere i confini nel giusto luogo ricordavano d’essere stati ghibellini (2) e amanti sempre del benessere del comune pisano. Quei di Pugnano temendo alla loro volta che i termini segnati potessero essere rimossi, pregarono gli Anziani che li facessero mantenere intatti. Le due petizioni furono accolte e il capitano e i giudici di Pisa ebbero l’incarico di investigare i diritti d’ambedue le parti e di fare poi rispettare quel che avrebbero stabilito. Non sappiamo nulla della soluzione della lite, comunque sia stata, è certo che i comuni di Colognore, Mutigliano e Sosselvoli continuarono a rimanere sotto la giurisdizione dei consorti di Ripafratta, mentre Pugnano ne fu esente (3). I motivi di litigi fra i Nobili e gli uomini (1) Doc. IV. (2) Che Ghibellini fossero stati i nostri nobili risulta evidente dal fatto che nei rivolgimenti ohe avvennero sotto Ugolino Visconti si u-nirono coi principali capi del partito ghibellino: l’arcivescovo Ruggieri, i Gualandi, i Sismondi e i Lanfranchi. I signori delle campagne poi per interesse e per tradizione erano per la maggior parte ghibellini, come i Guidi, i Cadolingi nel contado di Firenze, i Gherardesca nel contado di Pisa. (3) Ciò vien provato dalle espressioni che troviamo in documenti posteriori « de communi Cologniuoli communis Ripefractae ». (Reg. Liber Iurium, 39 tergo). In quest’ultimo documento si trova pure l’espressione « de Pugnano » senza l’aggiunta « comunis Ripafractae », il che prova che quest’ultimo comune faceva parte a sè. — 42 — di Pugnano non cessarono. Un’altra lite infatti sorse nel 1331 che durò fino al 1340. Alcuni Pugnanesi avevano apportato guasti a Monte Maggiore, proprietà della consorteria, allora il console nella u curia cattanorum „ li condanna a una multa. Quelli si appellano alla “ curia maleficiorum „ di Pisa, perchè non essendo sottomessi ai Nobili di Ripafratta non potevano esser condannati da loro. I consorti istituiscono loro procuratore in quella curia il notaio Buonaccorso di Peccioli, il quale reclamò la detta multa per i danni, i guasti e le spese fatte. I Pugnanesi si difesero dicendo che i guasti non erano avvenuti secondo la maniera e-sposta da Buonaccorso. Dopo varie deposizioni fatte in diversi giorni e presso a poco le stesse, si emanò una sentenza favorevole ai consorti, la quale condannava i predetti alla multa di 10 soldi e ad altre spese. Un fatto degno di essere rilevato in questa definizione di lite è che il comune di Pisa invece di favorire gli “ homines „ di Pugnano contro le pretensioni e la giurisdizione dei signori, riconosce e favorisce i diritti di quest’ultimi, mentre di solito i comuni maggiori interessati a crescere il numero dei cittadini e ad indebolire i signori del contado, favoriscono i comitatini e i coloni dei comuni rurali (1). Non solo Pisa non aiuta gli abitanti della comunità di Ripafratta a liberarsi dalla soggezione dei Nobili, ma talvolta impone loro delle grosse tasse, associandosi insieme coi consorti per opprimerli. Cosi avendo nel 1336 gli Anziani imposto lore una tassa di 600 lire di danaro e non, volendo a niun costo diminuirla, i consorti u cum ipsi eorum fideles non sint soliti solvere huiusmodi impositionem „, pregarono il podestà di mandare in aiuto del console dei Nobili di Ripafratta alcuni uomini armati u berrovarios „ per obbligare gli u homines „ a pagare, e colla facoltà di condurli , se si rifiutassero, alle carceri di Pisa, donde sarebbero poi stati rilasciati per mandato ufficiale dello (1) Salvioli, Storia del diritto ital., p. 267. — 43 - stesso console dei nobili. Con questo mezzo, dicevano essi, i loro “ fideles „ sarebbero stati ubbidienti, avrebbero pagato non solo l’imposta predetta, ma anche i debiti verso i cittadini di Pisa (1). Cosi la preponderanza pisana comincia ad estendersi anche sulla piccola comunità di Ripafratta, benché si riconoscano tutti i diritti di giurisdizione spettanti ai signori consorti. Già fin dal 1325 era stato mandato dal comune di Pisa presso Ripafratta un ufficiale (2) “ super quibusdam sibi commissis „ forse per sorvegliare la fortificazione del castello. Nello stesso anno troviamo cinque sergenti u palatii pisani potestatis „. Quale attribuzione avesse quel podestà, mentre è indubitato che i Signori di Ripafratta avevano giurisdizione sulla piccola comunità, non sappiamo. Si noti poi che i “ sergentes „ del palazzo del podestà compariscono solo fino al 1330, dopo non più (3). Nel 1340 a Nicolò Salinguerra console della consorteria si pagarono dai doganieri del sale del comune di Pisa 60 lire di denaro per 1200 staia di sale, venduti dai Pisani ai Lucchesi, perchè il sale era stato dato loro u sgabellatili „, cioè senza che pagassero il dazio di gabella dovuto ai Nobili per il diritto di passaggio (4). VII. Tutti ormai ammettono che dopo il sec. XII s’ ebbe in Italia un aumento di popolazione che crebbe via via nei secoli successivi. Questo fatto produsse il dislivello fra la produzione e il consumo e quindi effetti economici sociali e per contraccolpo politici. L’ aumento di bocche (li Liber Iurium cit., fo. 28 a tergo 29. (2) Arch. di Stato, Provvisione 91, c. 15 tergo: « Bernardo de Pariolo notario officiali pisani communis apud Ripamfractam super quibusdam sibi commissis eius salarium et mercedem duorum mensium finiendum die octava mensis decembris prox, vent. ad ractionem libras 15 ». (3) Arch. di Stato. Provvisione A, 91, c. 36 tergo. Nel 1328 i sergenti del palazzo del podestà sono tre (Arch. di St. A, Prov. 93, c. 6 tergo. Nel 1330 di nuovo 1 (A, Prov. 96, c. 31). (4; Liber Iurium cit., f. 69. — 44 — annientò infatti la richiesta dei prodotti agricoli e mise i signori nella necessita di dare nuove terre a cultura. Riuscendo infruttifero il lavoro servile, i proprietari allora cominciarono a liberare i servi, dando loro a locazione insieme con la libertà personale le terre, i boschi per dissodarli. In tal modo sostituendosi alla costrizione servile il contratto enfiteutico, il servo divenuto proprietario fu interessato alla produzione, la terra fruttò molto di più e le classi rurali così fecero un gran progresso nella via della libertà (1). V’ era anche il timore che i servi potessero scappare dai loro domini, perchè invitati da altri proprietari. La concorrenza dei proprietari doveva favorire naturalmente la liberazione dei servi della gleba. Gli abitanti della comunità di Ripafratta nel tempo in cui fu compilato lo statuto (fine del sec. XII e principio del sec. XIII) ci appariscono “ homines, fideles „ cioè in uno stadio avanzato, in una condizione superiore ai rustici o servi della gleba, giacché il termine “ fideles „ non indica propriamente la servitù “ ma il riconoscimento di un patronato „ (2). E nonostante si fossero costituiti in una “ communitas „ pure stavano ancora sotto la giurisdizione dei Nobili, i quali eleggevano ufficiali e il console ch’era a un tempo “ pro dominis e prò communi „. I contratti di livello “ in perpetuum „ apriranno la via alla loro emancipazione economica, che comincia senza dubbio dalla fine del sec. XIII. Giacché il primo contratto “ In perpetuum „ che i nostri consorti fanno coi loro “ homines „ è del 1 gennaio 1281, con il quale Giacomo di Ugolino console della consorteria allivella un pezzo (1) Salvemini, Magnali e Popolani cit., p. 45, e poi Studi Storici, Firenze, 1901, p. 5. (2) In Francia la liberazione dei servi della gleba fu favorita dagli « ho3pites » o coloni, direttamente e indirettamente. Direttamente perchè il colono che arrivava alla terra di un altro proprietario non poteva essere trattato come servo , indirettamente , perchè per evitare lo spopolamento i signori liberarono i lori servi. Vedi Henri Sée. Les hótes et les progrhs des classez rurales en France au moyen àge (in Nouvelle revue liistoi ique de droit franqais et etranger, 1898, p. 116). - 45 - di terra nei confini di Flesso con un censo annuo di cento lire e di soldi cinque (1). La locazione “ in perpetuum „ di Monte Maggiore del 1362 indica il maggior progresso della nostra comunità nella sua indipendenza economica (2). Federico di Enrico allora console dei nobili ed altri “ participes dicte rei „ (3) locano u in perpetuum „ il monte sopradetto a Lupolo, Puccio e ad altri procuratori del comune con tutti i diritti reali, personali e misti che sarebbero spettati ai locatari. Il comune poteva ora tenere quel monte, trarne qualche vantaggio, tagliarvi legna, portarvi bestie a pascolare tanto per l’utile di tutti quanto per 1’ utile di ciascuno, non doveva però menomare gli onori e gli altri diritti dei Nobili. I detti procuratori dovevano sempre riconoscerli “ in dominos e pro dominis „ pagando ogni anno per il livello trenta lire nella festa di S. Michele, un agnello e cento uova per Pasqua. I nobili potevano, benché Monte Maggiore fosse dato in livello al comune, portarvi a pascolo fino a tre bestie grosse ed era loro lecito nel tempo in cui dimoravano in Val di Serchio, tagliarvi legna minute e ricavarvi il necessario (4). Le disposizioni del contratto in cui i canoni si veggono ben determinati, sono molto liberali e favorevoli alla nostra comunità (5). Il comune di Pisa convalidò questo atto, favorendo così gli interessi del comune rurale e un po’ quelli della consorteria, la quale con questo mezzo si assicurò una rendita perpetua (1) Liber Iurium cit., fo. 31-32. (2) Sarebbe un grave errore considerare questa locazione come il primo passo alla emancipazione economica della nostra piccola comunità. Sì fatta indipendenza economica avviene nel sec. XIV se mai nei castelli dove era rimasto un signore, ma questo non è il caso della grandissima maggioranza delle comunità rurali, dove la trosfoimazione e del secolo XII e XIII. (3) Il « participes dicto rei » rivela cho la consorteria aveva già attenuato 1’ originario carattere gentilizio , ammettendo estranei nel suo seno forse allo scopo di rafforzarla. (4) Liber Iurium cit., fo. 49-55. (5) Queste determinazioni di canoni dovuti al signore come proprietario della terra e come sovrano politico è la prima conquista del contadino. Salvemini, Studi Storici cit., p. 294. _ 46 — senza 1’ onere di alcuna spesa. Nel secolo XIV generali furono questi contratti di locazione, detti anche di colonia, rendita, fitto, o censo perpetuo, in cui i padroni lasciando ai conduttori il libero godimento della loro proprietà , imposero delle restrizioni di varia natura (1). In questo modo quelli che avevano ricevuto terre a colonia o a fitto per lunghissimo tempo con responsioni di quote annue, miglioravano la loro condizione , come avvenne agli u homines „ di Ripafratta. In seguito i monti, le foreste, che si concedevano a livello perpetuo coi diritti d’uso ai fittaiuoli, costituirono i beni comunali u communia „, quando gli “ homines „ dei comuni rurali appresero dalla città uno spirito d’indipendenza e di ribellione contro i signori e la città ebbe interesse ad accrescere questo spirito per diminuire la potenza dei Signori rurali (2). Una certa indipendenza politica, se pure si può parlare di libertà politica nelle piccole terre del contado, acquistò la comunità rurale di Ripafratta nel 1356, nel quale anno “ maior et sanior pars nobilium de Ripafracta (3) „ cedette a Lemmo e Pucciarino, sindaci e procuratori del popolo e della chiesa di S. Bartolomeo (4), il (1) Salvioli, op. cit., p. 234. (2) Maccioni, op. cit, p. 562. (3) In questa « maior pars » era compreso Giacomo < miles », Lommo, Kinieri Salinguerra e Andrea Belluzzo. Giacomo e Lemmo figli di Enrico nel 1350 erano ammessi a Pisa nel quartiere del Ponte con uno stipendio. (Arch. di Stato. A. Provv. 115, c. 105). Nello stesso anno Giacomo comparisce fra i componenti del Senato. (Arch. di Stato. A. Prov. 62, e. 1). Non solo erano ammessi come cittadini nel comune di Pisa, ma facevano parte anche delle più alte magistrature. Talvolta erano mandati come podestà in qualche comune rurale sottoposto a Pisa. Così Giacomo nel 1354 fu eletto vicario di Camporeggiana e poteva tenere due servi alle spese della vicaria. (Arch. di Stato A. Provv. 120, c. 49), nel 1358 era podestà della terra di Castiglione Pisano. (A. 128, c. 101 te.). Lemmo il 1358 fu podestà di Vico (A. 118, c. 20). Andrea Belluzzo fu anche podestà di Monti nel 1363. (4) Liber Iurium cit., da fo. 54 tergo a 56. Di questi sindaci o procuratori eletti dal comune come loro rappresentanti abbiamo altri esempi. In Campagnano nel 1270 il popolo e il cardinale Anibaldi, signore della terra, vennero a patti e il popolo creò un tal Angelo di Pancrazio suo sindaco e procuratore perchè li ratificasse, e tanto il signore - 47 - dritto di potere condannare e giudicare di tutti i danni che si sarebbero fatti nel comune. Mentre prima il “ consul „ della consorteria era “ consul fidelium ora abbiamo sindaci e consoli del comune e della chiesa di San Bartolomeo separati. Il denaro che i nuovi consoli avrebbero ricavato dalle condanne dovea spendersi a beneficio della Chiesa. Erano eletti ogni anno dal popolo, ma sempre dietro l’autorità dei nobili, i quali se venivano a sapere che quelli mancavano di buona fede e spendevano il denaro per altro piuttosto che per la chiesa, li facevano condannare dal loro console e li obbligavano alla restituzione del denaro e ad altre spese. A ognuno poi era lecito venire a chiedere giustizia presso la curia della consorteria, ove i consoli del comune non avessero ristorato i danni apportati nei campi, nelle vigne e nei beni. Quel che segna maggiormente un passo innanzi nelle condizioni di vita di quei popolani è lo sgravio di molti o-neri; “ oneribus tam personarum quam expensarum per dictos nobiles relivantur ractione dicte concessionis eis facte „. I consoli promisero in compenso di pagare ogni anno per natale otto buoni capponi e alla prima di maggio ventotto, o 35 soldi per ogni cappone. Ogni venti anni ai consoli della consorteria dovevano rinnovare l’atto, se no cadevano d’ ufficio. Questa concessione dove sono determinati i nuovi patti fra i Nobili e il comune non è in fondo che una specie di statuto, e noi sappiamo cho spesso gli statuti venivano presentati sotto la forma e il nome di contratti (1). Essa non ci accenna a lotte precedenti fra i Nobili e i “ fideles „, anzi sembra una concessione fatta u ad omnium sanctorum reverentiam cri-stianorum cunctorum „ (2), ma talora queste concessioni benevoli apparentemente, erano il frutto di una lenta lotta e venivano imposte dai sudditi (3). Ora, il comune quanto il popolo si obbligarono a rispettarli. Schupfer , Storia del diritto cit., p. 399. CI) Schotfrr, op. cit., p. 399. (2) Cosi lo statuto di Rivalta del 1293 fu fatto e ordinato a onore di Dio e della Vergine. Schupfer, op. cit., p. 400. (3) Lattes, op. cit., p. 365. — 48 - rurale di Ripafratta ci si presenta in una posizione semilibera, amministrato cioè da propri consoli, i quali appena eletti dal popolo sono investiti dai Nobili. Non possiamo determinare i limiti dell’ autonomia dei fedeli, nè sappiamo come erano eletti i consoli del comune. Vili. Spesso qualche abitante di una delle comunità soggette ai Nobili ricorreva alla a curia maleficiorum „ di Pisa per ottenere giustizia, ma quando questa veniva a conoscere che gli accusati erano sotto la giurisdizione dei Nobili, dichiarava di non poter provvedere ; però talvolta mandava un nunzio che ordinava ai notari e ai cancellieri di quel comune di condannarli. Nello stesso modo un Vannuccio di Ripafratta e un certo Paiello nell’ottobre del 1345 essendo visti condurre carri ferrati per la città di Pisa, borghi e sobborghi contro la consuetudine del breve del comune pisano, (l’uno col carro pieno di grano , 1’ altro col carro pieno di vino), furono inquisiti e invitati a presentarsi alla curia. Discussasi la causa e saputosi, come prima, eh’ erano sotto la giurisdizione dei Nobili di Ripafratta, non si procedette alla loro condanna (1). L’intervento del comune di Pisa veniva talvolta chiesto dai Nobili stessi. Cosi il 28 marzo 1357 i Nobili pregarono gli Anziani a voler mandare dei soldati nel loro territorio, perchè molti del distretto di Lucca, di Pisa e d’altre parti venivano spesso a recar loro danno ed essi non potevano condannarli, perchè non erano sotto la loro giurisdizione (2). Mentre i consoli della piccola comunità, come più sopra abbiamo detto , potevano solo giudicare dei danni e dei guasti apportati al popolo o alla comunità di San Bartolomeo, ai Nobili spettava l’emanare sentenze in qualunque causa civile e criminale. Infatti il 26 novem- (1) Liber Iurium cit., fo. 343-7. (2) Liber Iurium cit., fo. 29. -- 49 - bre 1350 fu emanata dalla loro curia, che allora era posta a Pisa nella casa di Francesco Damiano dottore in legge, una sentenza contro un certo Ciucchino del comune di Ripafratta. Costui era stato denunziato il 4 novembre a Francesco Lippi, console della consorteria e dei loro fedeli, da Pucciarino Lupolo e Sacchino Ceo consoli e sindaci del connine, perchè nella via pubblica era sceso a parole ingiuriose con Francesco Nino di Pugnano e poi lo aveva assaltato con armi. Il console, avuta la denunzia, lo invitò a comparire alla curia per difendersi ; ma egli non si presentò e allora fu condannato a lire 25 di denaro, qualora fra sei giorni non fosse comparso. Trascorso questo tempo non poteva uscire di casa e o-gnuno poteva impunemente offenderlo nella persona e negli averi (1). La condanna perciò partiva dalla curia dei Nobili, essendo ai consoli del comune riservato solo l’ufficio di denunziare i colpevoli. Il 3 gennaio 1362 alcuni del comune di Colognole col consenso di Lemmo, allora console, e di Ranieri Salin-guerra, ambedue dei Nobili di Ripafratta, istituiscono una specie di procuratore o nunzio nella persona di un ser Bartolomeo. Costui doveva comparire innanzi ser Nicolò da Lancino d’Aricio, maggiore ufficiale della curia grassa e del divieto di Pisa per difendere i loro interessi in o-gni lite e nelle cause civili e criminali. Egli era tenuto (1) Arch. Roncioni, pergamena n. 1116: « denuntiatus in curia Nobilium de Ripafracta cum Francischo Nini de communi Pugnani coram Francischo Lippi de Ripafracta consule nobilium de Ripafracta eorum-que fidelium a Pucciarino LupoLi et Sacchino Cei de suprascripto communi consulibus et sindicis suprascripti communis consulatus et sinda-catus nomine pro dicto communi hoc anno et indictione die 1 novem-bris de eo et super eo videlicet quod ipsi venerunt simul ad verba iniu-riosa in quibus verbis unus ivit contra alterum cum uno gladio evaginato in manu admenando dictum gladium...... Fuit monitus et inquisitus per publicum nuntium suprascripto anno ex parte suprascripti consulis qui ad certum terminum ìam elapsum venire et comparere deberet coram suprascripto consuli ad suprascriptam curiam..... Et non venit, ideo ex parte suprascripti Francischi consul est per Colum Cani nuntium supra- scripte curie in libris *25 dr. pis. suprascripte curie exbannitus.....Actum Pisis in curia suprascriptorum Nobilium posita in apotheca domui habitatae Francischi Damiani.... ». Giorn. St. o Leti. Mia Liguria. 4 “ ad juramentum calumpnie et veritatis dicende...... pre- standum et faciendum et ad petendum beneficium restitutionis in integrum tam principaliter quam incidenter seu emergente!', et ad sententias et sententiam tam contumaces quam diffinitivas et iriterlocutorias et quaslibet alias petendum, capiendum et audiendum doveva fare anche compromessi , notificazioni , denunzie , proteste e composizioni con qualunque persona (1). Il console Lemmo a sua volta a nome suo e del fratello Giacomo, di Bartolomeo Gaitanelli, di Bettuccio e del venerabile Ranieri (2) istituisce anche un procuratore nella stessa persona di ser Bartolomeo (3). Questo procuratore era in (1) Liber Iurium cit, 57 tergo 58. (2) Ranieri dei Nobili di Ripafratta fu arciprete di Pisa, come si rileva da vari documenti. Il 30 marzo 1354 concede in affitto per 10 anni a Lemmo da Mutigliano un pezzo di terra (perg. n. 1087, Roncioni), similmente un altro pezzo di terra nel 1358 (perg. n. 1107 , Roncioni). Fu mandato come ambasciatore alla Curia Romana (A, Provv. 141, c. 2 tergo) e nel 1370 andò con altri ambasciatore a Lucca (A. 115, c. 56) Il 9 maggio 1372 Giacomo, uno dei Nobili di Ripafratta, riceve dall’arciprete Ranieri 30 fiorini d’ oro, che promette di restituire nel maggio (perg. n. 1164, Roncioni). Giacomo, come altri dei nostri consorti, apparisce nella seconda metà del sec. XIV, scarso di quattrini. ciò era naturale, perchè i beni immobili perdevano di valore rispetto al numerario. (Vedi perg. n. 1166, Roncioni, la quale mostra come Giacomo si era fatto prestare fiorini 12 dalla moglie). Ranieri nel 1375 fu podestà di Piombino (A, Prov. 153, c. 24) e poi Vicario nella Marittima (A. 155, c. 4 tergo e 10). (3) Libar Iurium cit., 58 t. 60. « Ex hoc publico instrumento sit omnibus manifestum quod Lemmus condam domini Henric.i de Nobilibus de Ripafracta prò se ipso et suo nomine proprio et ipse idem Lemmus vicarius et locumtenens domini Iacobi germani sui et filii condam dicti domini Henrici de nobilibus et dominis predictis nunc consulis nobilium et dominorum predictorum vicariatus nomine prò dieto domino Iacobo nec non etiam procurator ipsius domini Iacobi ad hec et alia facienda ut constare dixit per cartam rogatam a Biasio Clavelli notario de Ma-laventre procuratorio nomine prò eo et ipse idem Lemmus prò Bartho-lomeo condam Andree Gattanelli et Bettuccio condam Castiarelli de nobilibus et dominis predictis..... et venerabilis vir Rainerius procurator ecclesie S. Sisti f. q. domini Salinguerre de nobilibus et dominis praedictis..... qui predicti nobiles sunt maior et sanior pars et ultra quam due partes nobilium et dominorum de Ripafracta omni iure , via et modo quibus melius potuerunt fecerunt et ordinaverunt........ certum nuntium suprascriptum Ser Bartholomeum.......Actum Pisis suprascripto loco------- anno indictione suprascripto die ». — 51 — sostanza una specie di deputato dal comune di Colo-gnole e dai Nobili, il quale doveva rappresentarli a Pisa e doveva difendere, quando occorreva, gli interessi e le loro ragioni. Q.uesto esempio non è raro nel contado pisano. Anche “ l’universitas „ di Montemassi e Valignano elegge un procuratore per trattare i propri interessi davanti a tutte le curie civili ed ecclesiastiche di Pisa (1). Mentre continuavano ad essere buoni i rapporti fra i Nobili di Ripafratta e i Pisani, che essendo padroni del castello (2) , vi mandavano sempre una guarnigione di soldati, nel 1372 nacquero litigi fra quelli e i Lucchesi. Il cronista Roncioni non ne spiega la ragione, ma probabilmente i litigi saranno stati motivati dalla giurisdizione che essi esercitavano, la quale forse si voleva e-stendere sul territorio lucchese, o dai dritti di pedaggio e di ripatico che ancora si arrogavano di esigere. Le loro discordie, dice il Roncioni, sollevarono anche i popoli vicini specialmente i Filettulesi, fedeli all’arcivescovo di Pisa, Giovanni Scherlatti, il quale favoriva i Ripa-frattesi. Successero “ occisioni e robbarie „ (3) dall’ una parte e dall’altra, finalmente gli Anziani di Lucca, eletti come sindaci, procuratori e ambasciatori del comune : Marchese de’ Gigli, Giovanni Onesti e Dino Malapresa, li mandarono a Ripafratta, affinchè coll’arcivescovo e coi nobili cattani facessero concordia (4). I Pisani vi mandarono Giovanni Rossi dei Lanfranchi, Rinieri Sardi, Ludovico Rossermino e Buonaccorso Ciampoli (5). Non sappiamo le condizioni della pace, ma certo questa fu sti- (1) Vot.pe, op. cit., p. 94. (2) Erra il Roncioni quando dice che i Nobili di Ripafratta furono padroni del castello fino al 1396 e solo nel 1361 i Pisani lo tennero per breve tempo , essendo stato ben tosto ricuperato. Questa sua affermazione urta contro le provvisioni che faceva la repubblica pisana riguardo al castellano, ai sergenti, alle fortificazioni fin dal sec. XIT, come nel principio del nostro studio s’è visto. (3) Roncioni, op. cit., p. 909-10. (4) Doc. V. (5) Sbaglia pure il Roncioni affermando che questi ambasciatori pisani conchiusero la pace fra l’arcivescovo e i Nobili. pulata nell’agosto del 1372 a Ripafratta e a Pugnano (1). La pace pare non fosse duratura, perchè alla fine del 1377 o al principio del 1378 sorsero di nuovo dissensi “ e crescendo gli odii e i rancori si fecero di molti danni „ (2) fino a che si pacificarono dietro le convenzioni, le promesse e le obbligazioni contratte da Matteo Gigli procuratore del comune di Lucca e da Gerardo di Bartolomeo Coscio dei Nobili di Ripafratta a nome della consorteria e del comune (3). Nel 1494 i nostri consorti intentano una lite al comune di Pisa per avere la “ curia maleficiorum „ fatto incarcerare e condurre nella prigione di S. Michele, Bartolomeo Gaitanelli (4) dei nobili di Ripafratta, dopo avere sequestrati tutti i suoi beni mobili e immobili perchè era debitore di molte persone ed era fallito. Betto di Coscio podestà del comune di Ripafratta e Cristoforo di Giacomo, ambedue della nostra consorteria protestarono fieramente, dicendo che essi e i consorti erano stati sempre i padroni del comune e delle persone di Ripafratta da tanto tempo di cui non esisteva memoria (5), e che perciò i Pisani non avevano il dritto (1) L’atto con cui gli Anziani di Lucca istituiscono i tre procuratori è del 21 agosto, e poi esiste una provvisione degli Anziani di Pisa del 16 agosto in cui si attesta di avere speso 52 lire, 10 soldi e 2 denari per il mantenimento degli ambasciatori « Laurentio Iohannis expensori dominorum Anthianorum, libras quinquaginta duas, solidos decem et denarios duos sine cabella et omni alia retentione per eum solutos et expensos de mandato dominorum Anthianorum in pane vinis carnibus pullis caseo confectionibus ovis et fructibus, ordeo, vino fariis et oleo missis Eipafractam et Pugnanum pro victu Ambaxiatorum pisani communis qni fecerunt conventiones inter commune pisanum et lucanum cum Ambaxiatoribus et commissariis lucani communis ». A. Prov. 149, c. 20 tergo. (2) Rokcioni, op. cit., p. 928. (3) Doc. VI. (4) Costui era stato un vero dilapidatore delle sue sostanze, perchè nel 1392 aveva persino venduto ed alienato i corredi della moglie Giovanna per la somma di L. 300 e altri beui di lei per L. 100. (Perg. n. 1214 dell’Arch. Roncioni). Probabilmente avrà contratto debiti coi cittadini e perciò fu imprigionato. (5) Liber Iurium cit. fo. 79-106. Notiamo l’espressione « a toto tempore cuius memoria non existit » una delle forinole del dritto consuetudinario, dove si vede la prevalenza del dritto germanico sul romano — 53 - di arrestare alcuno sul territorio ch’era sotto la loro giurisdizione. Si procedette alle solite interrogazioni dei testimoni, i quali tutti deposero che i Pisani non s’intromisero mai nella giurisdizione dei Nobili di Ripafratta e che Gaitanelli fu imprigionato illegalmente. A prova di questa giurisdizione si depose che volendo un certo Lorenzo da Bergamo e un fiorentino detto Figliambuco fare un duello a Pisa e avendo chiesto un campo adatto, venne loro rifiutato , allora i Nobili di Ripafratta e Ranieri podestà assicurarono il campo nel loro distretto e lo fecero custodire dai propri “ homines Bettuccio e Cristoforo dichiararono che nessun ufficiale era stato posto nel territorio dei Nobili da parte del comune di Pisa senza il loro permesso (1). Dicevano anche che Piero di Orlando capitano di Val di Serchio, dovendo condannare alcuni uomini di Ripafratta, i quali avevano recato dei guasti nel territorio e nei confini del contado pisano, chiese prima il permesso al rettore o podestà dei Nobili e del comune. L’intenzione di Gaitanelli non era stata, secondo essi, di defraudare i creditori. Il podestà di Pisa, vagliate tutte queste ragioni addotte, lo liberò dalle carceri e condannò invece ser Giacomo di Villano (2) che l’aveva arrestato, alle spese da pagarsi a Bettuccio e a Cristoforo. In questo giudicio della u curia maleficiorum „ si parla più volte di podestà o rettore dei Nobili e del comune. Che questo podestà ci sia stato sempre non pare, perchè (Lattes, op. cit, p. 229). Il lungo tempo in cui per il passato 1 Nobili di Kipafratta avevano usato giurisdizione civile e criminale ora costituiva un dritto. (1) A ciò non si può credere in tutto , poiché i Pisani del permesso facevano talvolta senza, come quando mandarono 100 custodi a Ripafratta e nei dintorni, per la qual cosa i Nobili si lamentarono aspramente. Nel 1354 fu eletto dagli Anziani un « massarius conservationis » anche per la rocca di Ripafratta (A. Prov, 121, c. 159). Le provvisioni riguardanti la fortificazione del castello durano per tutto il sec. Xl"\ . (A. 145, c. 27 ; 147, c 129; 148, c. 19, c. 40, c. 67). (2) Era stato costui nel 1371 « officialis et collateralis domini Iacobi de Ripafracta potestatis Vici et Vallis de Buti ». Arch. di Stato A 148, c. 07 tergo. — 56 — furono in fine prostrati, abbattuti, privati di ogni giurisdizione e ridotti a piccoli proprietari di campagna. I Gherardesca imprigionati e poi banditi dalla città non ebbero più quella potenza di una volta, essi eh' erano stati sovrani in Sardegna e avevano sfoggiato nella città un lusso principesco. La mano della nostra consorteria pesò troppo sugli uomini di Ripafratta, i quali perciò durarono fatica a costituirsi in una u universitas „ e quando ci riuscirono tra la fine del secolo XII e il principio del secolo XIII, non si seppero sbarazzare di quella cappa di piombo della giurisdizione nobiliare, sotto cui la libertà respirava a stento, e dovettero stare sotto la loro dipendenza sino alla fine del secolo XIV. Come attecchì la nostra consorteria sino a questo tempo? La ragione si deve ricercare nel fatto che Pisa non distrusse veramente le consorterie nobiliari del contado, nè le assoggettò colle armi comunali, ma se le assimilò con una lenta infiltrazione , mentre altri comuni maggiori tagliarono i nervi ai signori del contado, sottomettendoli per necessario bisogno di espansione. E se le altre consorterie del contado pisano per questa forza di assimilazione esercitata da Pisa s’indebolirono presto, non cosi la nostra, perchè meglio organizzata e perchè i beni patrimoniali di lei non erano divisi qua e là, essendo l’estensione della giurisdizione dei consorti circoscritta nella valle del Serchio. Non così erano i beni e la giurisdizione di altre consorterie come quelle della Gherardesca e degli Uppez-zinghi. Però la nostra consorteria si mantenne forte solo nelle terre avite, debole invece fu nella città, perchè tutti i componenti non vi risiedevano e i beni patrimoniali e-rano un po’ lontani ; ma principalmente perchè non avevano parte nell’attività marinaresca che produsse a sua volta corporazioni mercantili e associazioni diverse piene di vitalità. Michele Lupo Gentile. DOCUMENTI. I. 1242 dicembre 23. Lodo di una lite sorta /ra i Nobili di Sipa/ratta e gli agostiniani del monastero di Lupocavo o Rupecara. In Dei nomine amen. Nos presbiter Bonus plebanus plebis de Flexio lucensis diocesis et Lambertus Solfa condam Lucterii de Ripafracta, arbitri es compromisso electi a Gaitano condarn Guidonis Rossi de Colognore consule virorum nobilium de Ripafracta pro se et consulatus nomine pro suis consortibus nobilibus de Ripafracta ex una parte et a presbitero Henrico et fi ate Prospero et frate Bic-como et frate Bartholomeo et frate Tomaso keremitis heremitorii de Lupucava prò suprascripta ecclesia et heremitorio ex altera ad omnes lites et discordias et controversias que inter eos sunt vel esse possunt de electione facienda de domino et rectore et pastore supra-scripte ecclesiae et heremitorii diffiniendas a nobis per ractionem laudamentum aut conventum et nostro libero arbitrio cum pentione et sine libello et petitione et sine libello et lite contestanda et non contestata diebus feriatis et non feriatis quod partes refoverunt feriis. Et inter se statuerunt per confessiones et testes qui fient et dabuntur coram dictis arbitris et omnia que fient coram eisdem arbitris valeant tamque si facte et facta erunt coram quibuscumque judicibus ecclesiasticis et civilibus, promictentes inter se vieissim obligando dictus Gaitanus se consulatus nomine pro suis consortibus et consortis suos omnes et bona omnia. Et dicti fratres obligando se et eorum successores et bona suprascripto Ecclesie et heremitorii et ad penam librarum centum denariorum Pisarum habere et tenere firmum et ratum semper totum et quidquid predicti arbitri de predictis litibus suprascriptis modibns vel aliquo eorum dixerint et contra rem venient vel facient per se et alios. Ipsas quidem lites sic per laudamentum ad penam suprascriptam dicimus et laudamus. Si quidem suprascriptus Gaitanus consul suprascripto-rum nobilium virorum consulatus nomine pro se et suis consortibus agebat contra predictos fratres pro suprascripta ecclesia et heremitorio de eo videlicet ut idem Gaitanus consulatus nomine pro suprascriptis eius consortibus et sui successores in perpetuum sive unus ex consortibus eorum voluntate eorum consortnm vel maioris partis eorum cum dicta ecclesia et beremitorium vacaverat sit et sint et esse debeant electioni faciende de domino et pastore et rectore suprascripte ecclesie et heremitorii. Et ut eosdem nobiles viros de Ripafracta teneant et recognoscant pro patronis dicte ecclesie et heremitorii de predictis, agit dictus Gaitanus iure causa et lege et — 58 — omnibus juribus quibus potest et actione officio presbiter Henricus suprascriptus et fratres Prosperinus Biccomus et Tomasus et Bartbo-lomeus pro suprascripta ecclesia et beremitorio, responderunt quod non credunt se predicta ecclesia et heremitorio nec ipsam ecclesiam et lieremitorium eidem Gaitano pro se et consortibus nomine pro consortibus eius nec ipsis consortibus teneri in aliquo de predictis aliquarum prodictarum ractionum. Et etiam cum dicunt ipsam ecclesiam et kerem i forium esse collegatum. Et idem dicunt ipsum nec aliquem de consortibus eius nec aliquem laicum interesse electioni faciende de domino et pastore et rectore suprascripto ecclesie et keremitorii et tuentum se pro suprascripta ecclesia et ipsam ecclesiam et lieremitorium omnibus exceptionibus et defensionibus ot iu-ribus quibus possunt. Unde nos suprascripti arbitri et laudatores cum predicte partes coram nobis renuutiassent allegationibus et interrogationibus et positionibus et dationi testium et sacramento ca-lupnie de voluntate utriusque partis et voluntatem eorum in totum sequentes et nosti-o laudamento ad penam suprascriptam dicimus et laudamus ut cum ecclesia predicta et lieremitorium vacaverit fratres et beremite predicte ecclesie et heremitorii vel unus eorum pro omnibus veniant ad consulem, sindicum, consules vel unum de consiliariis consortum de Ripafracta et dicant seu dicat eis : ecclesia predicta et heremitorium vacat, volumus eligere. Et si tunc consul vel consules aut consiliarius dixerint vel dixerit: eligatis cum bona fortuna aut si contra dixerint vel contradixerint quod eligere possint et valeant prefati fratres sine contradictione et facta electione de pastore et rectore sicut fieri debet in domino per scrutineum vel electores vel per ispirationem divinam an qui representet superiori, quod debet confirmare eam electionem. Electio facta debet repre-hesentari prefatis dominis patronis vel consuli eorum aut uni ex consiliariis consulis. Si consul non erit Pisis vel Ripefracte requirant eius assensum, vel unius eorum pro omnibus ut dictum est, ut consentiant. vel consentiat electioni , dicendo: notifieamus vobis ut tibi talem electionem fecimus de tali persona , petimus ut consentiatis vel consentias seu prestetis vel prestes vestrum assensum predicte electioni secundum jus patronatus. Et quando fiet representatio electi deberint interesse patroni vel consul eorum aut consiliarius eorum tunc et de hoc debeant requiri patroni suprascripti consul aut unus ex consiliariis vel ab uno eorum pro omnibus qui debent in tali die vel certa die cum fratribus pro confirmatione dicti electi. Et si patroni suprascripti vel consul eorum aut consiliarius eorum pro eis vel aliquis coetus nuntius pro eis ire nollent vel nollet cum fratribus predictis pro suprascripta confirmatione sive consentiant si ve dissentiant, libere predicti fratres et eorum successores ire possint et valeant absque contraditione predictorura patronorum et repre-liesentari dictam electionem superiori et petere confirmationem. Datum et lectum est Pisis in porticu domus Jacobi condam Filippi — 59 — de Ripafracta presentibns, suprascripto Gaetano consule et Raniero Bonda et Guelfo germanis filiis Lamberti Solfe et fratribus Henrico et frate Prospero suprascripti lieremitorii et presentibns Ugolino (le Busaccarmo condam Paganelli et Bonifacio condam Bandoclii et Raniero condam Burolli testes ad liec. D. I. anno 1243 indictione prima, decimo kalendas Ianuarii. Et in continenti et coram suprascriptis testibus et loco et die frater Henricus et frater Prosperus suprascripti pro se et fratribus eorum suprascripti lieremitorii coram Bartholomeo notario et testibus subscriptis volentes sequi formam suprascripti laudamenti dixerunt et denuntiaverunt suprascripto Gaitano consuli pro se et consulatus nomine quod Ecclesiam et heremitorium suprascriptum vacat, volumus eligere dominum et pastorem in suprascripta Ecclesia et dictus Gaitanus respondit et dixit : eligatis cum bona fortuna et eligatis bonum dominum et bonum pastorem. Guido filius condam Iacobi notarii de Campo imperialis aule notarius liec omnia a Bartholomeo notario de Classo Mugello rogatu ex commissione miclii facta a consilio, senatu credentie de suis actis scribendi et cartas firmandi ut in eius actis inveni ita scripsi et in publicam formam redegi. (Reg. Turium Nobilium de Hip. fo. 74-76, in Arch. Ronc.). II. 1267 ottobre 22. Lamento dei Nobili di Ripafratta pei 100 custodi posti dal comune di Pisa sul loro territorio. In eterni Dei nomine amen. Ex liuius publici instrumenti clareat lectione quia cum Rubertinus notarius de Pugnano positus sit pro communi pisano in Valle Sercli Ripafracta Filectulo et usque ad mare super distringendo deveti et ipsa occasione posuerit centos custodes apud Ripamfractam et illis partibus et Guido Pancone cousui nobilium de Ripafracta prò se ipso et consulatus nomine pro ipsis nobilibus et Gerardus filius Contis et Gerardus Bonda et Rossus de Colognuli prò se ipsis et aliis eoruin consortibus adeedentes ad pre-sentiam domini Alberti de Turricella pisani dei gratia potestate dixerint se gravatos esse de predictis. Et predicta quae facta sunt a (lieto Rubertino prò communi pisano spectare in preiudicium et diminutiones honoris et iuris ipsorum nobilium de Ripafracta. Et praeterea petierunt a dicta pisana potestate sibi et. eorum consortibus super liiis salubritatem provideri. Predicta pisana potestas pro communi pisano dixit et protestatus est quod sue intentionis et pisani communis non fuit nec est quod occasione predicte custodie dictis nobilibus aliquid preiudicium in eorum juribus vel honoribus si qua eis competunt obstent, sed eis omnia iura si qua habuerunt sint eis salva et, integra. Actum Pisis in curia suprascripti pote- — 60- statis quae est in domo pisani communis presentibns... eec. Dominice incarnationis 1267. Indictione decima undecimo kaleudis no-vembris. (R. L. Iurium, fo. 70 a tergo). III. 1282 novembre 19. Esame dei varii testimonii provanti la giurisdh -ione dei Nobili di Ripa fratta sul castello e sul comune. In nomine Dei amen. Tempore domini Iohannis de Luctino de Cnmis Pi sani m dei gratia potestatis , currentibus annis dominice incarnationis millesimo ducentesimo octagesimo secundo, indictione decima sub examine domini Gnidotti Porrinciouis judicis curio maleficiorum pisane civitatis in ultimis tribns mensibus regiminis su-prascripte potestatis videlicet octobris, novembris et decembris. Titulus infrascriptus porrectus est curie tertio decimo kalendis decembris per Angelum nuntium pisani communis. Venit Bonaccursus de Ripafracta condam Bonetti legitimi Betti tilii sui ndministraciono nomine pro eo ad eius intentionem probandam ot tidoiu faciendam vobis domino judici curie maleficiorum do eo videlicet quod commune do Ripafracta cum omnibus suis pertinendis et adiacentiis juribus ot jurisdictionibus et honoribus et homines dicti communis sunt sub jurisditione nobilium ile Ripafracta et ipsi nobiles habent jurisditionein in dicto communi ot hominibus dicti communis tam in civilibus quam in criminalibus et habuerunt et fuerunt ipsi et eorum antecessores iam sunt nnni decem viginta triginta quadraginta et quinquaginta et per tantum tempus cuius non extat memoria. et ipsum commune ut supra dictum est ad ipsos nobiles pertinet pieno iure ut supra queratur. Item de eo quod dicti nobiles de Ripafracta sunt in quieta et pacifica possessione, vel quasi itiris-ditionis predicte et omnium prodictorum et fuerint ipsi et cornm antecessores a prodicto tempore citra ot infra. Item quod snpra-scriptus Bottus fuit habitator burgi de Ripafracta toto tempore vite sue usque quo luit in hanno consulis dictorum nobilium et de communi predicto fuit oriundus ot in dicto communi sub ipsis nobilibus Ripetracte fecit servici» realia et personalia. Item de eo quod cie predictis et quolibet prodictorum est publica fama. Bonaccnrsns de Ripafracta condam Bonetti legiptimns administrator Fletti lilii sui legitimi et administratorio nomine pro eo in causa et questiones quas habet cum sindaco pisani communis vel cum communi praedicto, interrogetur si scit vel credit quod castmm de Ripafracta tuetur pro conununi pisano, quoti castmm est in terra districtunm nobilium de Ripafracta et non pisani communis. Item si scit vel credit qnod dictum burgum sit situm et positum circa dictum castrum versus civitatem pisanam et infra, et interrogatus respondit quod credit. Item si srose ipsis et vice et nomine lucani communis et singularium hominum et personarum eidem mihi Andree cancellario lucani comunis infrascripto tamque pro publice recipienti ,et stipulanti vice et nomine dictorum nobilium quorum interest intererit seu poterit interesse se firma rata et conrata habere tenere et observare quocumque acta pacta gesta conventa promissa confirmata et obligata fuerint per prefatum dominum Matlieum per se ipsum pro se et nomine lucani communis prefati se alterum ipsorum nominum et modorum et contra ea non facere, dicere vel venire pro quibus omnibus et singulis firmiter et inviolabiliter observandis ac tenendis obligaverunt dicti domini Anthiani et alii suprascripti et quilibet ipsorum totum populum et commune lucanum et omnia ipsius communis et populi bona pre-sentia et futura nomine pignoris et ypotece. Acta fuerunt hoc in civitate lucana in palatio quod dicitur de Cortina habitationis dominorum prefatorum Anthianorum et Vexilliferi cui a primo et secundo via communis a tertio curte a quarto domus lucani connnunis pre-sentibus Aricio Hermanni et Necto Ghelli de Luca testibus ad hoc vocatis, habitis et rogatis. Ego Andreas condam Insti ecc. (Archivio di Stato di Lucca. Riformag. pubbliche. Armario 43, n. 6, c. 31 o R. L. Iurium, f. 71 a tergo 73). DOCUMENTI SOPRA IL CONTADO DI VENTIMIGLIA Non sono molte le carte che ci restano del Contado di Ventimiglia ; per il che cogliamo di buon grado ogni felice congiuntura che ci si porge, per rendere di pubblica ragione quelle che l’affetto di colti conterranei ci ha conservato. Essendoci venuto alle mani (non ha molto) un volume manoscritto in foglio di documenti, di proprietà del Cav. Alessandro Guidi Tenda, estratti e autenticati dal suo antenato, notaro Gio. Batta Guidi, da apografi lasciati dall’erudito canonico Gio. Batta Lanteri di Briga, ci è parso debito di scegliere i primi otto, che — 68 - appartengono ai secoli XII e XIII e che ricordano i luoghi di Tenda, Briga, Saorgio , Breglio , Triora, Limone, Morozzo ed il rurale contado di Bredulo. Due sono senza data, ma dalle scritture delle pergamene e dal loro contenuto vien fatto chiaro, spettare dessi al XII secolo. Chi fosse il canonico Gio. Batta Lanteri (1722-1792), non sarà superfluo qui ripetere, trattandosi di un coscienzioso ed instancabile ricercatore di Antichità liguri, che era alla vigilia di pubblicare , se non fosse stato prevenuto da chi, per dirla coll’Allighieri, va d’intorno colla force. Segretario del dottissimo vescovo di Ventimiglia Pier Maria Giustiniani, avea appreso dal diuturno conversare con quell’antico monaco Cassinese, coi principi delle scienze filosofiche e teologiche, anche l’arte del paleografo, per cui si deve al Lanteri la decina di volumi di Regesta, conservati nell’Archivio vescovile di Ventimiglia. Trapassato il prelato protettore, proseguì il Lanteri nella via così felicemente tracciata; e con nuove e non mai praticate indagini sul potente casato dei Conti, che aveano dominato nella valle di Roia, fece andar compagne belle ed importanti monografie , fra le quali piglia luogo la Storia dell’Abbazia del monastero di San Ponzio presso Nizza, che venuta alle mani del conte Cais e, precocemente questi deceduto, a quelle dell’illustre Comm. Gustavo Saige , è stata testé congedata alle stampe col titolo di Chartrier de l’Abbaye de Saint Pons. Basterà il fin qui detto per giustificare la scelta dei documenti da noi fatta dalla Raccolta del Guidi; e nel lasciare al lettore di portar giudizio sull’ importanza di essi, ci piacerà ripetere col Boissier, che lo studio dei documenti è prezioso alla storia; ma non è la storia; come pure convenire col Taine, che i documenti assomigliano alle armature di un edificio, il quale compiuto, sono destinate a sparire. Ma siccome la storia della ligure contrada è ben lontana dall’ essere compiuta, cosi ci torna doveroso aggiungere armature, lasciando ai venturi il carico di farne poi getto. Girolamo Rossi. — 69 - 11(52 35 ottobre. —, Giudicato seguito in 'Trioni alla presenza dei Nunzi dell’ imperatore Federico per la differenza dei confini fra Briga e Tenda che terminò in una transazione approvata dai Conti di Ventimiglia Guido ed Ottone fratelli, i tjuali vi si trovavano presenti. Ijis orta fuit intor Tendam ot Brigam do tota terni quo posita est inter lias cohorencias. — Vidolicet a via Cavraluna sursum listino ad coll am do Carozio A piastra do Madalberga por montem caballum usque ad gnardiolam ot usquo ad terram de qua concordia fuit intor Tendam et Rubaldum do Garexio. — Discordia tulis orat quoti homines Brigo totam istam terram suam esse dicebant excepto debito et alpatico in quibus confitebantur duas partes esse lende et exceptis quibusdam campis et pratis quo erant quorumdam hominum Tende. Ilominos vero Tende dicebant duas partes istius terre suas esse. Do hac autem discordia bellum indicatum constituerunt coram nunciis imperatoris Frederici et comitis Geevardi Conrado et Belegerio et R. Dum autem campioncs in campo probarentur talem transactionem inter se fecerunt, quod totam prodictam terram pei medium dividerent de qua transactione postea lis inter eos orta fuit, quod non ita esset, coram predictis Imperatoris nunciis Conrado et Belegerio at que Robaldo do Garoxio. Ad quam transactionem probandam produxerunt illi do Teuda testes Guidum comitem et R. de Garexio et Obertum do Guasco qui inraverunt et dixerunt prodictam terram deltero per medium dividi, ut supra legitur. Indices autem Curio scilicet Gulielnms do Porto et Ambrosius Mediolanensis, pronunciaverunt Consilio tocius Curie predictam transactionem ita firmam esse ut testes inraverunt. Actum est hoc Tridorie in pre-sentia Iosfredi de Lnceram, Petri de Sapedo et Iohannis Michael et Guidonis Agaza et Rustici et aliorum quamplurium. Predictam autem transactionem dixerunt ambo Comites vintimilienses scilicet Guido et Oto et R. de Garexio voluntate utriusque partis et insuper inraverunt duo tic Tonda et duo de Briga ita habere firmum et dixerunt. Qui contra hanc cartam venire presumpserit penam C. li-brarum januensis monete fisco et insuper dathe de lite. Actum est Tridorie idibus octobris a predita Curia anno domini Iesn Christi millesimo centesimo sexagesimo secundo, regnante imperatore Fre-derico in Italia. Il sovrascritto instrumento di giudicato è stato fedelmente estratto da pergamena esistente nell’ archivio di questa Comunità di Tenda di mano propria e carattere del sig. Canonico D. Gio. Batta Lanteri della Briga, perito degli antichi caratteri e fattane collo stesso la dovuta collazione si è trovato concordare. In fede Tenda li 12 luglio 1784. — Giovanni Battista Guidi Notaro per le R. patenti del dieci aprile 1770 e Segretario di detta Comunità. 1163, 5 giugno. — Sentenza del conte Gerhard» Legato dell'imperatore Frederico in Italia per cui viene confermata la transazione seguita nell'anno precedente in Trioni per le differenze dei con/ini fra gli uomini di Tenda e di Briga che questi ultimi spacciavano per nulla e di niun valore. In nomine domini nostri Iesu Cliristi millesimo centesimo sexa gesimo tercio, quinto die junii, indieione undecima existente domino Frederico imperatore et legato eius iu Italia comite Geliebardo, qui illis partibus preesse dinoscitnr. Discordia fuit inter Tendam ot Brighili de tota terra que posita est infra has coherentias scilicet a via eavraluna sursum usque ad collant de Carezio. A piastra de Madel-berga per montem Gaballum usque ad terram, de qua concordia fuit inter Rubaldum (le Garessio et Tendam. Que discordia talis erat. Scilicet quod liomines Tende dicebant medietatem tocius predicte terre ad se de iure pertinere et. per transactionem factam a jurejurando utriusque partis firmatam inter eos et homines de Briga per Rnbaldum de Garessio et comitem Ottonem de Vintimilio et Guiilo-nem fratrem eius. Do qua transactione discordia fuit inter liomines Tende et Brige. — Super qua discordia Ambrosius de Sagona et Gulielmus de Portu iudices Ominidi et Belengerii qui t un c temporis in terra illa comitis Gehebardi legati erant sententiam tulerunt et predictam transactionem confirmaverunt. E contrario liomines de Briga totani predictam terram suam esse et. transactionem predictam nullius momenti fore dicebant, nec sententiam super eam latam quisquam valere. Unde visis testibus et racionibus utriusque partis auditis Ego Carbo judex Comitis Gehebardi assessor per consilium Arnaldi de Aquis et Bovonis et Iordani de Morocio et aliorum sa-pientum, condemno consules Brie (1) nomine comunis scilicet Guliel-mum Aldam, Rainerium Balesta, Golzozum , Petrum Agayarn , Petrum Obertum in medietatem tocius predicte terre predicti nemoris sicut semper determinatam et ut eam deinceps quiete et. sine ulla molestia teneri ac possideri permittatur precipio. Insuper homines de Briga scilicet Bonusfilins Aicardus, Obertus Astraldus, Guiliel-mus Ginatus, Anselnuis Rainerius, Balesta Iosydello, Ropertus Rai-baldus, Gulielmus Militus, Facius Laarins familiola, Bernus Aucel- (1) Mette conto notare, che comincia qui a far capolino la voce del vernacolo provenzale Brie, invece di Briga, che si ripete poi più largamente nelle carte del 1233 e 1239. Briga su cui sono state ricamate le più ingegnose etimologie, ha comune l’origine col Saltus Bn'gensis (Brie), antica provincia di Francia, che ha lasciato il nome al cltien, qui duit aider les bergers dans la garde des troupeaux (Laroi sse, Dictionnaire), non che al rinomato formaggio di Brie; nè altrimenti si può pensare nel caso nostro se si riflettesse che Tenda, Briga, Saorgio e Braglio orano popolate da numerose famiglie di pastori. — 71 — Ius, Saracetius Galzosius, Raymldus Babalon, Guido IJipinnB, Arde-cionus Gastaldi ot Guido Peronia, Guido Allia, Guido Balbus, lo-liannes Scola, Gandulphus Albertus ot alii quaplures (le Tenda Al-dutius Boeto, Kidulplius Kabia, Albertus Aipertus Ardecio Notarius consules et Baibaldus Arduinus Lombardo, Ionfrodns Albericus, Al-ducins Silvester, Rinulfus Lupus, Lambertus Giraldus, Iohannes Piper , Oto Iobannes dictus presbite!-, Guido Gota cuniculus et alii quamplures omnes juraverunt hanc sententiam firmam tenere. Ut autem liec sententia firmiter ab omnibus observetur Comes Gelie-bardus in cuius presentia predicta sententia data fuit sigillo suo insigniri jussit pena quingentarum marcarum argenti ab ea parte que contra hanc sententiam temerario ausu venire temptaverit imperiali camere indigendam statuit. Actum in suburbio Sancti Dalinacii feliciter. Interfuerunt testes Marchio Henricus, Obortus de Olevano, Arnaldus Barbavaria, Gui 1 ici in ns de Morosio, Odo de Cengio, Nicolaus do Braida, Ardesiode Monte Alto, Rubaldus de Apulia, Bonifacius do Gravesiana, Aicar-dus, de Carnea, Arnaldus do Montealto et quamplures alii. Ego Furnus notarius sacri palacii iussu Comitis Gcliebardi hanc sententiam scripsi. Segue la stessa dichiara dell’antecedente. Regolamento antichissimo fatto fra gli uomini di Tenda e di Briga per il loro quieto vivere e per la buona e pronta amministrazione della giustizia. È senza la data come si costumava nel secolo undecimo. Ilec est memoria conventionis quam homines de Tenda et homines de Briga inter se fecerunt. Conventio quidem falis fuit. Quod homines de Tenda promiserunt et super sancto Dei Evangelia juraverunt juvare ot manutenere homines do Briga contra omnes homines de omni jure et de omnibus justiciis ot possessionibus suis do quibus investiti sunt, vel juste adepti fuerint, et homines de Briga simili modo tenentur ad homines Tendo. Si aliquis homo qui fuerit offensus hominibus Brigo vel hominibus Tendo venerit in eorum territorio eodem anno quo inventus fuerit in territorio post querelam factam maneat securus et ulterius non sustineatur usque ad sa-tisfacionem. Item si (piis homo de Tonda vel do Briga furatus fuerit et de eo aliquis Tendensis vel Brigensis fuerit conquestus consulatus nullum debet audire placitum nisi illud quod ad presens erit in manibus eorum, donec justiciam fecerit do latrone, si in Tenda vel in Briga fuerit. Si autem in villa non fuerit, ad terminum debet habere latronem, quem consulatus cuni eo qui querimoniam fecerit, fuerit arbitratus. Et si latronem non possent invenire vel habere nil minus Consulatus det sentenciam super latronem. Omne latrocinium per torciuin debet emendari. Omnis homo qui striadain — 72 — fecerit vel incendium, vel vastam vejffuratus fuerit bovem, vacain, mulum vel mulam equnm aut roncinum vel caballum fregerit de messe XL f. p. sive porcum ile foco sive domum fregerit aut sellam sub eadem pena sit. Et si aliquis latro fuerit ejectus de terra per latrocinium non debet recipi nec substinere ab hominibus Tende vel Brige. Et si aliquis eum in Territorio Tende contra Brigensem substinnerit totam emendam solvat pro eo et homo de Briga simili modo tenetur hominibus Tende. De omnibus alii latrociniis XX i. p. Et si aliquis homo de Briga suspicionem habuerit furti in aliquem Tendemsem, et indagare voluerit vel perquirere domum, vel cellam , orreum vel aliquod secretum et aliquis sibi prohibebit, in pena sit cum latrone et emenda. Et simili modo Brigenses tenentur. Et si aliquis de Tenda appellaverit latronem ante Consules Brige et talia monstraverit indicia ut consules sane intelligant illum fecisse furtum et apellatori dederint sacramentum , et latro sacramentum illius falsare voluerit , homines de Briga tam tenentur quam Ten-denses eum apellatorem sustinere. Nullus debet racionare nec sustinere latronem. Et nemo in jurat strada debet facere vindictam. Item pacc-io facta est, omnibus salvis sacramentis, quibus ad alias amicicias utrique tenentur preter tantum quod si aliquis de aliis a-micis conjuratis Tendensium contra Brigenses niteretur et questio sive querela inde oriretur et per cognitionem et cognitam rationem consulum Tendensium, hominibus de Briga noluerit satisfacere, homines de Tenda sibi debent deesse. Et simili modo Brigenses debent facere de suis amicis conjuratis ad Tendenses. Et si aliquis homo de Tenda fuerit criminatus de aliquo maleficio ab hominibus de Briga se debet defendere si potest cum duobus sociis. Et si amici vel ille, cui maleficium fuerit illatum, defensionem accipere noluissent nil minus consulatus debet recipere suam defensionem. Hec conventio facta fuit sub consulatu Alberti Boeti, Pauli Rabie , Ea. Corvesi, G. Scalone G. Maurini usque ad Natalem Domini in Natale usque ad tres annos. Et consulatus utique vim meliorandi in his conventionibus seinper habeat. Segue la solita dichiara. 1198, 27 luglio. — Convenzione fra gli uomini di Tenda ed i Signori de Rupe Guidonis, oggi Boccavione, in cui parlasi anche degli uomini di Limone e dei territorii accordati dai detti Signori al di là del Colle di Cornio ni Tendaschi che con denaro e gente andarono in loro soccorso nella guerra che gli stessi Signori avevano avuto contro i Borghesi o siati quelli del Borgo S. Dalmazzo. Presenti scripto pateat quoniam boni homines de Tenda se se convenerunt cum dominis de Rupe Vidonis scilicet cum domino Ro-baudo, Rodulfo, Manfredo de Druda cunctisque consortibus aliis tali modo. Quod si homo de Limone erga dominum suum de Rupe Vi- - 73 — donis prave vellet, agere aut aliter manere quemadmodum consuevit cum ipsis et cum prodecessoribus ipsorum qui dominatores eiusdem terre stetisse feruntur, liomines de Tenda sacramentali vinculo, si infra quindecim dierum spacio domino suo reconciliatus non fuerit, Domini Rupe iussu de sua propria domo ipsiusque domini domus coiminiter eum guera quindecima die invadere debent. Similiter a-gere debent pro omnibus hominibus sub dominio Rupe e converso teneri debent sacramento hominibus de Tenda ut si homines Li-monis qui quondam se se cum Tendensibus juraverunt prave contra ipsos agere presumpserint ut dictum est superius indutias restaurationi a dominis quindecim dies habeant, quibus completis si hominibus Tendensibus al» illis restaurata injuria uno luerit domini de Rupe Vidonis sua et illorum domo fortes debent facere Tendenses et Liinonenses modis omnibus constringere quousque injiuria prava illata Tendensibus quiete restauretur. Preterea predecessores dominorum de Rupe Vidonis Gulielmus Taxon p. de Sapedo et Ansel-mus comuni cousilio aliorum consortum dominorum de terra sua fecerunt Tendensibus que est citra collem de Cornio versus Limonem eo quod ipsi contra Burgonses censu et personis eos substituerunt atque juraverunt obpugnando, infra has colierentias scilicet podium de Levizoleta et pontem de Ritaulaigo et podium de Bufa et sapel-luin de Vaglelis. — Quod dominus Mainfredus de Druda et Robal-dus et Rodulfus et Gandulfus et Ugo similiterque alii consortes concesserunt et confirmaverunt. Actum publice fuit in prato de Rupe juxta ripam Gezii coram legalibus testibus quorum nomina hic leguntur. Abbas huius Sancti Dalmatii Raimundus de Brianzone, Martinus de Valdiero, Anselmus Sicari, de Montemalo, Odo de Ro-manisio, Arnaudus Astensis, Boetus de Tenda, Gulielmus Aipertns presbite!- de Tenda. Anno ab incarnatione domini nostri MCLXXXXYTII indictione secunda VI idus julii die sabbati. Et ego Guilielmus sacri palacii notarius et scriptor qui hanc cartam complevi et completam tradidi consulibus Tende et sociis eorum scilicet Rainaldo Astriga et 01-drico Corveso qui tunc erant consules. Segue la solita dichiara. Giudicato sopra le differenze vertenti fra i Signori di Morossio e Bre ■ dillo e gli uomini di Tenda. In questo che è senza la data del giorno ed anno e perciò antichissimo, si parla di certo pagamento clic gli uomini della terra di detti Signori devono fare ogni anno agli uomini di laida. Prove recordationis ad memoriam retinendam de discordia que erat inter dominos de Morotio ot homines de Tenda. Discordia inter illos erat de multis causis. Sicut de rebus mobilibus videlicet de in al is factis do qua discordia voluntas utriusque partis fuit ut — 74 - quatuor liomines eligerentur duo (lo Clusa et duos (lo Tenda. Do Clusa elogorunt Iacobum Borni et Manifrodum de Gundrada ot duos do Tenda Giiilielmum Cuniculum ot Boeto filiam Arduini Boeto et ipsi juraverunt per sancta dei Evangelia concordari eos bona fido ut pacem haberent. Et domini Morocii et Bredulo juraverunt liomi-nibus do Tenda et hominibus qui sunt in fiducia illorum salvare personas et res illorum in potestate sua et quantum possent ot quia plures de hominibus illorum similiter hoc fecerunt et juraverunt pacem ad totum tempus. Et consules Tende et multi alii illius loci juraverunt dominis Morocii et hominibus terre illorum ot illis qui sunt in comandis eorum salvare personas et res illorum quantum potuerint et similiter juraverunt domini do Morocio tenere senten-ciam quam predicti quatuor homines de discordia judicaverint. Et consules Tende hoc idem cum aliis hominibus juraverunt se obe-(lire. Et si quis aliquis istam pacem fregerit debet esse emendata infra XXX dies post factam lamentationem , et finitis decem annis sacramenta debere renovari ex utraque parte. De comandis ita concordatum est. Si homines de Morocio haberent homines dincomando de quibus homines de Tenda lamentacionem facerent, non debent eos recipere nisi prius concordetur cum hominibus de Tenda per dictos dominos. Et si homines de Tenda concordiam recipere noluissent pax facta non esset et si recepta sit ante querimoniam per unum annum scilicet retinendi et non amplius. Et hoc idem fecerunt consules et homines de Tenda de comandis suis versus dominos Morocii. Et debitum quod liomines de terra dominorum Morocii debent dare hominibus de Tenda per unumquemque annum bonum persolvant. Et si dare noluerint homines de Tenda accipiant tantum quod sit valens et pax non sit facta. Debita si sunt, salva sint et fidejussores similiter. — Omnes alie questiones sint finite. Item judicaverunt quatuor predicti homines de discordia dicte Terre Morocii et Tende. Segue la solita dichiara. 1233, 3 maggio. — Convenzione o sia stabilimento per le comunità di Tenda, Briga, Saorgio e Breglio per la difesa vicendevole e per l’amministrazione della giustizia. Anno dominice nativitati M CC XXX III indicione VI die dominico tercio die exeunte mense madii in teratorio Saurgii in loco ubi dicitur Campum Saurgii. Homines Tende et homines Brie atque homines Saurgii et liomines Brelii pro voluntate comunis unicuiusque ville harum quatuor villarum, inter se fecerunt tale pactum. Ad invicem juraverunt et promisserunt inter se defendere et adjuvare contra omnes liomines qui contra eos vellent venire et nocere atque ad X annos completos et tantum plus quantum in concordia venerit, in omnia et per omnia de omnibus suis rationibus, de quibus — 75 - sunt investiti, 110 (le cetero se investirent (le alciore et juraverunt attendere et observare omnes conventus (]uos invenient inter homines prodictarum villarum duodecim homines qui electi sunt ad inveniendos conventus nomina quorum sunt Paulus Kabia, Arduinus Matelda, Gulielmus Corves, sindici Tende Iobannes Marchesius, 0-bertus Satalea , Kaimundus de Fontana siudici Brie. Paulus Larn-bertus, Gulielmus Gandolfus, Karlus Iobannes sindici Saurgii, Rai mundus Pulcher, Iohannes Paletus Iohannes Ferrer sindici Brelii, qui homines concordatim dixerunt ut supra legitur et inferius salvis sacramentis qui facti sunt usque in hunc diem cum aliis loois suarum amiciciarum. — Si aliqua discordia oriretur inter duas villas per villas alias duas concordent eos, et si una illarum nollet concordiam, alias tres villas sint super eam. — Si (piis locus habebit sacramentum amicicie cum aliqua villa seu villarum et offendent alicui ville predictarum alias tres villas pergant ad eam cum qua juratus est locus qui offensionem fecit. Si maneant eum quod restituet malefacta illi cui fecit et si noluerit stare in dictis eorum omnes quatuor loci sint super eum locum qui offensionem fecit. Item si quis homo predictarum villarum appellatus de furto erit ab aliquo habitatore villarum ad hoc quod unus de una villa et alius de altera sit consules seu potestas predicti loci, de quo latro erit faciat ei plenam justitiam statim. Si latro erit in villa et ille qui furtum petit juret per sacramentum suum cum uno socio legale do suo loco per credentiam quod iste fecit sibi furtum illum et latro non habeat defensionem nisi ad ferrum (1) et hoc est de illis furtis qui facti sunt postquam recepta fuerunt ista capitula. Et si latro non erit in villa datum sit ei terminum a justicia usque ad XV dies. Et si ad predictum tempus non venerit condemnatum sit et emendet per tercium. Et si non habet de quo emendet forestatum sit in perpetuum donec satisfaciat cui furtum fecit. Item si quis homo predictarum villarum faciet ei refugium ullum et probatum erit, emendet per tercium sicut lat.ro et justicia terre que latro forestaverit nun-ciet aliis locis predictis quod latro forestatus est. Et si justicia predictarum villarum cui appellatus erit latro, noluerit fieri latronem attendere et. complere omnia predicta emendet ipsa per tercium sicut latro, si latro erit do sua iusticia. Item si (piis homo predictarum villarum venderet seu mutuaret aliquid alicui homini predictarum villarum faciat se solvere et si terminum dabit sit securus per fidejussores quod ad predictum terminum erit solutus. Quod si debitor solvere non posset, creditor 11011 habebit, lieenciam capiendi cambimi! de rebus predicti loci de quo debitor sit, hoc est de vicinis suis. Item si necesse erit sucursum aliqui ville predictarum alie ville predicte securant eam expensis illorum, qui sucursum fa- (1; Qui si ha un chiaro accenno all 'judicium ferri ardentis. - 76 - ciunt. Item ubicumque sit homo seu avere predictarum villarum et impeditum esset sucursum sit in fakidain auditam ab omnibus pie-dictarum villarum. Item omnes presalle cognite que facte sunt inter predietas villas usque ad hunc diem, constitutum est quod rodantur. item si quis homo predictarum villarum fecerit querimoniam de aliquo homine predictarum villarum de aliquid ad hoc quod non sint nec maneant, in una villa , si petitor invenerit eum in villa consules statini faciant ei plenam iusticiam, dimissis aliis placitis. Item et si in villa 11011 erit, datum sit ei terminum a justicia usque ad octo dies, et si tunc non venerit, iusticia audiat rationem appellatoris et det ei sententiam. Item si quis homo predictarum villarum aliquem hominem predictarum villarum seu suum avere, nec se defendentem , vulnerasset sit in pena justicie C. solidorum et C. ei qui vulneratus est ........... ad hoc quod non sint ambo de una terra de predictis et si necesse esset ei medicus solvat expensas medici. Et si moriretur de plaga illa det X libras denariorum justicie et X heredibus seu amicis defuncti et expellatur de terra et 11011 reconcilietur sine voluntate' heredum seu amicis defuncti. Item si duos conumes predictarum villarum haberent discordiam, arbitri in-frascripti concordent eos et comunes predictarum villarum qui discordiam haberent tenentur per sacramentum stare in dicto prodictorum arbitrorum de omnibus rebus. Item uua quaque justicia predictarum villarum cum exierit de regimine justicie faciet jurare aliis consulibus venturis tenendi istos conventus. Et hoc de anno in annum usque ad X annos. Item predicti sindici habent potestatem meliorandi in hac carta usque ad festum Sancti Micliaelis proxime venturi. De hoc in antea eligantur alii qui faciant alias meliorationes. Die martij VIII die exeuntis januarii in territorio Saurgii in ista pagina Audonius Matelda et Karolus Aries et Gulielmus lanfredus sindici comunis Tende de pacto et concordia que facta fuerunt inter comunem Tende et Brie atque Saurgii et Brelii et Iohannes Albertus et Petrus de Fontana et Iohannes Rentrua sindici Brie et Rai-mundus de Pigna et Raimundus Caubel et Rainaudus lavesca snidici comunis Saurgii et Opicius Bellenda et Conradus Vesulus et Oto Labra sindici comunis Brelii preceperunt mihi Oberto Guisolfo publico notario in hac carta has melioraciones rescribere super pre-dicto capitulo quondam recepto. Unde ita dixerunt de illis furtis qui facti sunt, seu facti erunt postquam reperta fuerunt prima capitula confirmant ut maneant ut prima dictum est. Item et de illis furtis qui sunt facti ante prima capitula essent inventa, de quibus non est facere ciatum ita constituerunt. Si quis homo predictarum villarum iverit in alia villa de predictis et appellaverit aliquem hominem predictarum villarum de furto commisso ante predicta capitula et probaverit per unum socium latronis seu per duos testes legales, quod latro fuit confessus de furto seu quod illis fecit furtum et hoc fiunt, sit latro convictus sine aliqua defensione et e- — 77 — mendet tantum caput si unus est et si plures inter omnes latrones et si apellator li:il)iiit ante suum caput non audiatur de appellacione et si non poterit probare absolutus sit latro et defendat se per sacramentum. Item si quis latro sen aliquis homo seu f ac tu in erit demandimi do aliquid parte villarum diceret apellatori verbum injuriosum, sicuti est, vos possetis inde accipere mortem, et talia verba, seu faceret ei insultura , sit condemnatus ad penam et ad mendam et alius homo qui diceret hoc similiter sit condemnatus per se sine appellato. Item qui convictus erit pro furtis dc bestia minuta, sicuti do ovibus et capris XX soldos pena et, do porco et bestia grossa bos vaca et dure debeat pena XL soldos qui convictus erit de eis per furtum. Qui frangerit cellam seu domum in eadem pena. Item si quis furatus erit messem seu granum de bra.jra aut lignamina de troll is seu frangerit caballum de messe pena XX sol. et emendet pci tercium. Item qui voluerit iscrutare seu cercare res furatas in saco in horto in iacina et in domo et in ovibus et poterit probare per duos homines quod sibi fuit vetatum cercanili, ille qui vetavit, e-mendet per tercium. Predicti sindiei hanc cartam fieri jusserunt. Testes ibi fuerunt vocati Guglielmus Lachius Tende et Raimundus Bosius, Petrus Lachius, Gulielmus Pasamonte et Gandolfus Amideus et Bordi de Pella. — Ego Obertus Guisolfus notarius sacri palacii hanc cartam rogatus scripsi. Segue la solita dichiara. 1239, 11 agosto. — Pretensione degli nomini di Tenda contro quelli di Limone per certo territorio posto aldi là del Colle, per cui nacque fra di essi guerra coll’ uccisione d’uomini e furti di robbe e di bestiami, e che poscia Ju terminata con la sentenza arbitrale la quale si contiene nel seguente ìstrumento. In nomine Domini Amen. — Anno dominice incarnationis M CC XXX VIIII indictione XII die dominica XI die exeunte augusto. In via publica ante sanctum Laurencium domi Boschi Coli Cornue in presentia testium quorum nomina inferius leguntur lis vertebatur inter Rana udum Lodemarium consul Limoni nomine sui Comunis Limoni ex una parte nec non ex altera parte Aniloiinim Mateldam Consul Tende nomine sui comunis Tende. Super eo videlicet quod predictus Ranaudus nomine sui comunis Limoni petebat ab dicto Audonio nomine sui comunis Tende terram usque ad collem Cornue, dicendo quod erat comunis Limoni et ad se pertinebat. Insuper petebat nomine sui comunis comuni Tende vacara-rium unum quo sibi abstulerant vacil et armai et quatuor homines quos sibi interfecerant homines Tende et tres homines capti quos tenebant de suis. Et dictus Andoinus nomine sui comunis respondebat et in contrario dicendo quod terra a colla Cornue usque ad pontem liitalai, sicut vadit podium Lancelete et pontem Ritalai et - 78 — Rufe et Sa pel Ium Valolli versus collam Cornue est. comuni Tendo et ad se pertinet, armas autem quas sibi abstulerunt nec vacas nec liomines capti non tenent reddere quia eas et eos acceperunt pro guerra et homines mortui fuerint interfecti pro guerra. Insuper dictus Andoinus nomine sui comunis dicto petebat, comune Limoni pariam unam pecorum cum darnpno que sibi evenit de dicta paria hominum lende et duos homines quos sibi interfecerunt, sed unus de illis hominibus fuit interfectus pro guerra nec pecoras levaverunt imino latrones fuerant quare 11011 tenetur aliquid ei rodere de qua lite ambe partes compromiserunt sub arbitrio Rubaudi Rosii consul Brie et Oberti Satalee et Raimundi de Fontana, et. Dalmacii Eubei Cuney recipiente dicto arbitragio nomine comuni Brie et voluntate comuni l ende et comuni Limoni. Aunati insimul per precone pro ut moris est, prout apparet in instrumento facto per manum Bonifacii Indicis, que sic incipit. I11 nomine domini amen sub M CG XXX IX indictione XII etc. et voluntate comunis Cuney prout apparet in instrumento facto per manum Guidonis do Yegevano notario, quo sic incipit. — Anno nativitate domini M CG XXX \ IIII indictione XII etc. ita ut si quis dictarum partium ut predicti arbitri de predicta lite inter predictas partes ordinaverint a ersus alteram non adtenderit seu non compleverit promisit ei dare sub juramento CC marchas argenti nomine pene, rato manente pacto, de qua pena habere tertiani partem comunis Cuney et tertiam partem parti et tertiam partem comunis Brie. Qui arbitri concordatim dixerunt, et sentenciaverunt et laudaverunt ut comunis Tende et homines Tende teneant et possideant et pascant et seminent et segare faciant terram prenominatam scilicet ad collam Cornile usque ad pontem Ritalai, sicut vadit pontem Lancelete et pontem Ritalai et podium Bute et sapellum Valleli versus collam Cornue et \ ersavice communis Limoni et homines Limoni teneant et possideant terram prenominatam prout dictum est in hominibus Tende ita ut unusquisque partium dictorum teneant et possideant terram predictam prout ante quam gueram seu litem inter dictas partes vei tisset. Eo modo quod liomines Tende a modo prospiciant suum ere de pratis Donegal et propriis hominum Limoni et de illis pratis que sunt consueti segari in dicta terra ab hominibus Limoni donec fuerint segati si eos segare voluerint et de seminatis et de raveriis hominum Limoni que fuerunt in dicta terra. Et si camparius fio-steri us Limoni invenerit, in pratis dictis seu in seminatis seu in raveriis hominum Limoni ere hominum Tende possint eos tocare in XX S. lanue et si campariis vel frosteriis homines Tende tocare vetaverint duplicetur pena Iusticie Limoni vacas autem cum hominibus capti incontinenti redere fecerint preter duas vacas de quibus condemnaverunt comunem Tende hominibus Limoni in tantum quantum jurare voluerint illi de quibus vacas erant. Item condemnabunt comunem lende in X libris lanue hominibus Limoni pro — 79 — (lanino vacis et quod emendent illi quatuor homines qur mortui fuerunt, hominibus Limoni VII libris lanue pro quolibet et armas quas sibi abstulerunt sibi redant vel valens. lusu per con depilaverunt dicti arbitri comunem Limoni versus Gulielmum Corvesium et illos qui seenni erant in paria in LXXII libris lanue pro pecoribus amissis quas predaverunt et pro damno et rebus amissis dictarum pecorum et XV libris janue pro duobus hominibus quos interfecerunt comune Tende. Insuper condempnaveiunt comune Limoni in CC niarclias argenti hoc ideo quod non observaverint precepta dictorum arbitrorum, innno pecoras predaverint hominum rJ'ende, et homines interfecerint de quibus CC marclias argenti comunis Tende habeat tertiam partem et comunis Cuney aliam tertiam partem et comunis Brie aliam tertiam partem et si comunis Limoni vellet dicere quod homines Tende vel comunis tenere aliquid do hoc sive in terra sive in aliquid aliud, sive comunis Tende quod homines Limoni sive comunis tenere aliquid de suo, sive in terra sive in aliquid aliud in fine trium annorum utraque pars possit apellare in manibus dicte Curie in alia autem parte non. Insuper dicti arbitri preceperunt comune Tende et comune Limoni liec omnia super dicta una pars versus alteram adtendere et observare bona fide nec magis contravenire et quod inter se ad invicem pacem et concordiam habeant de hinc in antea et teneant sub juramento et pena comi sa et si pervenerit, quod Deus advertat., quod de dictis rebus pronuueiatis una pars versus alteram non adtenderit et illa pars cui ad tensum non fuerit, presalam inde fecerit, 11011 propter hoc pax sit fracta noe pene incurat. Predicti arbitri hanc cartam fieri iusserunt et, inde fuerunt testes vocati Muus Ruacius de Briga et, Girardus de Cuneo et Gu-lielmus de Fontana de Bria et Iohamnes Marchesius de Bria et Be-lardus Runcrua de Bria. Ego Bonifacius judex noctarius sacri palacii liane cartam edidi et scripsi. Segue la solita dichiara. VARI ETÀ LA CACCIA ALL’ORSO IN GARFAGNANA NEL SECOLO XVI. Soraggio, che in antico faceva Comune a sè e ora forma una delle frazioni di quello di Sillano. è composto di otto villaggi: La Rocca, Villa, Camporanda e Collecchio, che restano dalla sponda di qua del torrente Serraglio; Erica, Me- — 80 - tello , Costa e Vicaglia, situati dalla sponda di là. Ha per confine, a levante, Borsigliana e Corfino; a ponente, Sillano, a settentrione e maestro , mediante il dorso dell’Appennino, i villaggi reggiani di Gazzano, Febbio, Asta e Ligonchio. Appunto sul dorso dell’Appennino e de’ suoi contrafforti possiede un’estensione vastissima di boscaglie (1). Il dott. Pellegrino Paolucci, nel 1720, ne faceva questa pittura: « L'entrate maggiori di Soraggio nascono dal numero di sedicimila e più bestie minute che vi stateggiano; e sono la quinta parte di quelle che sono nella provincia , ascendenti a ottantamila e più. A cagione delle vaste e ottime pasture, si fa a Soraggio, in quantità grande, prezioso formaggio, ed è in proverbio : Chi vuole il buon formaggio Si provveda a Soraggio. « Riportano quegli abitanti, d’acuto ingegno, non poco u-tile dalle Maremme, e al rovescio degli altri luoghi, ordinariamente sono più ricchi quelli che sono in maggior numero d’ uomini capaci a custodire gli armenti. Su 1’ altezza maggiore delle grotte di Soraggio si veggono aquile; e si ritrovano colà persone sì azzardose che si fanno calare giù da que’ precipizi, legati con una fune e armati di pistole, per non restare offesi dall’aquile, e portano via gli aquilotti. Gode quel pubblico in feudo o livello dalla Serenissima Camera la valle de’ Porci; per canone di cui rendeva già un orso ogni anno. Ma decrescendo col tempo il numero di quelli nella detta valle e boscaglie contigue , e rendendosi però diffìcile il prenderlo vivo, e diffìcile la condotta, nacque il proverbio che suol dirsi nelle cose scabrose : Ha preso a condurre l'orso a Modena. Fu dunque, per le cause addotte, permutato 1’ orso in un animale porcino, di dodici pesi, per grazia concessa dal Serenissimo Signor Duca Cesare l’anno 1604; e per concessione posteriore pagano dodici ducatoni l’anno. Ed (1) Ricci Lodovico, Corografia dei territori di Modena, Reggio e degli altri Stati appartenenti alla Casa d’Este, in Modena, per gli Eredi So-liani, 1806 , pag. '234. — Repetti Emanuele , Dizionario geografico , fisico, storico della Toscana, contenente la descrizione di tutti i luoghi del Granducato , Ducato di Lucca , Garfagnana e Lunigiana , voi. V, pag. 426. — Raffaeli.i Raffaello, Descrizione geografica, storica, economica della Garfagnana, Lucca, Giusti, 1879, pp. 399-406. — 81 — hanno il privilegio di potersi mascherare, senza riconoscere 1’ Uffizio di Camporgiano , ogni volta che S. A. S. concede il divertimento della maschera alla città dominante » (1). Antonio Vallisneri, che è una gloria della Garfagnana a-vendo veduto la luce a Trassilico il 3 maggio del 1601, in una descrizione che lasciò manoscritta della regione nativa ebbe a dire: « Nè colà mancano le delizie della caccia d’o-gni più delicato salvatico, anzi anticamente abbondavano di orsi, a’ tempi nostri distrutti, o almeno radissime volte trovati , non cessando però d’ esservi e lupi e tassi, e volpi per divertimento de’ più feroci cacciatori ». Domenico Pacchi annota: « Il Vallisneri vuol forse alludere al proverbio : Menar l'orso a Modena. Il qual proverbio può essere che, come dice il Tassoni ne’ suoi Pensieri, sia derivato dall’annuo tributo d’un orso, cui dovean dare a’ Serenissimi Duchi Estensi gli uomini di Soraggio, per certo livello avuto di pascoli e boscaglie, ove tal specie eravi di bestie (2). Ma coteste boscaglie erano di là dall’Appennino, (1) Paolucci Pellegrino, La Garfagnana illustrata, dedicala all’Altezza Serenissima di Rinaldo I d’Este, Duca di Modena, Reggio, Mirandola, ecc. In. Modona, per Bartolomeo Soliani, 1720, pp. 238-240. (2) « Nella Garfagnana, valle del Ducato di Modena, la più nobile e populata di quante ne siano tra le coste dell’Apenino, sono cinque terre fra l’altre: Metello, Villa, Bricco e Campogrande, tutte e cinque comprese sotto questo nome di Soraggio , e abitate per lo più da pastori, che, ricchi d’ armenti e di gregge , menano vita, quale favoleggiano i poeti havere già menata gli Arcadi anticamente. Questi, abitando dalla parte più alta, presero già, in enfiteusi, o, come dicono essi, a livello da’ Principi di casa d’Este alcune boscaglie del monte, con obbligo di dare ogni anno alla Camera Ducale, in luogo di ricognizione e di ca-nono, un orso vivo (di che allora n’erano pieni que’ boschi) e di condurglielo infìno a Modena , per consegnarlo ivi in mano del soprastante delle saline, cho poi per acqua il mandava a Ferrara. Ora, essendo durata questa ricognizione molti anni , con fastidio grande de’ Soraggini, cominciò fra loro il proverbio di menar l’orso a Modena; imperocché non sempre se ne poteano havere de’ giovinetti, e il condurre ogni anno un animale silvestre e feroce per ispazio di cinquanta miglia, la più parte dirupi e balze, riusciva molto più difficile impresa di quello, ch’eglino da principio s’ erano immaginati, e quando alcuno di que’ poveri huomini, o per necessità, o per avidità di guadagno pigliava sopra di sè quell’impresa, il motteggiavan dicendo : Egli ha tolto a menar l’orso a Modena. Finalmente, non ritrovando più quel Comune chi volesse pigliar sopra di sè quella briga, oltre la difficultà che s’havea, in pigliar ogn’anno una di quelle bestie, supplicarono il Principe che volesse permutar loro in denari quel canone. E così, non ha molto, che in dodici Giorn. SI. e Leti, della Liguria. 6 — 82 — nel territorio di Gazzano in Lombardia; onde non era la Garfagnana che di orsi abbondasse. Il P. Paoli, peraltro, ne’ suoi Modi di dire toscani arreca anche un’altra ben diversa origine del suddetto proverbio, che può ivi vedersi. Quanto al tributo dell’orso, riguardo al Comune di Soraggio, se ne vede neH’Archivio Camerale di Modena distesa la memoria in questi termini: « Entrata de orsi. Il Comune et homini » di Soragio hanno a dare ogni anno al nostro Signore, a la » festa de Natale, per feudo del pascolo da l’alpe, dicto monte » de Cipola. over Alpe Fazola, orsi uno, o uno porco cengiaro; » et quando non potessono dare dicto orso, o porco cengiaro, » debano dare uno porco domestico, di libre 300, come apare » per carta scripta per mano di Baldiserra Bardella, notaro » terrarese, stipulata a di XXVIII iunii 1451 », e anche da instrumento rogato dal notaro Francesco Maria Panizza li 15 giugno 1607. Al presente pagano dodici ducati d’argento l’anno » (1). Gli abitanti di Soraggio si affrancarono da questo canone, col pagamento di duegentonovanta lire e novan-tadue centesimi, per rogito del notaro Boni, del 2 settembre 1874. Il Pacchi a torto afferma che gli orsi si trovavano nel versante opposto dell’Appennino e non già in Garfagnana. Per testimonianza di Salvatore Bongi , nel secolo XIV, abbondavano pure nelle montagne di Lucca. « Che anche degli orsi » (son sue parole) « vagassero allora sulle vicine montagne, e se ne mangiasse in Lucca la carne, lo fa credere il vederli notati fra gli animali sottoposti al provento del macello e registrati nella gabella delle porte » (2). Dallo Statuto delle Gabelle di Barga del 1346 e dalle antiche deliberazioni del Parlamento di quel Comune « appare che la macellazione dell’orso era esente da tasse, e che questo si macellava pubblicamente in Barga e se ne vendeva la carne a prezzo mi- scndi d’ argento fu permutato ; quali tuttavia pagano i Soraggini per questo alla Camera Ducale di Modena. E di tutto ciò, oltre la supplica nominata, che si conserva, riferiscono i garfagnini medesimi haverne scrittura e memorie antiche, degne di fede ». Tassoni A., Pensieri, Venezia, Brogiolo, 1636, pp. 436-37. (1) Pacchi Domenico , Ricerche storiche sulla Provincia della Garfagnana. In Modena, presso la Società Tipografica, 1785, pag. 5. ("2.1 Bongi Salvatore, Bandi Lucchesi del secolo XIV, tratti dai registri del R. Archivio di Stato in Lucca, Bologna, Tip. del Progresso, 1863, pag. 346. - 83 - / tissimo » (1). Che poi abbondassero in Garfagnana anche nel secolo XVI sta lì a farne fede questa lettera, che il Duca Ercole d’ Este, il 25 agosto 1550, scriveva da Ferrara al capitano Lodovico Boselli, capo delle milizie della Garfagnana, che dal giugno all’ottobre di queU’anno tenne a Castelnuovo le veci di Commissario (2); lettera che si trova autografa nel R. Archivio di Stato in Massa. Eucui.es Dux Ferrariae, etc. Dilectissimo noster — A questa venuta nostra in Carfagnana, la quale sarà, piacendo a Dio, alli otto o diece del mese che viene, haressimo charo
  • 2 con cui si faceva tornare la politica ecclesiastica al medio-evo, rompendo tutte le tradizioni leopoldine, ed il tentativo di una segreta congrega, nel Cenobio di Santa Trinità, per ristabilire il Santo Ufficio, non riuscirono ad esito alcuno. (3) Si capisce facilmente che, date le comodità di quei tempi, dovè partire ai primi di settembre; ma, come vedremo, nella lettera segmento fissa il giorno della partenza. — 90 - di mio fratello, giacché dalla Bettina non ne ho, che olla si lamenta sempre dei suoi incomodi. Conservatemi quei miei scartafacci poetici che v’ ho inviati. Io ho perduto 1’ originale onde bisognerà che ricopi codesta copia. Esamineremo un poco quel soggetto che probabilmente abbandonerò o che cangierò totalmente adattandolo d’avvantaggio a’ tempi e allo spirito presente, levando affatto tutti i nomi e tutte le personalità, facendovi bensì restare una satira dolco, ma unendovi uno spirito di moderazione che sarà probabimente più al caso. Ho in testa una specie di piano, l’esamineremo e ci decideremo (1). Nel mio viaggio vi travaglierò. Io ho il costume di compor quasi sempre passeggiando. Quando viaggio le idee mi vengon più facili, allora compongo e quando arrivo alle osterie scrivo tutto quello che ho composto. Così ho fatte queste buffonate senza la più piccola fatica. Se vedete il Dott. Masi salutatelo caramente. Io sono stato altre volte molto legato con lui e con la sua famiglia. Di Toscana mi scrivono che son tranquilli, ma che le finanze sono in un gran disordine e vi è molta miseria. Per ora io ne son lontano. Vedremo quel che verrà. Intanto avrò visto la Francia e la Spagna, vedrò l’Inghilterra ed altri paesi. Tutto per lo meglio. Tanti saluti a Giardini, al P. Giustiniani, a Prence. Desideroso di rivedervi e di trovarvi in perfetta salute mi reco a gloria di dirmi ecc. In quest’ultima lettera il Pananti fissa il giorno della sua partenza per Parigi e Londra. Soréze 31 Agosto 1802. Caro Amico, Ilo ricevuta la cara vostra ed ho inteso con gran piacere chela vostra preziosa salute ha moltissimo guadagnato e che vi potete dire come perfettamente guarito. Abbiatevi per assicurarla attenzione e cura. Nulla vi posso dire di Ragazzini. Di Toscana ancora mi scrivono per saperne qualcosa. So che Lamprodi che è qui Professore e che passa a Parigi per poi passare a Milano lo lasciò in una pensione sulla strada di Bacq, occupato anco di veder le stampe del poema del Casti e potrebbe dirne qualche cosa. Egli dava delle lezioni d’italiano ad un signore olandese, figlio del vice ammiraglio Dedei, che pareva d’aver il progetto d’andare a viaggiare e di con- fi» Non possiamo sapere se tale argomento l’abbia abbandonato o modificato giusta le sue intenzioni, perchè questo poemetto ancora non ó venuto alla luce, ma possiamo augurarci di rintracciarlo, con più accurate ricerche, nel ricco archivio della gentil famiglia Gherardi-Angio-lini, alla quale dobbiamo la pubblicazione delle lettere presenti. — 97 — durlo seco. M. Dedei faceva allora la corte alla Signora Morando di Genova. Non saprei dirvene altro. Fra quattro o cinque giorni partirò per Parigi e di là per l’Inghilterra (1), resterò qualche dì a Bordeaux. Avrò dunque il pia-cere d’abbracciarvi. Aspetto a Parigi nuove della Bettina, voleva aspettare Castinelli che viene a vedere i suoi tìgli in questo Collegio , ma , come il giorno del suo arrivo non ò sicuro, non posso stare in questa aspettativa, mi privo però di un gran piacere. Sono stato assai malato d’infreddatura alla testa e allo stomaco. S’ aggiunse una tristissima nuova quella del mio caro amico Bar-gellini di Toscana. Nè il tempo, nò la riflessione hanno potuto ancora dissipare la folta nuvola di tristezza che ingombra 1’ anima mia. Così sempre la morte toglie i migliori e lascia i perversi. Credetemi invariabilmente ecc. Qualche altra notizia intorno al Pananti l’ho potuta ricavare dalla lettura di parecchie lettere, pure inedite, indirizzate al Cav. Angiolini da Agostino Dini, democratico, che fu poi nel 1799 segretario della prima municipalità di Firenze. Da esse apparisce che il Pananti sullo scorcio dell’ottobre del 1796, partì colla Luisa Dini, che si era separata dal marito , e con molti altri per Milano , dove condusse una vita gaudente e spensierata, tanto da trascurare perfino la sua usuale corrispondenza col predetto Cavaliere e coi suoi a-mici di Firenze. Difatti il Dini domanda frequentemente notizie del Pananti all’Angiólini ed in una lettera da Firenze, il 6 dicemqre 1796. gli scrive : « Vi manca un corrispondente nella persona del Pananti? Se avete necessità di valervi di un amico sincero in qualche cosa non mi risparmiate che mi farò un dovere puntualmente servirvi » ecc......*ed in un’ altra successiva scritta pure da Firenze il 17 dicembre 1796, così si esprime: « Madama e compagni sono attualmente a Milano e li vedono frequentemente ai passeggi e al (1) Lasciò pertanto il collegio di Soréze il 4 o il 5 di settembre del 1802. A Londra visse una diecina d’anni certamente, peccato che non si sappia quando realmente sia tornato in Toscana, giacché il biglietto che il Pananti dirige al Cav. Angiolini da Pisa o forse anche da Firenze e che l’Andreani inserisce pure nella sua raccolta a pag. 182, non porta sull’ originale altra indicazione che questa « Martedì sera ». La data 11 luglio 1814 che è scritta fra parentesi in un angolo della lettera è evidentemente un’aggiunta posteriore, quindi di essa non se ne può tener conto, tanto più che, come giustamente nota l’Andreani stesso, il 11 luglio 1811 cadeva in giovedì anziché in martedì. Giorn. SI. o Leti, della Liguria. 7 - 98 — teatro....... Mi fa assai meraviglia che Pananti, con tutta l’amicizia che aveva per voi, abbia tralasciato il carteggio e se ero in voi non volevo più curarmene, tanto più che lo svantaggio era tutto per lui della perdita di un amico del vostro carattere. Se mai aveste qualche novità dal medesimo, credo che sarete per comunicarmela, persuaso della mia discrezione ». Benedetto Romano. BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO. Codices italici manu exarati qui in Bibliotheca Taurinensis Athenaei ante diem XXVI ianuarii MCMIV asservabantur. Recensuit, illustravit Bernardinus Peyron. Praemittuntur C. Frati italica Praefatio et Elenchus operum B. Peyroni tipys impressorum. Taurini, Clausen (ex officina Regia Paravia), MCMIV; in 8° di pp. 690 con rit. L’eruditissimo autore di questo importante catalogo, non avrebbe mai immaginato che il suo lavoro doveva quasi servire di necrologia a tutte le vittime del fuoco ond’arse la biblioteca torinese nella triste mattina del 26 gennaio. Egli lo aveva compilato in servizio degli studiosi , affinchè più agevoli riuscissero le ricerche in questa serie cospicua di manoscritti italiani, nello stesso modo come aveva fatto già prima per gli ebraici, e disegnava di seguitare per tutti gli altri, divisi in sezioni, se gli fosse bastata la vita. Ora il volume presente pubblicato dalla famiglia con le cure del valoroso Carlo Frati, non può più guidare lo studioso a traverso gli opulenti scaffali, anzi pur tornando di non scarsa utilità come opera bibliografica, desterà nell’animo suo un senso di profondo dolore quando gli palesi 1’ esistenza di uno o più codici di cui non è sperabile nè possibile trovare altrove altra copia. Pur troppo i superstiti sono assai pochi, e i più guasti e frammentari. È vero che gli studi diversi a cui dettero argomento parecchi di questi codici, può considerarsi come piccolo compenso a tanta jattura ; ma la mancanza di quelli o-riginali, non è men dolorosa perciò , e perchè son perduti monumenti venerandi, e perchè non sono possibili ragguagli e riscontri, e specialmente illustrazioni più ampie di quelle dateci da alcuni solerti eruditi, i quali ebbero in animo sol- - 09 — tanto di porgerci esatta notizia di que’ testi, senza darci compiute monografie. Delle quali pubblicazioni ha toccato il Frati nella sua prefazione con la brevità che si conveniva al suo proposito , ed ha poi discorso con maggior larghezza il Re-nier, prendendo appunto le mosse dal catalogo del Peyron, onde la sua recensione assume grandissima importanza bibliografica e letteraria (1). Egli infatti conoscitore esperto e profondo , per lungo studio , dei codici torinesi, specie italiani e francesi; acuì era stato commesso l’incarico di riconoscimento e di identificazione, ci dà un conto esatto dei manoscritti ch’ebbe modo di riconoscere, ma salvo pochissimi, e aneli’ essi danneggiati , tutti gli altri in fogli e spezzature disgregate e da considerarsi più che altro come reliquie. Non abbiamo bisogno di aggiungere quanto grande sia e diligente e completa la copia di informazioni che 1’ erudito scrittore appone all’elenco de’ manoscritti italiani e francesi, pergamenacei e cartacei, o del tutto perduti o che con la sua pazienza e con la sua dottrina è riuscito a identificare in quel-l’informe ammasso di carta, di cenere, di detriti, di poltiglia ond’era ridotta la ricca raccolta de’ codici torinesi. 11 dolore di questa terribile strage venne risparmiato al vegliardo , che avea per circa un trentennio, consacrato la maggiore e migliore parte della sua molteplice dottrina e della sua diligente operosità a quella biblioteca universitaria, di che porgono testimonianza luminosa e il ricordato catalogo de’ codici ebraici, e il presente, al quale disegnava mandare innanzi una prefazione che doveva essere illustrazione storica dei manoscritti indicati, e in un tempo delle vicende della biblioteca stessa, e a tal uopo aveva raccolto materiali in gran copia e dettata una parte notevole dell’ e-sposizione ; carte preziose travolte pur esse nella voragine infocata. Perciò il Frati presentando l'opera dell'illustre suo predecessore si è limitato ad una prefazione informativa, con notizie di fatto sull’opera medesima, e sopra il suo autore, corredando queste di una accurata bibliografia di tutte le scritture che il Peyron lece uscire in pubblica luce. Il catalogo di cui diamo breve notizia reca la descrizione di ogni singolo manoscritto, non trascurando neppure le particolarità, ne divisa la contenenza e riferisce sovente il prin- (1) In Giornale storico della Icll. ital., voi. XLIV, pag. 107-119. - 100 — cipio e la fine dei componimenti, con la giunta di osservazioni e riscontri bibliografici. Due indici chiudone il volume; quello degli opuscoli stampati e degli scritti non italiani intersecati ne’ codici miscellanei, e quello generale alfabetico per voci. Parecchie cose genovesi contenevano quei manoscritti. Notiamo la Istoria del viaggio per mare del Principe Giovanni Andrea Boria, nell'estate dell’anno 1569 narrata da Gio. Felice di Poggio e da lui dedicata al sig. Gio. Maria Agamonio; il di Poggio era un medico, e l’Agamonio Castellano e Commissario di Civitavecchia (p. 42). La cronaca di Giovali Agostino Abate savonese (il Peyron scrive Giovanni Agostini, Abate), (p. 69) del qual codice è un’ altra copia autografa più ampia nella biblioteca dell’Università di Genova (1), opera da non confondersi con le Cronache di Savona del medesimo autore, di cui esiste pure l’autografo nella ricordata biblioteca, sul quale vennero poi stampate (2). L’esemplare di dedica a Carlo Emanuele della Zenobia, regina d'Armenia, tragedia di Gio. Antonio Ansaldo (p. 211), che è a stampa. L'Oratione in lode della Serenissima Madonna Margherita di Francia Duchessa di Savoia e di Berr'i, insieme con alcune altre compositioni sopra il medesimo soggetto di GiofJ'red.o Lomellini (p. 217;, scrittura ignota ai nostri biografi (3); del quale autore pur v’hanno i Dialoghi, Le famiglie di Genoa fatte nobili nel 1528, e la Relatione delle turbolenze del 1575 (pag 264), delle quali scritture si trovano copie nelle biblioteche genovesi, oltre la stampa di un d’ essi dialoghi (4). La Storia della guerra mossa nell’anno 1672 alla Repubblica di Genova da Carlo Emanuele li anonima (p. 220); opera non impressa, ma assai nota del cancelliere Francesco Maria Viceti (5), scritta per (1) Cfr. Neri, Studi bibliografici e letterari, Genova, Sordomuti ( 1890, pag. 47 e segg. (2) Cronache savonesi dal 1500 al 1570 di Agostino A iute accresciute di documenti inediti pubblicale e annotate dal dott. G. Assereto, Savona, Ber-tolotto, 1897. (3) Ne rilevò l’esistenza dal Catalogo del Pasini 1’Olivieri, Carte c cronache manoscritte per la storia genovese esistenti nella biblioteca della R. Università, Genova, Sordomuti, 1855, pag. 19. (4) Olivieri, op. cit., pag. 19 e 50; Spotokxo, Storia lett. della Liguria voi. Ili, pag. 49 (5) Spotorno, op. cit., voi. Ili, pag. 66. - 101 - incarico del governo al quale poi non piacque renderla di pubblica ragione. Ne esistono molte copie. Il cod. O. I. 29 ([>. 304) che oltre alla Congiura del Vacchero di Raffaele Della Torre, nota per le stampe, contiene relazioni e documenti riguardanti i dissidi della Repubblica con la Francia nel 1G84-85 , anch’essi conosciuti per diverse pubblicazioni. La Relatione di Genova (anonima) (p. 396), che è quella stessa dettata da Matteo Senarega di cui si conoscono parecchie copie più ampie e compiute (1). Un Discorso sopra Genova scritto a quanto rileva il Peyron fra il 1550 e il 1560 (p. 554). Alcune operette di Antoniotto Fregoso noto sotto nome di Fileremo (pag. 526) che furono trascritte nel sec. XVII da antiche edizioni. Gli scritti di Giuseppe Luigi Biamonti (p. 584) intorno ai quali era uscita l’anno innanzi nelle Memorie dei Lincei una pregevole monografia del Giambelli. Il codice del sec. XV contenente: Dell'immortalità della-nima dialogo di Iacopo de Campora (p. 285), edito più volte. Accenneremo per ultimo ai codici che contenevano poesie e prose del Chiabrera. Due manoscritte dell’Amedeide (0. Ili, 4, p 344; O. IV, 8, p. 354) il primo de’ quali è dato coinè autografo. Il Ruggiero (p. 378) con giunte e correzioni che attestano essere anch’esso autografo ; e così la tragedia Ip-podamia dedicata a Carlo Emanuele, pubblicata la prima volta nel 1794 sopra una copia trattane dal Vernazza. Egli ha esemplato abbastanza fedelmente il testo; ma l’editore, e cioè il P. Massucco, ne ha ammodernata la grafia; alcune piccole differenze, non sappiamo se da ascriversi all’uno o all’altro, ci è occorso notare in un ragguaglio fatto parecchi anni or sono; ed eccole qui: pag. 22, v. 16 in rischi, aut. ’n rischio - ivi, v. 17 fresche, aut. fredde — pag. 27, v. 19 ragion, aut. staggion — pag. 36, v. 14 troiana , qui nell’ aut. è novella cancellato e sopra troiana — ivi, v. 23 ma se tu, aut. ma tu se — pag. 38, v. 7 del, aut. che 'I — pag. 42, v. 14 contro, aut. contra — pag. 43, v. 10 meravigliando, aut. meraviglioso — pag. 44, v. 9 finir, aut. fornir — pag. 50, v. 10 in tutto, aut. invitto. Il cod. N. VI, 58 (pag. 218) del secolo XVII, ma non autografo, contiene pure cose diverse dal Chiabrera, ed è a dolere sia andato perduto perchè recava un Dialogo delle lodi di S. Lucia, interlocutori: Iacopo Gaddi, (li Olivieri, op. cit., pag. 51 segg. — 102 — Francesco Rondinelli e forestiere savonese, non compreso fra le opere edite a noi note; c’è poi un Sermone del Padre Vollero da non attribuirsi, crediamo, al savonese. Al Chiabrera invece è forse da assegnarsi la tragedia Angelica in Ebuda del cod. O. V, 23 (pag. 153) sebbene dai primi versi apparisca diversa da quella a stampa (1). Or tutto quanto in questo massiccio volume si registra si può dire quasi interamente distrutto , e v’ erano codici quivi non menzionati e venuti ad accompagnarsi agli altri, quando il diligente lavoro del Peyron era condotto a termine; poiché « toccò il maggior danno » ai codici « ebraici, agli arabi e persiani, ai trancesi, agli italiani; dalla sala oltremodo preziosa ciò che non scomparve nei vortici dell'incen-dio. uscì a fasci disordinati tra volumi in massima parte travagliati dal fuoco a pagine disperse ed erranti » (2). Non è quindi a sperare che 1’ arte e amorosa cura di esperti studiosi riesca ad esumare qualche cosa di veramente utile fra « le innumerevoli carte sparse, vere foglie della Sibilla, che giacciono raggrinzite e accartocciate », o dai « mucchi di cartame bruciacchiato che fa lagrimevole mostra di sè sui palchetti di certe scansie »; in ogni modo « saranno riconquiste magre » (3). Fortunatamente men magre sono quelle de’ codici greci e latini de’ quali si sono affrettati con lodevole sollecitudiue a render conto Gaetano De Sanctis, Carlo Cipolla e Carlo Frati (4). N. Lucien Gallois, Sui mappajnoncli del Palarlo e del Dui-cert. Osservazioni (pp. 7 in Rivista geografica italiana, Anno XII, fase. 1, Gennaio 1905). Due anni or sono avevamo letto nella Biblioth. de l'Ec. des Chartes il breve studio di Carlo De La Roncière intito- (1; Per le opere del Chiabrera si consulti Vahaldo, Bibliografia delle opere a stampa di G. C., in Giorn. Ligustico, XIII e XIV, e Sapp. Second., Savona, Bertolotto, 1591. (2) Boselli, Relazione premessa al disegno di legge per i provvedimenti necessari a riparare i danni cagionati dairincendio alla Biblioteca Nazionale di Torino, pag. 5; relazione importante anche per le notizie storiche e letterarie. (3) Rf.ni eh, 1. c., pag. 412. (4; Inventario dei codici superstiti greci e latini antichi della Biblioteca Nazionale di Torino in Rivista di filologia classica e a parte. - 103 iato : L'atlas catalan de Charles V derive t il d un proto-type catalan? (1). La nostra speranza di trovarvi maggioii notizie di quelle già date dal Magnaghi sulla carta corsiniana di Angelino Dall’Orto , e da noi riassunte in questo gioi-nale (2), fu delusa ; nè di più ci ammaniscono queste Osservazioni del Gallois. Al più , esse ci danno prova^ novella e gradita che gli eruditi di Francia più equamente d un tempo giudicano il inerito dei nostri padri del trecento e dei geno novesi specialmente, e non sono disposti ad accettale senz’altro le ben note supposizioni del Dr. Humy intorno al prototipo catalano delle carte nautiche medievali. I confronti onomastici che il nostro Magnaghi aveva fatti fra le tre mappe (quelle di Angelino Dall’Orto, del Dulcert e la catalana del 1375) estese il De La Roncière alle coste occidentali di Francia, che i marinai genovesi più frequentavano alla fine del dugento e in principio del trecento. Era un vero gran blocco continentafe (3) che Filippo il Bello sforzavasi di eseguire contro Edoardo d’Inghilterra. « Le carte di Pietro Vesconte — dice il La Roncière — sembrano il commentario di quelle campagne. E i nomi dei luoghi trovansi sempre nelle tre mappe poste a confronto , ma particolarmente poi in Dall’ Orto (corsiniana del 1325) e in Dulcert (carta disegnata a Majorca nel 1339 e detta di Carlo V) italianeggianti non solo, ma con forme quali suonavano in bocche ligustiche ». 11 che importava nuovamante di assodare (4). Guido Bigoni. ANNUNZI ANALITICI. Ferdinando Podestà. Arte antica nel Duomo di Sarzana. Genova, Sordomuti, 1904; in 8» di pp. «7 con tavole. - Con questo libretto l’autore si h proposto di rendere meglio accessibili all’ um- (1) LXLV (1903), pp. 473-489. (2) G. Bigoni, Per un cartografo genovese del trecen’o, Voi. i, pp. Ibi e segg (1900). Oltre agli studi originali del Magnaghi ivi citati ofr. l’articolo di A. Moni, Di una carta nautica italiana del secolo XIV nella Rivista Marittima (Agosto-Settembre 1900). (3) Cosi s’intitola appunto un capitolo della reputata Storia della marina francese del De La Rancière. (4) Non si comprende perchè la traduttrice dell’ articolo del Gallois non abbia ritradotto in italiano il nome di Lancellotto Malocello. - 104 — versale le notizie
  • gc nel largioni. Riporta poi dal Santini (p. 46) l’alberetto genealogico dei Riccomanni, ed era meglio riferirsi a quello dato dal Milanesi nelle note al A asari (Ediz. Sansoni). In due capitoletti che precedono le notizie artistiche si parla della cattedrale e si danno alcuni cenni «Iella citta. In questi conviene avvertire come l’a., seguendo forse il Repetti, abbia confuso il Castrum Sarsanae e il burgum (p. 17) che sono, secondo è ben noto, duo luoghi diversi. Eugenio Musatti. leggende popolari. Terza edizione con nuove aggiunte. Milano, Hoepli, 1904; in 16“ di pp. 183. — La buona fortuna del presente manuale è dimostrata dall’ essere questa la terza impressione, alla quale l a. ha prestato nuove cure con ritocchi ed aggiunte. Le leggende sono quarantacinque, esposte con semplicità ed attinte dalle fonti migliori ; e quelle poche pagine sono sufficienti a darci le opportune notizie intorno a ciascuna, mentre additano allo studioso gli scritti dove potrà apprenderne di più in ordine alla loro origine, allo svolgimento storico, all’ attendibilità. Il M., sebbene si chiarisca bastcvolmente informato della letteratura inerente a sì fatto argomento , pure, ed è naturale, gli riesce più famigliare tutto quanto si riferisce alle leggende venete. Quella riguardante il doge Manin assume le proporzioni di monografia. Due indici chiudono il volumetto; bibliografico 1’ uno delle opere citato ; 1 alfto onomastico. E a desiderare che in una nuova edizione la competenza dell’a. accresca la curiosa materia. - 105 - G. V. Oxilia. La vita e le rime di Pierosso Strozzi. Firenze, Tipografìa Galileiana, 1904; in 8° di pp. 16. — Di questo rimatore fiorentino, Borito al cadere del trecento e sui primi anni del seguente secolo , poco si sapeva all’ infuori del magro cenno lasciatone dal Redi nelle annotazioni al suo ditirambo, cenno ch’egli potè fare certamente in seguito alle notizie comunicategli, a sua domanda, dall’arcidiacono Luigi Strozzi biografo della illustre famiglia. Ma all’O., messo sulla via da una postilla di Salvino Salvini alla ben nota o-pera sugli scrittori fiorentini del Negri, (il cui fondo principale è costituito dalle schede lasciate dal P. Agostino Oldoini), riuscì di scovare in un ms. Strozzi-Uguccioni conservato all’Archivio di Stato in Firenze, la biografia di Pierozzo scritta dal Salvini stesso. Egli tuttavia, leggendo in principio del cod. una lettera di Carlo Strozzi nella quale dopo aver dichiarato che tutte le vite « a riserva d’ alcune poche » sono di suo zio arcidiacono, avverte che « con 1 aiuto della felice penna del sig. Can. Salvino Salvini, si riduranno in un libro quelle poche che mancano », resta dubitoso se la vita di Pierozzo , che è appunto fra le mancanti , sia da ritenersi dettata dal Salvini, o insieme da questi e da Carlo. Ma a noi sembra il dubbio fuor di luogo, poiché l’espressione: « con l’aiuto della felice penna » non ci pare « ambigua », anzi, a nostro avviso, confermativa della ricordata postilla, dove il Salvini la dice: « da me distesa ». L’O. ne produce il testo, facendolo precedere da alcune notizie sulla più « diretta parentela ascendente di Pierozzo » ed «altre aggiungendone dal biografo taciute, con utili riscontri e note dichiarative. Reca in fine come saggio un sonetto caudato al Soldanieri con la risposta di questi, e duo ballate, accordandosi ne’ giudizi sfavorevoli espressi dal Crescimbeni e dal Quadrio sul valore di questo rimatore , impropriamente detto « antichissimo ». Ma se il poeta si dee considerare « di poco conto », è meritevole di ricordo « il personaggio storico e il cittadino » a cui vennero affidati importanti uffici pubblici. Rileviamo fra l’altro che nel 1402 fu mandato ambasciatore a Genova. Edgardo Maddalena. Lasso, Tip. Soc. Spalatina, 1904; in 16° di pp. 13. — Con la consueta geniale erudizione il M. ricerca 1’ e-timo del vocabolo, che è entrato nel patrimonio della nostra lingua a significare atto o motto buffonesco sulla scena e fuor di scena. Raccoglie le opinioni di tutti coloro che in qualche guisa ne hanno toccato, c inclina a credere sia questa parola autoctona « risultante dalla fusione dell’articolo V con la voce monca asso » che si trova primamente in scenari del 1632 ad esempio cosi: « facciano lazzo di metter mano », e cioè l’azione, mentre in altri si trova nello stesso significato: far assi o far asi, abbreviazione della voce asione. Il quale rilievo è specialmente dovuto agli studi di Antonio Valeri, la cui mente acuta era penetrata tanto a dentro allo cose teatrali ; sebbene il M. ci faccia sapere che fin dal 1788 un tedesco, il Floe- - 10G — gel, avesse proposto come verosimile la medesima, etimologia, e il Tommaseo nel Dizionario abbia detto che lasso rammenta actio. Vii altro arcade younghista [di] Emii.io Bertana. S. 11. tip. (E-stratto dal volume nuziale Negri-Sciierillo). — Si tratta del poeta Luigi liiclieri torinese , che nella sua lunga vita fu a tempo ad os-sere successivamente abate osservante e sommesso, suddito fedele, cittadino sbrigliato e repubblicano d’ occasione, anticlericale, come oggi direbbesi, per tornar poi buon suddito 0 buon cattolico a seconda dello spirar de’ venti. Or di costui e delle sue rime malinconiche, con i soliti ingredienti del chiaro lunare, delle tetre imagini, degli abissi, dello selve, ecc. ecc., ci parla il 15. 111 poche ma geniali pagine, facendoci desiderare che il suo proposito di raccogliere in un più ampio volume quanto egli esposo nella gustosa Arcadia lugubre, con le aggiunte man mano appostevi, diventi presto 1111 fatto compiuto ad illustrazione di un periodo notevole della nostra storia letteraria. Sulla paternità della vita di Niccolò Capponi [di] Michele Lupo Gentile , Torino, Loescher, 1904 ; in 8° di pp. 12 (Estratto dal Giorn. stor. d. lett. ital.). — Combatte 1’ opinione di Giuseppe Sa-nesi, il quale vorrebbe provare che la vita del Capponi non è e non può essere del Segni, ma d’altro scrittore e probabilmente del Gian-notti. E le ragioni che egli adduce per rivendicare codesta operetta al ben noto isterico fiorentino, sotto il cui nome fu sempre pubbli cata, sono di molto peso e pienamente persuasive. Ma c’ è di più ; suffraga le sue affermazioni con dati di fatto e documenti così precisi chiari ed autorevoli da rimuovere qualunque dubbio. Gino Capponi e Pietro Giordani [di] Alessandro D’Ancona. S. 11. tip. (Estratto dal volume nuziale Negbi-Scherillo). — È una bellissima lettera del Capponi al Giordani sulla pubblicazione delle Storie di Pietro Colletta. Fu scritta quando, in seguito allo sfratto del letterato parmigiano dalla Toscana, si raffreddò 1’ amicizia affettuosa di lui verso il fiorentino, e ciò senza regione. Documento importante e singolare che ci fa pregustare in piccolissima parte il lavoro sul Giordani che il d’A. sta per pubblicare, e del quale qualche saggio già leggemmo sulla Nuova Antologia. E. Maddalena. Lessing e l’Italia. Roma, Salviucci, 1904; in 8" di pp. 13. — L’A. ì-icerca diligentemente nella vita e nelle opere del Lessing quali relazioni egli abbia avuto con l’Italia. Quivi egli fu nel 1775 e parecchi mesi vi si trattenne, di che ha lasciato testimonianza in un diario, che è piuttosto una serie d'appunti e di note, destinati a qualcuno dei tanti lavori ch’ei andava mulinando. Alcuni tocchi sulle cose italiane si hanno altresì nelle scarse sue lettere. Più importante è il vedere l’influenza che il pensiero e la civiltà italiana esercitarono sullo spirito del Lessing. Quanta o quale essa fosse il M. espone con brevi, succosi e sicuri rilievi, desumendone la testimonianza dagli scritti di lui, e chiude determinando la I — 107 — fortuna ch’egli ebbe in Italia, così rispetto alla conoscenza dello sue opere, di cui si hanno traduzioni o rimaneggiamenti, come alla critica là dove s’incontra con lo dottrino da lui formato, o si piace di apprezzamenti dirotti o indiretti, nè sempre equanimi e benevoli. Queste pagine dettate con la consueta competenza e genialità acuiscono il desiderio di più ampio lavoro, ond’è elio aspettiamo vivamente curiosi quello che l’a. annunzia, e cioè l’ampia « monografia » intorno ixlle « relazioni tra l’opera del Lessing e quella del Gol-doni ». Guido Zaccagnini. La vita e le opere edite e inedite di Bernardino Baldi. Modena, Forgliiori e Peliegri, 1903; in 8° di pp. 196. — In sette capitoli ha diviso il Z. questo suo lavoro. Il primo è dei Cenni biografici, sunto della più ampia vita scritta dal p. Atto e corredata da importanti ed erudito annotazioni, alla quale si è studiato l’a. «li aggiungere quelle notizie ch’egli ha attinto per lo più da alcune speciali pubblicazioni mandate in luce posteriormente al lavoro del bussetano, specie in questi ultimi anni, o da qualche fonte inedita. Quivi si tocca del matrimonio ili Ferrante Gonzaga t* con Vittoria liglia del principe Andrea Doria »; per non cadere in equivoco si dovrà dire « Gian Andrea »: inoltre si afferma che il Baldi andò a Guastalla « nel novembre del ISSO » e « trovò la corte ili feste » per le nozze ricordate; a questo proposito conviene osservare che esse avvennero il 20 aprile 1581. Con larghezza maggioro, chò era sì fatto il suo proposito, il Z. si là a dire delle opere; esposizione che occupa tutta l’altra parte del libro. Infatti successivamente s’ intrattiene intorno alle Poesie liriche, ai Poemetti, alle Egloghe, agli Epigrammi, agli scritti storici, ai dialoghi ed altri scritti minori. Questi capitoli raggruppano la materia diversa e numerosa onde 1* urbinate ha manifestato lo iloti singolari della sua mente c lo modalità del suo ingegno, e danno una cognizione sufficiente de’ vari suoi scritti così in verso come in prosa; nè solamente di quelli che si hanno per le stampe, ma altresì d' alcuni i-noditi. Tuttavia l’a., che qua e colà ha cercato di risalire alle fonti, donde nella sua educazione classica, il Baldi ha derivato così pensieri ed innovazioni poetiche, come fatti storici o postillati filosofici e morali, non ha creduto di doversi addentrare nelle ricerche comparative, e rilevare con pienezza ed efficacia gli atteggiamenti e l’opera di questo scrittore che tiene un posto cospicuo nella età in cui fiorì. Di qui è venuto il difetto di un giudizio complessivo , pieno e sicuro , al quale non sopperisce la magra conclusione. Eppure all’ o-( peroso a. non mancavano modi e virtù, di darci, senza troppa fretta, un libro definitivo sul Baldi, mentre questo che abbiamo dinanzi, utile certamente per vari rispetti, ci lascia nel desiderio del più e del meglio così dal lato della biografia, conio da quello della critica. II. Haitvkttk. Le» poesie» de Cosimo Iluceì lai et de Francesco Guidetti. Bordeaux, Fcret et tìls, 1904; iu 8" di pp. ‘24. (Estratto . — 108 — dal Bulletin Italien). — Questi due poeti fiorentini, di cui toccano appena o tacciono le nostre storie letterarie, furono amici del più celebrato Luigi Alamanni, e il primo di ossi ebbe significative lodi da Nicolò Machiavelli. Appartengono alla schiera di coloro clic resero insigni le adunato ne’ famosi Orti Oricollari. L’ II. discorre con alquanta larghezza dell’uno e dell’altro rilevando la loro personalità, correggendo errori ed equivoci di omonimia, discorrendo con acume della loro produzione poetica rispetto al pensiero od all’arte. Le notizie biografiche del Kucellai sono più numerose o più piene; breve fu la sua vita, essendo morto a 24 anni in seguito ad una malattia « contractée au cours d’nne adolescence trop tòt livrèe aux plaisirs » : del Guidetti invece altro non ebbe a rilevare l’a., so non la data della nascita che tu nel 1493 il G novembre , ed era ancor vivo nel pontificato di Clemente VII. Le rime dell’uno e dell’altro sono in generale amorose e risentono l’influenza del Petrarca, sebbene qua e colà in quelle di Cosimo non manchino atteggiamenti o reminiscenze dantesche: al tutto petrarchesca è l’unica canzone di argomento politico del Guidetti, la quale evidentemente esemplata, come nota 1’H., sopra quella del Petrarca: Spirto gentil, contiene frasi che ricordano l’altra ai signori italiani. Queste notizie aggiungono buon elemento alla storia degli Orti Oricellari, di cui 1’ a. a-veva discorso nell’opera sua importante intorno a Luigi Alamanni. Una nota ci avverte in fine che erroneamente aveva affermato non esservi a stampa alcuna delle poesie del Guidetti, mentre ben quarantaquattro se ne hanno nelle Rime del secolo XVI edite a Bologna da Antouio Ceruti nel 1873, dove pure se ne trovano ventiquattro del Bucellai ; raccolta che gli fu fatta conoscere dal Picot dopo la pubblicazione del suo scritto. Edgardo Maddalena. Vittorio Alfieri, discorso commemorativo tenuto al Circolo Accademico Italiano in Vienna. Capodistria, Cobol e Priora, 1904; in 8° di pp. 19. — È, come si vede, un discorso di occasione, ma dettato con bel garbo e con mano sicura da chi co-conosce l’arte ed ha competenza da ciò. Egli parla dello scrittore e dell’ uomo, più di questo che di quello, e rileva quale importanza rivesta nel suo tempo e quale influenza abbia determinato nel secolo che lo vide spegnersi. Informato a pieno degli studi critici intorno all’astigiano, si pone in mezzo giudice equanime o ragionevole; non intende dissimulare le esagerazioni e le contraddizioni, nè gli dispiace che la critica moderna riduca ne’ giusti limiti , e ponga in più conveniente luce l’opera e la figura di lui, o perciò acutamente conchiude: * Vagliato ogni minimo fatto, pesata colle bilancine dell’orefice ogni sua parola, la storia letteraria ci apprende che tutto quanto egli compì non fu già l’opera d’un gigante, come la tradizione insegnava, ma quella d’un uomo come tutti gli altri. Conclusione che certo non scema la sua gloria, so forse non 1’ accresce, e l’Italia dai Goti sgombra, coni' egli augurò, circonda oggi — 109 — ancora quest’ uomo della calda venerazione elio portava ieii al gigante ». Francesco Cari.0 Pellegrini. Raffaello Giusti■ Livorno, Giusti, 1905; in 24° ili pp. 15. — Elegante, affettuosa, veritiera necrologia « d’un uomo elio nato in condizioni umilissime ed infelici , seppe con operosità intelligente ed instancabile, con raro coraggio, uni fermezza fiduciosa sollevarsi dal nulla, e combattendo giavissinio difficoltà riuscire utile non pure a sè ed ai suoi, ma anche alla cui tura del suo paese »; del quale tutti poterono « apprezzale la ìet titudine somma, il nobile sentire, il senno che accompagnava una sincera e remissiva modestia, il fare franco ed aperto dell uomo c ie si sente la coscienza sicura, la generosità che 6otto apparenze oste riori semplicissime e modi che talora potevano parere alquanto me i, velava e nascondeva un cuor d’ oro ». Da umili principi oi seppe assorgere colla perseveranza del lavoro, l’onesta de propositi e a vivace intelligenza, a bella fama fra i migliori librai-editoii d Italia, impiantando un'azienda degnamente remunerativa, ed utilissima al a cultura nazionale, non solo per i volumi di varia letteratuia, ma singolarmente per i libri scolastici de migliori nostii siiitton in ogni disciplina. Il nostro giornale a cui egli costantemente si pi Arehiv. cit., Sen., LHler., fìl 0-1903. ('2,1 Anecdota, cit. — 145 - leges liceret, libenter cederem neque profanum forum e-vitarem „. Queste parole “ si per leges liceret „ fanno pensare che egli non potesse o non volesse rinunziare ad un appello. Invece, quantunque molti lo consigliassero a poi-tare la sua causa dinanzi al tribunale superiore di Roma , e alcuni dei suoi colleglli si mostrassero risoluti a tenere parola dei suoi casi, anche suo malgrado, nel sacro Collegio; ed altri poi, tra i quali ambasciatori di principi, lo esortassero a difendersi con un pubblico scritto , egli a tutti costantemente si oppose; u ne mea defensio ad vestram , patres, invidiam valeret „. Veramente ha dello strano in lui, autore dell’altra lettera così altiera e in certi punti quasi sprezzante, questa tenerezza verso i Padri. Eppure non è quivi soltanto che essa fa capolino. Più sotto egli implora che “ ut ego, Patres, auctoritate vestra adductus me illis libris, qui u-tinam mihi uni perniciosi, patriae salutares fuissent, scribendis et edendis errasse confìteor, ita vos, quae servis ipsis numquam fraudi fuerunt pro vestra justitia mihi e-ripere non debetis, ut acerbissimum casum meum possim lamentari paulloque durius mihi videri possit ea poena, qua ii qui contra patriam arma aperte tulerunt quique prodendae reipublicae cum hostibus consilia communicarunt affici maiore nulla potuerunt, hunc errorem punitum „. Qual pena mai lo minacciava dunque? Qualche cosa di troppo grave doveva, senza dubbio, esserglisi rovesciato sul capo, per fiaccare così repentinamente la sua solita e naturale alterezza. Ma noi non possiamo saperlo con precisione essendo riuscite infruttuose le ricerche che abbiamo fatto per rintracciare il testo della condanna. Cosi egli che , forte della coscienza di una condotta integra e tutta dedicata al servizio di una causa santa, a-vrebbe incontrato rassegnatamente la pena del bando, alla quale ormai era forse preparato, e che , se lo toccava nel vivo dell’animo, pur non metteva in gran pericolo le sue sostanze in Genova, danneggiando e disonorando gravemente la sua famiglia; ora, dinanzi allo spietato rigore dei suoi giudici, dovette piegare del tutto - 146 - la fronte e baciare la mano che lo deprimeva. Ma non si che anche tra le espressioni più umili di una sotto-missione profonda, non suonasse ancora come un’eco disperata , il richiamo del convincimento intimo della sua innocenza; u nani, per Deum immortalem, ut me patriae caritas ad scribendum non impulerit, ut non bona mente utens scripserim ; quid tandem habent libri mei, quod iu-dices, quibus causam cognoscendam mandastis ad laese majestatis interpretationem referrent? „. Del resto si dichiara preparato a subire tutto quello che a loro sarà piaciuto o piacerà d’infliggere , e promette cieca obbedienza ai loro ordini e perpetua, inalterabile carità verso la patria : “ Ego quidquid statueritis recte et sapienter factum existimabo ; nullaque me res a vobis colendis et a patriae caritate numquam abducet „. Questa lettera porta la data del 14 aprile 1559, ossia è di poco posteriore al tempo in cui egli potè venire a cognizione della sentenza. Dal confronto di essa con l’altra sembra poter facilmente rilevare che quella, più diffusa, più altera, rispecchiante un animo ben sicuro di sè ed ignaro d’ un pericolo grave che gli sovrasti, o almeno disposto a considerarlo come un’ ombra da non destare soverchia apprensione, dovette essere scritta nell’intervallo che corse tra la pubblicazione del u Dialogo „ e l’emanazione della sentenza. A rendere il Foglietta così sicuro e a far sì eh’ ei non prendesse le debite misure per salvaguardare il proprio interesse, valsero certamente il mistero e la segretezza onde i suoi giudici copersero abilmente il procedimento, e di cui è una prova manifesta la lettera prima scritta dal Senato al Lomellini in data 13 marzo 1559. Fra i pericoli temuti dalla repubblica e signilicati al Lomellini in detta lettera, v’ era quello di una nuova e-dizione del libro. Si sa che la prima era uscita in Roma coi tipi del Biado , e che una ristampa fu subito fatta colle indicazioni sostanziali della prima (1). Ora, a ri- (1) Giusto Fontanili, Biblioteca dell’eloquenza italiana, con le note dello Zeno, Venezia, Pasquali, 1758, voi II, p. 233. — 147 - guardo di questa, Salvatore Bongi, giudice competentissimo , rilevò che essa probabilmente era stata fatta in Genova, malgrado i furori della repubblica, con quei tipi che servirono al Bellone per la stampa del Cortegiano del Nifo da Sessa, e del Liber elucidationis del P. Francesco Meddense (1). Se ne fecero poi altre edizioni. Nel 1575 lo ristampava a Milano u nuovamente revisto e corretto „ Giovan Antonio degli Antoni, il quale lo dedicava a Cesare Negrollo , nobile milanese: malgrado le grandi promesse annunziate dal frontispizio, questa edizione non ha di nuovo che una tavola o indice, ciò che mancava nelle edizioni antecedenti. Nello stesso anno esso usciva anche a Lione: nè parrà strana tanta sua fortuna a chi consideri che essa coincideva appunto col trionfo del partito popolare genovese. Così se ne faceva un’ ultima ristampa a Genova quando nel 1798, si vollero moltiplicare gli omaggi alle idee democratiche affermatesi nella Repubblica Ligure. La durezza della pena inflittagli dalla patria, se non riuscì ad estinguere nel petto del Foglietta la fiamma dell’amor patrio, calmò tuttavia in lui l’ardore dell’apostolato, che egli non avrebbe ormai più potuto esercitare senzii pericolo. Perciò si rivolse tutto allo studio. Forse però il suo cuore amareggiato non potè trovare, nella severità dell’applicazione mentale, tutto quel conforto di cui abbisognava. Per questo troviamo ch’egli chiese alla donna un balsamo alle sue amarezze. Nulla sappiamo di colei alla quale toccò la pietosa missione, perché la cosa, attese le qualità di lui e la condizione speciale del momento , in cui si lavorava nel gran Concilio per istrin-gere i freni della ecclesiastica disciplina, dovette essere tenuta oltremodo segreta. Ma certo egli amò. A che anno risalgono i suoi primi amori? Potrebbe forse portare sulla via di rispondere a questa domanda il documento pubblicato dal Bertolotti (2), che parla di gioie muliebri ac- (1) Nicolò Giuliani, Notizie sulla tipografia ligure a tutto il sec. XVI, ili Atti d. Soc. Lig. di Stor. Pat., voi IX, p. 355. (2) Nuova Rivista, loc. cit. - 148 - quistate da Uberto e che 1’ editore suppone destinate a servire di dono nuziale a qualche parente. Ma su ciò non sappiamo nulla di più certo. Abbiamo invece questi altri dati. Ci è capitato alle mani il decreto col quale, il 7 dicembre 1598, i Residenti di Palazzo della repubblica genovese dichiaravano il Magnifico Agostino Foglietta u uti filius nobilis „, essendo risultato dalle testimonianze addotte in suo favore, ch’egli era figlio di Monsignor Uberto. Le quali testimonianze furono deposte da uno dei Residenti , il Senatore Giovanni Girolamo De Bene, e da Giambattista Foglietta, figlio di Paolo. Il primo, interrogato sui motivi che lo inducevano a credere vero quanto aveva testimoniato, rispose : “ Perchè dal quondam Magnifico Paolo, fratello di detto Monsignor Uberto Foglietta, ho visto che era tenuto e reputato per tale. Il quale Magnifico Paolo teneva detto Magnifico Agostino in casa sua, come figlio di detto q. Monsignore suo fratello et da esso più volte ho inteso che era figlio di detto Monsignore Oberto. E tanto più mi confermo in questo poiché per il testamento di detto q. Magnifico Paolo è stato detto Magnifico Agostino riconosciuto di un legato da detto Magnifico Paolo , come figlio di detto quondam Monsignor suo fratello. Oltre di questo io testimonio in compagnia dei miei fratelli tenendolo per tale liabbiamo fatta cessione dell’ lieredità di detto q. Magnifico Paolo a detto Magnifico Agostino etc. E Giambattista Foglietta suo cugino, deponeva : “ Io conosco il Magnifico Agostino Foglietta, poco fa qui presente, il quale è mio cugino, figlio del q. Monsignore Oberto, mio zio, fratello del quondam Magnifico Paolo „ e lo ritiene per tale u perchè mentre io ero in Roma in casa di detto Monsignore 0-berto mio zio, ho veduto che da esso era chiamato, tenuto e reputato per suo figlio, stando in casa sua e parimenti da tutti quelli che lo conoscevano e particolarmente ho veduto detto Monsignore che teneva detto A-gostino per figlio, tenendolo alla sua tavola e trattandolo come figlio. Oltre di questo ho veduto che detto quon- — 149 — dam Magnifico Paolo mio padre qui in Genova ha tenuto in casa sua detto Magnifico Agostino come figlio di detto quondam Monsignor Oberto et inoltre come tale l’ha fatto un legato etc. „. Perciò veniva emanato il seguente decreto (1): 1598 die 7 decembris. — Scribatur dictus Magnificus Augustinus Folieta uti filius nobilis ; ita decretum por Sor.'»a Collegia ad calculos, lectis prius his attestationibus. Ambedue i testimoni convengono nel deporre che Paolo avea riconosciuto d’ un legato il nipote Agostino. A noi, che possediamo anche il testamento di Paolo, è stato quindi possibile riscontrare la verità di tale affermazione sul documento stesso. Esso risale ai 15 d’aprile del 1578, e siccome allora era vivo anche Uberto , si dovrà pensare che pure questo espediente, di lar cioè lasciare al figliuolo 1’ eredità dovutagli , per mezzo di Paolo , fosse consigliato dalla prudenza, affinchè la cos.a rimanesse segreta. Ad Uberto poi, in solido coi due giovani, rispettivamente figlio e nipote, Paolo lasciava 1’ usufrutto e il godimento della casa paterna, situata in Genova, nella contrada di S. Donato (2). Nell’ anno 1578 Agostino , come appare da un passo del testamento citato, non era ancora ventenne; cosicché la sua nascita si può riportare a dopo il ’60 circa. In tal modo viene a prendere una maggior consistenza 1’ opinione nostra che le relazioni amorose di Uberto debbano riferirsi al periodo in cui egli fu colpito dalla condanna. (li Archiv. cit. Sen., 111. 89-1, a. 1508, 7 die. (2) Unito al testamento di Paolo, v’è un atto del li settembre 1775, col quale il notaro addetto alla scritta dei luoghi camerali veniva autorizzato ad ammettere al godimento dei frutti di un lascito stabilito dal fu Paolo Foglietta, un suo lontano discendente in linea collaterale. Ciò porchè la discendenza diretta di Agostino, nipote di Paolo si era estinta coi due fratelli Marc’Aurelio e Giacinto Antonio, morti entrambi senza prole. La propaggine dei Foglietta, per più di due secoli ancora dal tempo del Nostro, fu dunque opera di Uberto invece che di Paolo. Imperocché il figlio di quosti, Giambattista, rimase senza discendenti diretti, e nel suo testamento dovette perciò lasciare « heredem suam universalem.... magnificam Theodoram eius uxorem dilectissimam et filiam quondam Angeli Iustiniani ». < Archi v. cit., Not. Bargone, 1596 fil. II'. — 150 - Forse appartiene a questo tempo il seguente suo madrigale, che si trova fra le Rime piacevoli di Cesare Caporali del Mauro e di altri autori : (1) Non mi duol di morire donna per voi ; che se il mio mal vi piace, tutto quel che v’ aggrada a me non spiace ; ma ben mi dnol che la mia vita sete: onde se m’ ancidete, meco voi ne morrete : che s’io debbo morir conviene ancora, che meco insieme la mia vita mora. Ma voi se pur di me non vi curate di voi stessa dovreste haver pietate, salvo che il vostro orgoglio è di tal sorte che vogliate morir per darmi morte. Intanto però Uberto continuava a lavorare indefessamente e le sue principali fatiche venivano consacrate alla storia. Il primo importante lavoro di questo genere a cui egli pose mano fu una Storia generale dei suoi tempi incominciando dalla guerra di Carlo V contro la lega protestante di Smalcalda. Era suo costume, dovendo compilare delle opere di certa mole, di trattare separatamente i diversi soggetti o periodi ed, ultimatili, riunirli insieme con facile trama. Nella dedica infatti di una sua pubblicazione del 1571, intitolata u Ex universa historia suorum temporum „, egli dice: “ Cum omnes...... uno volumine a reliqua historia separato conclusissem (i tre episodi contenuti in detta pubblicazione) qui fere meus est mos in singulis materiis, quas scribendas suscipio, ut mens varietate rerum minime distracta uno in argumento attenta tota versetur : quod absolutum deinde cum universa historia contexo........ Il De Thou osserva a questo pro- jjosito : u Je crois que son but était plutót d’en donner des morceaux détachés, qu’une suite entière ; et véritable-ment ce que nous avons de lui est si diffus que s’il avait écrit une histoire générale dans ce goùt là g’aurait été un ouvrage immense „ (2). (2) Venezia, 1625, p. 243. (1) De Thou, op. cit. - 151 - Per tal modo si poterono presto conoscere alcuni saggi di cotesta storia. Essi diffondendo ben presto la sua fama di scrittore valente, lo fecero venire subito nella stima di grandi principi: anzi alcuni di questi fecero pratiche con lui per valersi della sua opera. Nel 1564 il duca di Savoia, Emanuele Filiberto, a-vendo in animo di servirsi di lui “ per descrivere alcune historie....... nella quale professione lo conosciamo molto consumato e perfetto per la prova che ce n’ha fatto vedere........ „, lo eleggeva gentiluomo della sua Corte e poi storiografo della Reai Casa, assegnandogli per tale ufficio una pensione annua di trecento scudi (1). Sembra però, dice il Claretta, che non istabilisse la sua dimora in Piemonte; e il Tiraboschi aggiunge raccogliersi da alcune congetture che egli uscisse dal servizio del Duca nell’anno 1566. Queste opinioni sono state confermate anche a noi dai risultati affatto negativi che hanno ottenuto le nostre ricerche in proposito nell’Archivio di Torino; per cui possiamo affermare che l’atto del Duca non fosse altro che una specie di compromesso, e che il Foglietta non avendo fatto nulla per lui, non abbia mai percepito neanche l’assegnamento accennato. Il 2 agosto dello stesso anno Francesco Maria Cybo, nobile genovese, scriveva una lettera ad Alberico Cybo, principe di Massa, nella quale accennando al Foglietta, che stava col Duca di Savoia, proponeva di fargli scrivere una storia di Genova. “ Se questo homo „, diceva, “ fosse di più giudizio (ossia prudenza) ha un bellissimo stile; e perchè non so come sia pagato dal Duca ed è poverissimo, se V. S. Ill.ma lo potesse avere appresso di sè in sua Corte non mi dispiacerla, quantunque sia bandito di questa città per una sua castroneria contro i nobili „ (2). Se non che il Foglietta era ormai troppo ben (1) Gaudenzio Claretta, op. cit., e per il decreto: Tiisaboschi , o-pera cit. (2) Atti e memorie, delle RR. Dejiutazioni di Storia Patria per le Provincie Modenesi e Parmensi. Documenti per la vita di Uberto Foglietta per Giuseppe Campori, voi. V, p. 199, Modena, 1870. — 152 - conosciuto anche in Roma; e là dove egli aveva eletto la sua dimora, dove insieme ai tristi aveva anche tanti cari ricordi, e dove finalmente non era più solo, ma godeva indisturbato le gioie della famiglia, doveva essere a lui molto più caro di rimanere. E vi rimase infatti. Il Cardinale Flavio Orsini, quello stesso a cui il De Nolhac pensa si debbano attribuire alcuni mss. del legato Caraffa che il biografo Forcella attribuisce invece a Fulvio Orsini (1), trovandosi in intima relazione col Foglietta e commiserando i tristi casi dell’amico, fece pratiche presso il Cardinale Ippolito d’ Este, affinchè accettasse Uberto tra i suoi famigliari, e gli somministrasse quei mezzi che la sua munificenza distribuiva a larghe mani a tanti eletti ingegni; in modo che il povero Monsignore genovese non sì trovasse impedito dal dolore del-1’esilio e dalle strettezze in cui l’aveva gettato la confisca dei beni, a proseguire una missione così luminosamente intrapresa. L'illustre Estense ascoltò volentieri le raccomandazioni del Cardinale e così il Nostro potè fissare sua stanza nel palazzo stesso di Ippolito. Il Campori ha trovato la prima volta il nome del Foglietta nel ruolo degli stipendiati dell’ anno 1568 ; dice che dal libro del Cambio Tesoriere del Cardinale Ippolito appare essere stata assegnata al Foglietta 1’ annua provvisione di 220 scudi d’oro, a cominciare dall’11 luglio. Nell’agosto del prossimo anno Uberto, trovandosi col suo padrone a passare i giorni canicolari tra le fresche ombre di una sua villa presso Tivoli, scrisse e mandò a Roma all’Orsini una bella descrizione di essa, col titolo: “ Tyburtinum „, e nella dedica, dopo avergli espressa di nuovo la sua profonda gratitudine per il recente beneficio ricevuto, dichiarava d’inviargli tale descrizione per rispondere al desiderio da lui espressogli, prima ch’egli lasciasse Roma per recarsi in quel poetico recesso. L noto che il foglietta servi anche il Cardinale Luigi 0-) Pierre de Nolhac, La bibliothe/jue de Fulvio Orsini* Poxis. WiewQff 1887, p. 122. — 153 — iuniore d’Este ; ma il Campori di nuovo osserva non esser certo che dopo la morte del Card. Ippolito, avvenuta nel 1572, egli fosse tosto ricevuto al servizio dell’ altro. Certo però egli vi si trovava nel 1577 e vi rimase per fin che- visse. Sulla fine dello stesso anno 1569 aveva terminato di scrivere la Storia della congiura del Fieschi, con altri avvenimenti seguiti pure nel 1547. Avendoli dati a leggere ad alcuni amici, avvenne che alcuno di essi se li trascrivesse e che l’opera in tal modo cominciasse ad essere conosciuta da molti e a correre per le mani anche di tali che non avrebbero dovuto averla. Di più pervenne agli orecchi deH’autore che qualche imjDiidente si accingeva a mandarla alle stampe sotto il proprio nome. A tale notizia egli fu costretto di prendere subito la determinazione di pubblicare così staccate quelle parti della sua storia, per non lasciarsi prevenire. Lo dice egli stesso nella dedica: “ librum quibusdam inspiciendum dedi......... verum sensi me parum cautum a- lienae fidei aestimatorem fuisse ab illis proditum. Librum enim descripserunt ab aliisque describi permiserunt: ut vulgari iam inciperet. Quodque caput perfidiae et improbitatis est, a nonnullis mihi amicissimis admonitus sffm proiectae quemdam impudentiae hominem in animo habere librum suo nomine praelo subiicere atque edere. Quo periculo perculsus.....opusculum mihi edendum duxi: idque feci „. Pare che lì per 11 non sapesse decidersi a chi dedicarlo. Andò anche da Cesare Coutardo, agente di Alberico I in Roma, per tastare il terreno e vedere se avrebbe potuto sperarne dal Principe alcuna ricompensa. Il Contardo scrisse a Massa lo stesso giorno, la lettera seguente, non ancora conosciuta (1). lLL.m0 ET Ecc.m0 S.or E PADRON MIO OSS.m0 Monsignor Foglietta questa mane è stato da me con farmi instantia ch’io scrivessi a Y. Ecc.a che era in procinto di mandare a luce l’Ilistorie del Conte di Fiesco, ma ho fatto di sorte elio lui (1) Archiv. di Massa, Lettere. Giorn. St. e Leti, della Liguria. 11 — 154 - scriverà ciò che desidera e credo sarà alligata alla presente. Mostra di dover trattar quella Historia con qualche biasimo do la felice memoria del'S.or Julio e di voler dedicare l’opera al S.or Abate Kavascliiero di Napoli. Pare ancora che più. presto la dedicaria a V.a Ecc.a per la gola delli contanti presenti. Pare anche haver disegno di qualche matteria....... Farò fine con basciarle le mani. Di Poma il IX di dicembre 1569. Probabilmente il Foglietta non scrisse nulla da parte sua, perchè la sua lettera non si è trovata : del resto può darsi anche che sia andata smarrita. Certo il Principe gli rispose in data del 10 gennaio 1570, in modo molto lusinghiero, dandogli alcuni avvertimenti circa la verità delle cose che si conterrebbero nella sua prossima pubblicazione (1). L'opera non fu dedicata nè al Principe nè al Ravaschiero, ma a Girolamo Montenegro, patrizio genovese, e vide la luce in Napoli (2) nel 1571. Fu poi ristampata a Roma nel 1577 e finalmente nel 1587 a Genova, dal Bartoli. E a dolere che di questa Storia Generale d’ Europa non siasi mai fatta un’edizione intera; quantunque pur sembri che dall’autore fosse condotta a termine (3). Paolo Foglietta, nella prefazione ad un’altra opera di Uberto, VIstoria Genovese, da lui pubblicata in Genova nel 1585, lamentando appunto la mancanza di una tale edizione, si lusingava che coloro i quali per avventura ne possedessero la copia la volessero comunicare al pubblico insieme con una Storia ecclesiastica del medesimo Uberto. u Venio in spem, die’ egli, fore aliquando ut altera pars historiae universalis ac simul Ecclesiastica integra, maximis Uberti vigiliis conscripta e tenebris in lucem e-mergat. Qui enim labores et voluntatem Folietae gentis (1) Campori, loc. cit. e cfr. anche Sforza , Cronache di Massa di Lunigiana. Lucca, Rocchi, 1882, p. 119. (2) Uberti Folietae, Ex universa historia suorum temporum , Neapoli, Cacchio, 1571. (3) In seguito il Gre vio inserì in Thesaurus tutti gli opuscoli del Nostro, che dovevano far parte della stessa Storia, insieme ad altri di diverso argomento. — 155 — summis principibus gratam esse intelliget privata sua sive utilitate, sive jucunditate posposita, illa credo diutius non supprimet Dalle quali parole, oltre che la perdita di una parte della storia citata, poichò le speranze di Paolo andarono completamente deluse, si apprende ancora quella di una Storia Ecclesiastica, di cui, per altre fonti non conoscevamo neanche 1’ esistenza. Dopo l’inutile tentativo di Paolo , nessuno ha più potuto argomentarsi di raccogliere in uno le sparse membra, molte delle quali a quest’ ora, purtroppo saranno andate distrutte. Speriamo che, almeno , la sorte conduca qualche volonteroso a scovare le tracce di quelle che restano. A noi, se non ci siamo ingannati, è già toccata, in parte, questa fortuna. Dalla cortesia del Direttore dell’Archivio di Modena abbiamo avuto notizia di un ms., attribuito al Foglietta, in cui tra altri opuscoli, già editi al tempo del-1’ autore, si trova anche un Bellum pis anum, uno, probabilmente , dei tanti squarci destinati alla formazione del gran corpo della Storia Generale (1). Nello stesso tempo che Paolo pubblicava in Genova, nel 1585, un gruppo di monografìe, Giulio Guastavino andava facendone, per suo esercizio, la traduzione, che tredici anni più tardi, ossia nel 1598, egli dava alle stampe nella sua città, dedicandola a D. Carlo D’ Oria duca di Tursi (2). Riguarda appunto tale pubblicazione il biglietto seguente del settembre 1597 a Vincenzo Botto, Cancelliere della Repubblica (3). Il.T..mo S.re, Mando a V. S. l’istoria del Foglietta della sacra lega fatta volgare, la quale Sjj ha a stampare, come dissi a Y. S. Mi farà gratia dar la licenza quanto prima, voglio dire almeno questa settimana, essendo, com’io avviso, riposta la caosa nella sola relatione di Y. S. che può dire di haver veduto il libro e le bacio le mani. Di V. S. 111.”» Servitore Giulio Guastavino. (1) Se, dopo un accurato esame di questo ms., appartenente al secolo XVIII, potremo assodare la sua autenticità, saremo ben felici di corrispondere al desiderio di molti, trascrivendolo e procurandone la stampa. (2) Cfr. Giuliani, Tipografia Ligure in Atti cit. IX, 176, 250. (i3; Arcliiv. cit„ Sen., di. 385, a. 1597, 19 sett. — 156 — Non avendo il Botto trovato nulla da osservare, la stampa fu permessa senz’altro, come da decreto annesso al surriferito biglietto. Nella dedica il Guastavino proclama l’originale del suo lavoro “ pari nell’eloquenza ai più pregiati antichi e nell’ordine e nell’esporre le cagioni delle cose accuratissimo. Nelle orationi anzi, o dicerie che si chiamino, molti di essi n’ avanza e con Tucidide stesso può stare a fronte E cita, a conferma del suo giudizio, Giusto Lipsio ed il Doge Matteo Senarega “ al quale, mentre si trovava in Roma ambasciatore fu dallo stesso Mons. Foglietta per haverne il giudizio suo, fatto parte di quest’ historia „. Riguardo però alla sua traduzione, il Giuliani (1) non ha creduto di potergli essere largo di lodi, come egli lo è stato col Foglietta. “ A me, dice, pare che in questo volgarizzamento sia desiderabile maggiore scioltezza di stile e più accurata sintassi Eran passati ormai parecchi anni dal 1559. Il rammarico per la condanna ricevuta, ed il dolore dell’esiglio, lungi dall’indebolire nel cuore di Uberto l’amore per la patria lontana, lo rendevano invece più forte e più deciso a manifestarsi. Non essendo valse a nulla le proteste reiterate di sincero patriottismo, la sua mente ebbe un’idea geniale e concepì il disegno di tradurre in atto quelle proteste, dedicando peculiarmente alla patria l’opera del suo ingegno. Due furono le opere che egli le dedicò ; ed entrambe costituiscono un merito considerevole per l’autore , sia pel nobile concetto che gliele ha ispirate, sia per lo stile purgato ed elegante e l’aurea latinità in cui sono state dettate. La prima è Clarorum Ligurum Elogia, dedicata a Gianandrea D’Oria, pronipote del principe Andrea. Dopo aver ripetuto l’affermazione della sua innocenza, l’autore gli esprime il forte rammarico provato per l’interpretazione, così lontana da quanto egli si aspettava, che il Governo di Genova aveva voluto dare al suo Dialogo “ Sulle cose della Repubblica „. E dice: “ Is semper fui cuius incensa in patriam studia exilii poena, qua me cives mei affecerunt minime aut extin- (1) Op. cit. (1. c.). - 157 - xerit aut labefactarit; quin contra omnes curae in eius salutem et dignitatem tuendam, augendam, ornandam, quantum pro virili parte possem , perpetuo fuerint intentae. Quamquam facere non poteram quin vicem meam interea dolerem, quod me ita omnia fefellissent, ut quam rem mihi laudi et praemio putarem fore, in ea crimen gravissimum perduellionis constitutum esset „. Ora, non per fare ammenda di quanto ha scritto in quel libro, ma per dimostrare con un nuovo e sicuro argomento che il suo amore verso la patria non è fittizio, consacra questo monumento alla sua gloria. Per la elegante varietà e forbitezza dello stile, per la purezza e proprietà della lingua, questo lavoro fu giudicato subito dei migliori del Nostro ; e tra i giudici, uno quant’altri mai competente, fu # Aldo Manuzio; il quale con lettera del 30 novembre 1572 ne faceva un elogio tanto più lusinghiero e stimabile in quanto che partiva da lui, ottimo conoscitore della bella latinità. La sua lettera, dietro l’esempio dato dall’autore, fu poi sempre posta in fronte all’opera, nelle edizioni diverse. Si apprende ancora dalla dedica che Gianandrea si era interposto in suo favore, per fargli forse levare il bando e restituire i beni confiscati: “ Accedunt egregia tua in me merita, susceptaque salutis et afflictae fortunae meae propugnatio „. I buoni uffici del D’Oria, appoggiati dall’ argomento del sincero patriottismo attestato irrefra-gabilmente da quest’ opera, la quale, anche manoscritta, doveva essere già conosciuta a Genova, dovettero avere molta efficacia, perchè il Manuzio, chiudendo la sua lettera , diceva ad Uberto : “ Nunc illa (la patria) te suae studiosum dignitatis, publici cupidum commodi, vereque suum alumnum agnoscit; nunc amplectitur absentem, nunc incolumem, florentem, beatum exoptat: quae tibi merces una pietatis in illam perpetuae prestantissima videtur „. Dove, anche volendo pensare, ciò che non sembra naturale, si tratti soltanto d’un augurio, si è costretti a credere che oramai esso avesse un sicuro fondamento, e che quindi la revoca del bando fosse già un fatto compiuto o che stava per compiersi. - 158 — Gli Elogi furono stampati a Roma dal Biado nel 1573; aumentati poi ed ivi ristampati nel 1577 dal De Angelis. Due anni più tardi a Genova se ne pubblicava la versione fatta da Lorenzo Conti. Soleva questo scrittore genovese spiegare gli Elogi del Foglietta ad un amico suo della famiglia Spinola; ma questi “ attendendo al traffico della mercatantia come il più fanno dei gentiluomini genovesi, non capeva a pieno l’intendimento del-1' autore „ ; perciò “ a sue persuasioni „ egli scrisse il volgarizzamento, “ tutto che non fosse cosa sua, la quale punto non si confaceva all’ humore nè alla professione „ sua. Nella medesima prefazione egli avverte ancora che, avendo in animo di proseguire 1’ opera del Foglietta, si . era già posto al lavoro per scrivere gli Elogi latini dei più chiari concittadini suoi. Ma di essi non si sa nulla e si può credere che siano andati dispersi (1). Altre due edizioni se ne fecero a Roma ed a Genova successivamente ; la prima anzi per conto di lui medesimo, nella raccolta degli Opuscula varia; e l’altra nel 1568 (2). Nel secolo scorso se n’ebbero finalmente due ristampe; una della traduzione del Conti, annotata dallo Staglieno, nel 1860 ; e 1’ ultima dell’ originale latino , quattro anni più tardi, per cura di Luigi Grassi, che la rivide e l’accrebbe. Come furono grandi le lodi meritate all’ autore dagli Elogi, così furono acerbe le critiche che si fecero al suo spirito di partigianeria, pel quale molti credettero e credono ch’egli lasciasse a bella posta di toccare, in cotesta sua opera , di alcuni, che, pur essendo meritevoli di menzione e di lode, avevano però, presso di lui, il torto di appartenere a diverso partito. Può darsi che tale ap- (1) Cfr. Neri, in Oiorn. stor. e lett. della Lig., voi. II, p. 406. (2) A riguardo di questa è debito riportare un’osservazione del Marchese Staglieno, il quale dice che in essa, meno le prime 4 pagine, tutto il rimanente concorda in modo colla edizione romana, fatta dagli eredi del Biado nel 1573, sia nei caratteri come nella carta ed errori tipografici, che si deve ritenere avere il Bartoli stampato solo le 4 prime pagine e queste poscia sovrapposte agli esemplari dell’ edizione suddetta (Cfr. Atti Soc. Lig. Stor. patr., cit. .voi. IX, p. 203). — 159 — punto sia giusto e fondato ; e certo la pi-ima edizione era mancante del cenno di molti, che furono aggiunti di poi. Ma alcune parole di Paolo, nella avvertenza che egli pone in fine ai XII libri della Storia Genovese, potrebbero benissimo infirmare la legittimità di tale taccia. Lamentando infatti certe lacune esistenti in detta opera, egli spiega che suo fratello u immatura morte nobis praeter spem evectus........ non potuit multa illustrium familiarum nostrae civitatis monumenta colligere quae suam historiam illustrassent „. Al tempo, circa, degli Elogi si deve riferire un altro scritto latino del Foglietta, dal titolo: De linguae latinae usu et praestantia, il quale è in forma di dialogo e dedicato al Marchese Scipione Gonzaga, principe del sacro romano impero. Il dialogo si finge tenuto in Roma, negli appartamenti di Iacopo Buoncompagni, il quale, per essere stretto parente di Gregorio XIII ed alto funzionario della Corte pontificia, risiedeva in Vaticano. L’autore dice (pp. 100) che esso dialogo fu tenuto fra Curzio Gonzaga, Antonio Sauli e il Buoncompagni medesimo, in quel tempo in cui quest’ultimo venne creato da Gregorio generale delle truppe del suo regno ; cioè, aggiungiamo noi, verso il 17 di aprile del 1573 (1). In questa bellissima dissertazione l’autore tratta, in tre libri, se convenga o no, nello scrivere, 1’ uso della lingua latina; ed alle obbiezioni che pone in bocca ad uno degli interlocutori, risponde ogni volta confutandole vittoriosamente. La forza dialettica e l’eleganza dello stile, che si uniscono in bell’armonia in questa geniale operetta letteraria, acqui-, starono al Foglietta 1’ ammirazione dei contemporanei e dei posteri. Il Ginguené (2), principalmente per questo lavoro, ravvicina l’autore all’eleganza ed alla purità degli scrittori del secolo d’Augusto; e quanto alla sostanza delle sue argomentazioni osserva : “ Basta leggere San-nazzaro, Vida, Fracastoro, Foglietta ed altri del suo se- ti) Litta, Famiglia Buoncompagni, Tav. II. (2) In Bibliot. univers. cit. - 160 — colo, per essere del suo avviso : ma non è forse men vero che tale questione, la quale ancora è dubbia presso la massima parte delle nazioni d'Europa, non poteva essere decisa affermativamente che in Italia „. Il Tiraboschi ci fa sapere che ai suoi tempi, molti plagiari si servirono degli argomenti introdotti dal Foglietta come obbiezioni all’uso della lingua latina, e che se ne vantavano quasi fossero ingegnose loro scoperte, sconosciute ai semplici ed ignoranti maggiori. Il dialogo fu stampato a Roma dal De Angelis nel 1574, ed inserito poscia dall’autore nei più volte citati Opuscula varia, cinque anni più tardi (1). Un altro opuscolo da ricordarsi a questo punto, per ragione di ordine cronologico , è quello che porta il titolo De ratione scribendae historiae ; pure in tre libri, e dedicato ad Ottaviano Pasqua, vescovo di Gerace, in o-maggio del singolare affetto ed osservanza nutriti dall’autore verso il compianto Cardinale Simone Pasqua, suo zio, morto nel 1565, col quale egli era intervenuto al Concilio di Trento. Il Tiraboschi dice che vi intervenne col Pasqua ai tempi di Pio IV ; invece fu sotto Paolo IV. Diedero occasione a questo lavoro alcune osservazioni mosse all’ autore da certi pedanti, i quali gli rimproveravano che si ostinasse a scrivere di storia in latino, allontanandosi dalla pratica seguita da tutti i grandi storiografi, i cui precetti ed esempi mostrano doversi adottare, per tal genere letterario, l’uso delja propria lingua. Inoltre gli facevano delicatamente capire non potersi a-spettare niente di buono da lui, nè in fatto di storia u-niversale, nè di particolare, perchè, con sua buona pace, doveva riconoscere di non avere riportato da natura le disposizioni che si richiedono nello scrittore di storia. Per la quale non basta aver bell’ ingegno e stile eletto ed eloquente; bisogna addirittura godere il privilegio di uno speciale afflato divino. Infine gli si faceva quest’ul- (1) Sappiamo poi dal Ginguenè che un’ultima ristampa, sconosciuta ai più, fu fatta ad Amburgo nel 1723. - 161 — tra curiosa osservazione: che, in una storia, le parlate non si debbono mai riferire in costruzione diretta ; ciò che erroneamente veniva praticato da lui, come, del resto, da molti altri di tutti i tempi e di tutti i luoghi. A tali ciance egli risponde, secondo il suo costume, in maniera piana ed elegante; quando occorra concitata ed irresistibile, finché, insensibilmente, porta il lettore a partecipare alle sue opinioni ed a convincersene. E degno di essere ricordato il retto giudizio, cosa rara per quei tempi, esposto dall’ autore per confutare i sostenitori del principio che la storia debba consistere nella nuda esposizione dei fatti. In ogni occasione, egli osserva, 1’ uomo presenta nelle sue azioni due aspetti: uno che tutti vedono e un altro che rimane occulto. Il primo è naturale e facile materia della storia; ma pel secondo v’è controversia. “ Sed non difficilis exitus. Nam si nemo idoneus est ad historiam scribendam nisi qui interioribus princi-pum consiliis interfuerit, intimasque caussas cognoverit, nemo omnino ad universam historiam scribendam idoneus fuerit, non enim universa historia unius tantum principis consiliis et actionibus definitur; sed omnes Europae principes complectitur Pertanto quello che è materialmente impossibile, dev’ essere sopperito da un ragionevole e spassionato esame dei fatti e dal rapporto di questi colle intenzioni dalle quali furono mossi coloro che v’ ebbero parte efficace. Egli è dunque, come ognun vede, un precursore della scuola che introdusse il sistema critico negli studi storici (1). Intanto si preparavano in Genova nuovi avvenimenti, i quali, terminando finalmente con l’accordo delle fazioni, dovevano accrescere sempre più quel sentimento di mitezza e benignità, che aveva già cominciato a manifestarsi verso il Foglietta, dal di eh’ egli fece conoscere i (1) Abbiamo assegnato a questo luogo 1’ opuscolo perchè il Soprani, Scrittori della Liguria con giunte e correzioni mss. dello Spotorno (in Bibl. Universitaria di Genova) ne registra la prima edizione uscita a Iloma nel 1574 per Vincenzo Accolto. Cfr. anche Montanini, op. cit. - 1C2 - suoi Elogi. Cessata ormai la lotta per la sottomissione della Corsica, e pacificate pel momento le cose esterne della Repubblica, gli animi sentirono risuscitarsi improvvisamente i vecchi rancori, rinfocolati già dalla legge del Garibetto, e parve giunto il momento opportuno per dare alla Repubblica un assetto decisivo. Il Portico di S. Pietro, ossia dei Popolari, sdegnoso di ogni indugio, cominciò subito ad insolentire contro il partito avversario : e, per rendersi più forte, si valse ancora della impronta audacia della plebe. Si giunse subito a tali estremi che il Senato, vedendosi impotente a resistere alle loro minacce, emanò il 20 settembre 1574, un decreto con cui dichiarava che la Repubblica rimetteva la questione dei due partiti nelle mani del Pontefice, dell’ Imperatore e del Re di Spagna, affinchè essi, accordatisi coi litiganti, riformassero a loro piacimento il governo. A rappresentare il Pontefice, in tale occasione, fu mandato da Roma il Card. Decano, Giovanni Morone , il quale dopo molte contrarietà, riuscì, cogli altri deputati, a far firmare dalle due parti un compromesso. Finalmente il 10 marzo 1576, in Casale, nella Chiesa di S. Croce, alla presenza dei ministri riformatori e dei rappresentanti dei due Portici, furono pubblicate solennemente dal pulpito le nuove Costituzioni. In questa circostanza il Foglietta non tralasciò di rivolgersi al Morone con una lettera, per significargli i mezzi che, secondo la sua convinzione, erano più adatti ed efficaci a ristabilire la concordia fra i cittadini e a tórre la città di travaglio. Ed ora, prima di venire a trattare del maggior lavoro che il Foglietta dedicò alla sua patria, e che è pur quello che gli meritò un posto fra gli storici particolari, ci par bene passare in breve rassegna altri piccoli lavori, editi in gruppo posteriormente al tempo in cui 1’ autore pose mano alle Storie Genovesi, ma composti certamente in tempo anteriore. Di alcuni di essi abbiamo già parlato, collocandoli a loro luogo, per ragione di ordine cronologico; quindi ci restano ora a vedere soltanto tre opuscoli, ossia: Brumanus, sive de laudibus urbis Neapolis, De — 168 — nonnullis in quibus Plato ab Aristotele reprehenditur e De Norma Pohjbiana, i quali furono dall’ autore pubblicati insieme cogli altri a Roma nel 1579, eòi tipi di Francesco Zannetti, e dedicati ad Ottavio Affaitato, patrizio cremonese. L’ autore diede a questa Miscellanea anche la denominazione di Opera subcisiva, perchè scritta in ogni sua parte u horis, quod aiunt, subcisivis „. Il primo di essi, Brurnanus, contiene nella dedica il ritratto di un’anima candida, nella quale il tempo non può cancellare la memoria dei benefici ricevuti. Antonio Casella, patrizio genovese, caduto improvvisamente in miseria, per la mala fede dei suoi amministratori e per il troppo buon cuore, ha dovuto fuggire dalla paterna dimora e ridursi in Napoli. Il Foglietta che non può porgere altro conforto all’amico, gli dedica almeno, con parole della più cara e soave amicizia, il suo piccolo lavoro , che è un gentile intrattenimento sulle lodi delle bellezze di Napoli. Bramano, da cui esso prende il titolo , è un nobile meridionale , versatissimo nella scienza della filosofia e del diritto, il quale, ricevuto pei suoi meriti, ancora in giovane età, nella Corte Pontificia, fu màndato dal Papa come Nunzio presso il Viceré di Napoli, per trattare con lui di certi diritti che la S. Sede accampava su quella provincia. Il Foglietta fu suo ospite quando si portò ai bagni di Baia, per curarsi d’un’antica malattia che lo tormentava nei piedi e nelle gambe. In omaggio delle a-morevoli cure ricevute presso di lui, intitola col suo nome 1’ opuscolo , e fa che le lodi di Napoli vengano recitate da lui stesso al Cardinale Ippolito d’ Este al suo ritorno in Roma dalla missione diplomatica. Una breve ma elegante e spigliata critica della Repubblica di Platone torma l’argomento del secondo opuscolo ; e nel De Norma Pohjbiana si contiene una spiegazione fatta dall’autore stesso a Rinaldo Corso, cui è dedicato il lavoro, circa la regola che Polibio attribuisce alla Storia. Eccoci pertanto all’ultima e grande opera dell’illustre genovese; a quella per la quale non gli bastò la vita. Ritornato ormai nelle grazie della Repubblica, i Gover- - 164 - natori si mostrarono solleciti di professargli tutta 1’ alta stima ch’egli ben meritava, e non trascurarono occasione perchè l’animo dell’immutabile patriota, già cosi atroce mente angustiato dai suoi concittadini, ora dai medesimi ricevesse quei conforti che, soli, potevano fargli dimenticare il passato. Così il 2 gennaio 1576 lo eleggevano pubblico istoriografo, ed accompagnavano il decreto con una lettera che, se non avesse avuto per natura la necessità di essere tutta dolce verso il Foglietta, con ragione potrebbe parere “ veramente strana „ (1). A questa rispose il Nostro il 6 del successivo, accettando l’incarico conferitogli (2). Senonchè un rogito di Gabriele Pelo ci fa sapere che il 9 settembre 1579 Paolo si accordava con parecchi gentiluomini genovesi u di operare che Monsignor Oberto, suo fratello, scriva l’historia delle cose fatte dai genovesi cominciando dalle più antiche memorie che si trovano delli liguri e della città di Genova „, e che essi aprivano una sottoscrizione tra di loro , per corrispondere allo storiografo un’ adeguata ricompensa. Un terzo della somma doveva essere pagato subito, un altro alla metà dell’òpera, e l’ultimo allorché questa fosse compiuta; e qualora, dopo il versamento della seconda rata si fosse verificato un accidente qualsiasi, per cui l’opera non avesse potuto essere condotta a termine, Paolo si obbligava a restituire la seconda rata, pur ritenendosi la prima (3). Coi documenti che si possedevano fin qui non si era ancora potuti giungere a conciliare il decreto del Senato con quest’ ultimo incarico di privati. Si riteneva come cosa certa che il Foglietta avesse coperto l’ufficio affidatogli dalla Repubblica, e si sapeva d’altra parte, che gli era stato assegnato perciò un annuo salario di L. 425 , rappresentanti la metà della somma che veniva data annualmente al Cancelliere di Stato, prima che il (1; Neri, loc. cit. (2) Giuliani, loc. cit. e Rexieii Rodolfo, Un nuovo documento cli U. Foglietta, in Oiorn. Lig., XV, 06. (3) Atti cit., loc. cit. e Oiorn. Lig., voi. I, 280. — 105 — suo ufficio subisse lo sdoppiamento (1). Di più noi ab' biamo potuto seguire nei cartulari delle Finanze dell’Ar-chivio genovese il regolare pagamento che si effettuava di bimestre in bimestre a favore dello storiografo Foglietta , a cominciare dal 2 gennaio 1576, anno del decreto di elezione, fino al 2 gennaio 1582 (2). Ma tutto questo non faceva che accrescere l’imbroglio; perchè non si poteva spiegare come il Foglietta, pubblico stipendiato della Repubblica come storiografo, dovesse poi ricevere degli incarichi analoghi dalla società cittadina. La soluzione del problema ci è diventata possibile dopo che abbiamo letto una lettera di Paolo, in data 26 maggio 1589 , ai Governatori, da noi rintracciata in questo Archivio. Riportiamo qui soltanto il brano che c’ interessa presentemente, riservando a suo luogo la produzione dell’intero documento: “ Quando ro S.mo Senato dè a scrive a me Frè bonna memoria l’historia dra n.ra terra o ghe dè a scrive soramenti quello che seguiva a ri so tempi in ri què no occorse cosa degna d’esse scrita, ma conoscendo mie che l’antiga groria de Zena restava sepolta e parendome che me Frè fosse atto a cavara fuò dra sepotura e a fara vive sempre , ghe fei scrive 1’ historia di nostri groriosi strappassè comensando dra che se ha notitia dre cose de Zena e de tutta la Liguria..... L’ ufficio pubblico che copriva il Foglietta era pertanto di scrivere la storia di ciò che seguiva al tempo suo ; e non verificandosi allora avvenimenti importanti e degni di essere ricordati ai posteri, egli poteva ottenere il permesso di rivolgere altrove 1’ opera sua. E così che la Storia di Genova dettata per iniziativa propria o di Paolo, non sappiamo bene, ma forse di comune accordo , non 0) Cfr. in Tiraboschi, op. cit. il decreto di elezione a storiografo. (2) Ecco il primo: — « Die II martii 1577. — Respublica Salariorum. Pro R.° d. Oberto Folieta scriptore historiarum et annalium reipublicae electo pro eius salario anni unius incepti secunda ianuarii 1576 et hoc in observationem electionis ipsius factae ab IlLma dominatione dicto die sicut et in manuale praefatae Ul.mac dominationis scripta mandato ILl.mi d. ducis Magnificorum dominorum in Palatio residentium pro eo L. 425 ». - 106 - entrava affatto nel programma assegnatogli dal suo Governo , e che perciò essa fu scritta coi mezzi somministrati dalla generosità concittadina. Uberto lavorava dunque di lena e l’Istoria procedeva benissimo. Il primo luglio 1581 egli notificava al governo che, due anni appena dacché gli era stato concesso di potere accettare l’incarico accennato, la Storia era terminata; e, parlando della stampa, prometteva che “ sarà intitolata Genuensium historia et sarà dedicata Serenissimo Duci et Summo Magistratui Genuensium „ (1). Disgraziatamente la morte inopinata dell’autore seguita in Roma il 5 settembre dello stesso anno, venne a troncare ad un tratto , le sue fatiche e i suoi disegni. Il fratello Paolo elesse subito a suo procuratore Mons. Antonio Sauli, residente per la Repubblica alla Corte pontificia ; e a lui si rivolsero anche i Padri con una lettera del 15 dello stesso mese, incaricandolo di procurare il ricupero e l’invio tanto della Storia come di tutte le altre carte. Il Sauli rispondeva che della Storia di Genova si era già assicurato e la teneva presso di sè, ma che vi mancava qualche cosa, non arrivando essa che fino al 1528 ; e che degli altri scritti parte si trovavano presso il Cardinale d’ Este, al servizio del quale il Foglietta era morto, e parte presso il Card. Alessandrino e l’Inquisitore, dai quali, però , avrebbe fatto ogni pratica per averli (2). Tutti sanno che la Storia di Genova pervenne nelle mani di Paolo ; al quale il Senato, con decreto dei 28 maggio 1584, lasciò per intero la cura dell’ impressione e della traduzione, assegnandogli una pensione mensile di lire cinquanta, incominciando dal giorno in cui la Storia a-vrebbe visto la luce. Nel prossimo anno questa pensione gli venne aumentata di dieci lire. Nel settembre, Paolo, desideroso di affrettare il più possibile la pubblicazione, rivolgeva la seguente supplica al Governo, per ottenere l’immediata anticipazione di due annate di stipendio (3): (1) Neri, loc. cit. (2) Neri, loc. tit. (3) Archi?, cit., Seti,, fil. 269, 15&J, 6 sett. - 167 - S.ml Segnoi, Perchè so che no e de groria ro commensà dre cose ina ro finire, mi non soramenti ho feto fa da mò Frè bonna memoria, l’hi-storia dra n.ra patria lattinna e bella de sorte che resterà de lo eterna memoria. Ma aura inetto ancora ogni studio e cura perchè a vaghe in stampa bella e ben corretta, corno se coven, per eh’ unna groia Anna, coni’ è quest’ historia, se dè liga in oro, no in latton e ramo e per fa questo ho feto vegnì de torà un Meistro monto varenthomo in questa arte de stampa con bellissimo carattere de lettere e con tutte quelle cose in somma chi se convennan a una degna stampa e za lio misso in overa e ra stampa e ro stampao, chi riessan tanto ben che a pà stampa d’Aldo, como V. S.me poran vei per un assazo che ghe ne ho chi portao, a ro qua corrisponderà tutta Povera, oude spero che ra fama de questa n.ra nova stampa deggie presto andà a torno con tanta laude che quando ri foresti voran stampa quarche degna overa lattinna, o vorgà, verrai) a Zena, corno andavan za in Basilea , chi serà d’ onò grande a ra n.ra terra, ra qua ho sempre cercao d’honorà quanto ho possuo, si che possa che V. SS.m0 ven che me son mostrao de continuo fìggio amoroso verso ra patria, ra patria ancora se dè mostrà verso me Moere pietoza, aura che bizogna de lè j mi non voggio però dì che m’accressan ro salario, che se ben l’è poco per pagamento de sì grande bella historia, questo poco me contenta chiù in so contento che uno stipendio grande in so descontento. Ma ghe requero soramenti che me dagan ro sarario de doi agni per liverà de stampà questa overa, cli’atramenti no posso liverara, perchè n’ ho dinè conio den ere senza che ro zure perchè povera e mia va ra poexia, si che besogno dro so agiutto, dro quà no creo che deggian mancarne, possa che l’agiutto mè torna in utile e lionò dra n.ra Patria, ra groria dra quà demo anteponne a ra propria vitta 110 che a ri dinè. La risposta a questa istanza fu che non si poteva contentare il desiderio del richiedente. Probabilmente è questo il motivo per cui Paolo, costretto a rivolgersi ad altro benefattore, non potè mantenere ai Governatori la promessa loro già fatta da Uberto, a riguardo della dedica. Certo che Paolo dovette rimaner contrariato; e lo dimostra il fatto che con un’altra supplica, pure in dialetto, egli insistette, poco tempo appresso , per ottenere questa volta un compenso di cinquecento scudi ; poiché la stampa gli aveva fatto incontrare enormi spese, superiori di troppo alle previsioni. La supplica non porta data: tutto però fa pensare che dobbiamo riferirla, come - 168 - ha fatto il Giuliani, all’anno 1585(1), nel quale appunto uscì, coi tipi del Bartoli, la Historia Genuensium, dedicata non al Doge ed ai Governatori, come abbiamo accennato, ma al Principe Gianandrea D’ Oria. Onde si può ragionevolmente presumere che da lui Paolo fosse riuscito ad ottenere quello che invano aveva domandato al suo governo. L’Istoria però non era completa; con tutto quello che Paolo aveva potuto ricuperare, non si arrivava che all’anno 1527. Per sopperire alla grave lacuna egli s’era bensì dato attorno, nella speranza di rintracciare la parte mancante, che sapeva, con certezza, dover giungere fino al 1575; ed avendo ricevuto da un amico uno scritto contenente il periodo ricercato, 1’ aveva, in buona fede, creduto del fratello, e si era affrettato ad aggiungerlo ai dodici libri: ma s’era illuso, poiché l’aggiunta sua altro non è che uno squarcio della storia del Bonfadio, la quale, sebbene scritta anteriormente , non era tuttavia peranco pubblicata. Più o meno completa, insomma, la Storia di Genova era stata ricuperata e stampata. Ma delle altre carte rimaste in casa del Card. Luigi d’Este, che cosa era avvenuto? Il Card. Giustiniani, lasciato dal Foglietta erede dei suoi scritti, aveva fatte le debite pratiche, per ottenerne la cessione; ma inutilmente. Morto Luigi, egli a-veva rinnovato le istanze presso 1’ erede, Cesare d’ Este, il quale dopo lungo indugio fece avvertire il Card. Sauli che le carte erano state rinvenute e che gli sarebbero state consegnate ad ogni suo cenno. Ma informatosi poscia del loro contenuto e pensando non convenisse lasciarle conoscere al pubblico, mutò pensiero e non diede più nulla (2). Intanto a Paolo rimaneva da compiere l’altro incarico avuto, quello di procurare ora una versione italiana della edizione originale latina della Storia. Da certe parole che si leggono nella supplica, riferita qui sotto, appare (1) Giuliani, in Alti cit., voi. IX. (2) Camfobi, loc. cit. — 169 - che egli si accinse da sè a questo lavoro. Il fatto però che la traduzione approvata in seguito dal governo, era di un altro , e che della sua non troviamo altro cenno, sta a dimostrare che questa fu trovata deficiente e perciò non permessa. Allo scacco subito dall’ amor proprio del traduttore, si aggiungeva anche una perdita materiale; perchè il Foglietta, dopo aver posto in rilievo la sua nuova benemerenza, domandava in compenso la grazia che la pensione, percepita da lui, venisse devoluta, dopo la sua morte, in favore del figlio, già vecchiotto e malaticcio. Ecco qui la sua istanza, scritta, come al solito, in dialetto (1). Serenissimi Segnoi, Quando ro S.m0 Senato dè a scrive a me Frè bonna memoria 1’ historia da n.ra terra o glie dè a scrive sorametiti quello che seguiva a ri so tempi in ri que no occorse cosa degna d’ esse scrita, ma conosciando mie che 1’ antiga groria de Zena restava sepolta e parendome che me Frè fosse atto a cavara fuò dra sepotura, e a tara vive sempre, ghe tei scrive 1’ historia di nostri groriosi strappasse , comensaodo dra che se ha notitia dre cose de Zena e de tutta ra Liguria donde o travaggiò tanto che o finì la vitta insieme con l’historia si che l’è morto in servixo dra cara patria, ra groria dra qua ariderà per mè Frè sempre a torno per tutto l’universo con grand’ honò de Zeneixi e conoscendo ri S.mi Senatoi che mi ghe fei fa sì degna overa, ra qua me costa tre miria scui, conio appà per scritture pubriche, me deu per pagamento de questo 60 lire ro meize soramenti, ma se ben questo premio è pochissimo rispetto a ro grandissimo merito no ghe requero però che me l’accrescian ma che dapò ra morte mea, me Figgio ancora possa tirà questo poco stipendio se pu o viverà chiù de me, che 1’ è mà san e vegio, conio mostra ra testa so cauva, ma quando no voggian satisfa a ro me honesto dexiderio, corno me fo promisso, me den a ro manco com-piaxei perchè de novo ho traduto questa historia lattinna in lenga vorgà, a so che l’intendali no soramenti ri Ietterai, ma quelli ancora che no san de lettera e otra ro gran travaggiò che ho avuo in traduera me converrà spende un muggio de seni in fara stampa, ma perchè quarch’ un dixe che guagnerò per contra in fara venderà, conio ho guagnao dra lattinna, respondo che ghe ho perduo in grosso conio sa ro M.° Mesè Antogno Roccattaggià chi ha havuo cura do fara stampa, e a quarch’ atro chi va digando che me Frè è stato (1) Archiv. cit., Sen., fil. 313. Giorn. St. e Leti, iella Liguria. 12 — 170 - pagao in vitta respondo die l’è stato pagao de doi agni e poco chiù, e mi ghe ho feto scrive de doa miria agni, e à un atro chi dixe che o l’ha scrito questa historia lattinna in agni trei (doi agni con poca breiga) (sic) respondo che l’è steto per contra trent’agni à imprenderà scrive ben corno 1’ ha feto e che no se conven assottiggiare tanto con ri boni scrittoi , anzi ascarsase in tutto ro resto per esse liberò con lo, chi rendali con eterna uzura ri dinè chi se ghe pagan, ma mie in restreito no cerco aura de V. SS.me chiù dinè , ma che dapò mie pagan questo poco stipendio a me figgio ancora corno ho dito e corno me creo che faran perchè so che aman 1’ honò pubrico quanto se coven e son tanto pronti in aggiutà ri citten benemeriti e virtuosi quanto in castiga ri tristi e ritrosi , e mi chi conoscio e riconoscio ri benefizii, indrizerò questa historia mea vorgà a ro Serenissimo Duxe Senattoi e Procuroei, ni atro ghe dirò che questo per no parei che con speron de groria ri voggie fa corre a fame questa gratia lionesta, dra quà se ben 1’ è picchiena ghe ne liave-remo obrigo grande, e chi tassando fin me arrecomando senza fin a re SS. VV. Serenissime à re què in’ inchino con reverentia. Il decreto apposto a questa supplica è in data 26 maggio 1589 e suona, come abbiamo detto, negativamente. Bisognava pertanto che Paolo pensasse ad affidare a qualcun altro la traduzione a lui mal riuscita; e trovò, poco tempo appresso, chi poteva as&umere adeguatamente una tale impresa in un valentissimo scrittore fiorentino, Francesco Serdonati; il quale, appunto allora stava volgarizzando la Storia delle Indie di Gian Pietro Mafifei. Forse, pensa il Neri, non fu estraneo a tale scelta il Maffei stesso, mentre, dal servizio reso a lui, aveva potuto apprezzare la somma perizia ed abilità del Serdonati in tal genere di lavori. L’ affare venne trattato da una parte e dall’altra per mezzo di rappresentanti. Serviva il Foglietta, da Genova, Francesco Maria Vialardi ; rispondevagli da Firenze, pregato di volersi interporre presso il Serdonati, al quale, come appare evidente, era stretto da amicizia, Roberto Titi, lettore allora nello Studio fiorentino. La prima lettera di questa corrispondenza (1) porta la data del 9 settembre 1589 e dice : (li Tutta questa corrispondenza è nel Carteggio (li lìoberto Titi, Biblioteca Universitaria di lJisa. - 171 - Molto Mag.0 et Ecc.0 S. mio oss.m0, Come resto iufinitamente divoto a la virtù di V. S. e desideroso di servirla, così anche con ogni sorta di confidenza ne le occasioni verrò da lei pregandola di favore, come faccio al presente con supplicarla in grazia di favorirmi di parlar con M. Fran.0 Serdonato, quello eh’ ha tradotta in volgare la historia delle Indie scritta in latino dal Mafteo Gesuito Bergamasco, il quale Serdonato ò conoscerà ò vorrà fargli parlare da qualcheduno a ciò atto e dirgli ch’esse n do piaciuta al mondo detta sua traduzzione si desidera che voglia tradurre l’istoria di Genova del Foglietta eh’ è illustre e per grandezza di stile e per nome d’ authore, e per maestà delle gran cose de le quali scrive fatte da nazione molto gloriosa, e di gran fama e cosa vorrebbe del foglio contando il foglio grande e intiero cioè di quattro facciate, dei quali fogli il Foglietta ne 1’historia ne lia 157 senza l’indice dicendo per ultima risoluzione ciò che ne vorrebbe per non star cento anni a concluder il partito con varie lettere. La prego di questo favore quanto prima e di darmene risposta facendo dar le sue al Signor Marchese Bernabò Malaspina ove io alloggiava, o al presente portatore, ma insieme mi comandi alcuna cosa: e nostro Signore le dia ogni felicità. — Di Genova a 9 settembre 1589. Serv.0 aff.mo Franco Maria Vialardi. Ma non avendovi il Titi risposto con prontissima sollecitudine, il Vialardi insisteva tre giorni dopo con que-st’altra, in cui non fa altro che riassumere la prima: Per l’altro ordinario pregai V. S. per trattar de’ mozzi a sua e-lezzione atti a tale cosa quale dirò, ò trattare ella medesima con un certo meser Francesco Serdonato, eh’ ha tradotto il Maffeo Gesuito del’ Istoria de le Indie, se volesse tradurre l’istoria di Genova del Foglietta, eli’è celebre di stile, di nome, e di cose scritte, eli’è di fogli 157, senza l’indice, contando il foglio di due pagine o sia 4 facciate, in quanto tempo potria haver fatto simile opera e finirla così appresso a poco, e cosa vorrebbe di tale sua fatica. E di tutto avvisarmi facendo dar le lettere al S.r Marchese Bernabò per ricapito. Per tal fine pregando V. S. a comandarmi et a raccomandarmi al S.or Bernardo Medici le desidero dal Signore ogni contento. Non so so a Fiorenza si trovarà Scipio Gentile sopra il Tasso, se ci è de grazia m’ avisi del costo che ho gr.ma voglia di haverlo. — Di Genova a 12 di settembre 1589. La terza lettera dal Vialardi è del 29 settembre 1589 ed appare da essa come il Titi avesse ormai dato ri- - 172 - sposta. Ma è così sibillina, quasi contradditoria, la esposizione che vi si fa delle condizioni poste dal Serdonati alla sua opera, che il povero Vialardi, a dispetto della gran fretta, che, come risulta dalla sua precedente, aveva di combinare questo affare, è costretto a pregarlo, colla seguente, di volergli replicare, illustrandolo meglio, il suo sentimento : Prego V. S. ne lo scrivermi a riguardar più il mio stato che a la sua gentilezza: e così lasciarà il titolo di Molto Mag.0 per osservare il detto di Pitagora, Ne quid uimis. Ho a caro che V. S. i-stessa habbia tatto officio con il Serdonati, de la cui modestia, sincerità nel trattare, bontà e sofficienza nell’ eseguire già ne era si-cur.mo et bora con il suo testimonio tutto pieuo di fede, di giudicio e di affetto ne resto così afiatato che non ci è colpo virano che nel credere così fatto concetto nuocer mi possa. Ringrazio V. S. con 1’ animo senza fine e con le parole con quelle che da me possono uscire de l’opera sua amorev.ma circa l’esaudire le mie preghiere del detto negotio; ma ci è una cosa che mi muove dubbio ne l’animo, perchè V. S. nella prima facciata de le sue scrive che S. Serdonati si è lasciato intendere che si contenterebbe di mezzo scudo il foglio pigliando il foglio ne la mauiera ch’io scrissi, cioè di 4 tacciate ossia 2 pagine. e parti per foglio nel qual modo oltre l’indice sono nel Foglietta da 150 fogli ò poco più; e poi ne la 2.a facciata nel riepilogare V. S. parla di uno scudo e mezzo il foglio : onde non resto chiaro del voler del S. Serdonati, e deio scrivere di V. S. però la sarà contenta quanto prima chiarirmi bene il fermo; non posso trattare d’ altro : e con tal fine a V. S. dal S.re prego ogni felicità, ricordandole le mie raccomandazioni al S.or Bernardo Medici gentilissimo. Passa quasi un mese ed una nuova lettera del Via-lardi esprime al Titi la soddisfazione provata per le ulteriori spiegazioni ottenute. Queste permettono finalmente di concretare quanto prima le intelligenze corse, anzi le condizioni poste dal Serdonati paiono a Genova così o-neste, che sembra bene di accaparrare 1’ opera dell’ insigne traduttore anche per altri lavori del Foglietta, i quali “ faranno altro tale volume quanto è l’istoria „. A noi però non è giunta notizia di altra traduzione ese-seguita dal Serdonati. Ecco la lettera: Da] molto III.m0 al Molto M.° è andar troppo agli estremi. Hora lasciamo queste vanità. Per risolvere il negocio ho veduto quanto - 173 - mi scrive V. S. che il Serdonati domanda 78 scudi di tutta l’opera del Foglietta. Et io dico elio è modesto domandatore. Però compreso P Indice che è due togli intieri gli farò dare scudi 70 ò 74 e quando si torca alquanto anche i scudi 78. Quello con chi s’ ha da trattare è il fratello dell’ autore, poeta, huomo di nome, d’ età e di valore. Il quale dopo l’Istoria di Genova ha altre opere che faranno altro tale volume quanto è l’istoria che farà tradurre dal Serdonati, e però prega esso Serdonati a non voler promettere ad altro nè intraprendere altra opera, ed egli stesso vuol venir quanto prima a Fiorenza per questo effetto e sarà caro in cotesta città. Vorria che il Serdonati cominciasse la traduzzione hora, et il primo ordinario che viene proponghi le sicurezze che vorrà per lo dinaro che le saranno date o per via di Giulio Sali, e’ ha da far costì, ò come egli vole. Io faccio stampar a Genova la mia lezzione fatta a Fiorenza poiché non ho liavuto ventura di ciò fare in cotesta città. Comandimi V. S. e piacciale d’ assicurar il Serdonati che tanto 1’ assotti-gliaro (sic) per suo avantaggio quanto per lo fratello del Foglietta. Imperò per largii dar scudi 78 scrivami V. S. ragioni per lo Serdonati ; acciocché gli facciamo dar ciò che vuole et aiutiamo i virtuosi. — Di Genova a 21 di ottobre 1589. E il 27 dello stesso aggiungeva: L’altra volta scrissi l’ultima risoluzione del negocio del tradurre il Foglietta. Hora per ordine del Fratello del tu Foglietta mando la polizza di quelli che a Fiorenza pagaranno il dinaro; e per non dar più fastidio a V. S. scrivo al Serdonati ogni cosa. Gli piacerà dar le mie e far ch’egli dia la risposta in casa il S.01' Marchese Bernabò Malaspina, e le bacio le mani. Finalmente colla lettera che chiuse questa corrispondenza, e che noi riporteremo pure nella sua integrità, il Vialardi faceva notare specialmente che il Serdonati non doveva tradurre anche la dedica, perchè la traduzione ne avrebbe portata una nuova ad altro signoie. Non occorre eh’ usi molte parole seco perchè e per 1' altre mie haveva inteso che 1’ amico si contenta di dar 78 scudi al Serdonati e ho mandato il nome di coloro da’ quali haverà il dinaro e ad esso Serdonati anche ho scritto quanto bisogna, però V. S. può ricordargli che la lettera di dedicazione non va altrimenti tradotta, per-chè°se ne deve fare un’altra ad altro S.re. Hora quanto a far sborsar 15 o 20 scudi, come mi scrive, anticipati è cosa molto onesta ma prego V. S. a far che prima venghino due fogli tradotti, che si fanno prestissimo, e poi si provvederà al tutto e ciò si ricerca non per far saggio del traduttore, eli’ è assai conosciuto per valent huomo — 174 — ma per osservar lo stile oh' in simili negooii suole osservarsi. Con grandissimo desiderio sto aspettando le sue cose tanto latine quanto volgari poetiche, perchè non possono essere che buone. La mia lez-zìone si stampa ma non 1* ho punto accresciuta e perchè la non ecceda il termine di lezzione e perchè non so accrescerla senza pigliar uno di quei capi ohe protesto di voler tralasciare e di non voler trattarne: nè ci è capo veruno di quelli che non liabbia bisogno di 4 lezzioni. Finita ohe sarà V. S. n'ha vera una copia come sarà sem-premaì ohe mi verrà conceduto di dare in luce le oscure cose mie. Della cosa del titolo più l'abuso del mondo che la mia natura, ò il mio merito. in" ha fatto ragionarne. però V. S. ha ragione ed io non ho il torto : ma dì questo non mas e del resto anche la finisco pregandole dal S.~ ogni contento. — Di Genova a 11 di novembre 1589. La traduzione doveva essere terminata nel 1590. perchè il '2-4 settembre di rale anno . Paolo rivolgeva una supplica, in dialetto. al Governo . per ottenere una sovvenzione alle spese occorrenti per la stampa L. Questa volta i suoi desideri furono appagati. Il Senato delegò all' esame dell' opera . per assicurarsi che la traduzione meritava la stampa, Davide V acca e Luca Fora ari, i quali dopo maturo e^anie. la approvarono. Se non che. in questo mezzo Paolo morì e le cose subirono necessariamente un certo ritardo. Ma nel 1596 era terminata anche l'impressione: prima pero di pubblicarla Giambattista Foglietta, tìglio di Paolo, rivolse al Senato una supplica per insistere sulla domanda già inoltrata in favor suo dal padre. che gli venisse cioè concesso di poter fruire della pensione paterna. A di 5 maggio dell' anno seguente i Padri rispondevano favorevolmente anche a questo suo desiderio 2 . e così. nello stesso anno. potè finalmente uscire in Genova l'edizione Bell Istorie dì Genove, di Mòr*. I he rio Foglietta, patrizio genovese, tradotte per M. Francesco Serdonati, fiorentino. I tipi erano quelli degli eredi Bartoli. e la dedica questa volta era fatta al ' Serenissimo Doge . agli eccellentissimi Governatori ed illustrissimi procuratori della Serenissima Repubblica di Genova fi Xest. loe. dt. - Xeìi. loc. cit. — 175 - Lo Spotorno esprime la sua maraviglia perchè i compilatori del Vocabolario della Crusca e del Gran Dizionario di Bologna, mentre fanno menzione della versione della Storia Indiana del Maffei, fatta dal Serdonati. non accennano neppure a quella degli Annali del Foglietta, benché, die’ egli - il genovese sia scrittore di più sincera latinità che il Maffei e ad opera italiana si addica meglio onorare le imprese di un popolo italico che quelle dei Portoghesi nelle Indie. 1 . Ammiriamo 1'animo grandemente patriottico dell' illustre storico genovese, ma non possiamo riconoscer giuste le sue ragioni 3 le quali non calzano affatto all' argomento. Ubaldo Cotigkoli. INVENTARIO DI BENI E ROBE DELL’OPERA DI S. MARTINO IN PIETRASANTA (apbile 1420) Inventario di beni e robe spettanti all opera di s. Martino in Pietrasanta, parte date in accomandigia a Mino Bonac-eorsi, operaio, e riscontrate da Bartolomeo Domenici e da Arrigo Rossi, consiglieri dell'opera stessa, in casa di lui; parte lasciate stare da Mino nella casa dell opera. (R. Archirio di Stato in Massa, Sezione Archino notarile, protocolli originali del notaro Pietro Galvani, a. 1419-1420, busta n. 383 . In nomine domini. Amen. Hoc est inventarium re rum et bono-ram repertorum in domo Minj Bonacoisi, operarii opere saneti Martini de Petrasancta, posita in ruga soprana de subtus. pertinentium ad dictam operam. [per Bartholomeum Dominici et Arigum Rossi consiliarios dictae operae] (2)j faetnm P« me Petrum infrascriptum eorum mandato et prout reperte fuernnt infrascripte res. videlicet •juae «comandate luerant suprascripto Mino BonaeursL 1. Unum archone magnum de castaneo tenens stariorum 6** vei cireha, cum stariis 20 grani intus. Sine grano (3). • Sp- •" , ':yr. Ititer^ IV. SL -> Cancellato con tratti di peana. posìeriormeiise a_a cestirà deli asto. dopo La reeog^i- zione- — 176 — 2. Unus sopidaneus tenens storia 40 vel circlia, cum stariis 4 milij intus. Sine milio (1). 3. Unus tinelectus pro svinando vinum. 4. Unum secchione pro bucatis, triste. 5. Due vegetes nostrate tenentes barilia 15 pro qualibet, plene vino. Absque vino (2). 6. Due vegetes, videlicet una napoletana et alia uostrata, tenentes barilia 22 inter ambas, plenas vino. 7. Unus tinabulus tristis, tenens salmas 20. 8. Due vegetes tristes, vacue. 9. Unus tinellus pro svinando vinum. 10. Unum seminum tondum pro sedendo. 11. Unum schanum cum sponda brachiorum 3. 12. Una letica tristis. 13. Una gamura rubea et una tunica pani nigrj et unus mantellus azurus ad usum dominarum. 14. Unum zubonem piguolatj vetus ad usum hominis. 15. Una tunica beretina Minj. 16. Tres canestre tonde inter magnis et parvis. Non reperitur nisi una (3). 17. Unus sedacius tristis. 18. Una canestra magna lunga et una parva. 19. Sex lentiamina usitata. 20. Duo degrossatorii. 21. Duo lebetes lapidei magni. 22. Canestri magni quatuor cum manico. 23. Duo paria testorum de terra pro artocheis. 24. Tres catinelli parvi de ligno 25. Unus baratelus ab oleo. 26. Una matarassa pignolati vergata. 27. Due cultrices una bona et alia non plus cum vestibus pani lini. 28. Tres capezali cum vestibus pignolati vergatis. 29. Unum parium petinorum pro stuppa. 30. Due bigonce. 31. Unus albolus. 32. Una padelleta. 33. Unus paiolus parvus. 34. Quatuor sachi. (1) Ut supra. (2j Ut supra. (3) Ut supra. — 177 - 35. Duo tende boracii. 36. Unum guanciale. 37. Una mensa. 38. Una capseta vacua vctus brachiarum 2. 39. Una broccheta. 40. Una capseta bracliiarum 3 bona, intus est unus saclius cum stariis 3 farine. 41. Una capsa quasi nova, intus est unum capezale. 42. Una lectica bona. 43. Due capse veteres. 44. Duo degrossatorij a lino. 45. Duodecim mantilletti panni lini tara novi quam usitati. 46. Una tovagleta usitata et duo manutergia laborate ad modum Kamum. 47. Unum lentiamen bonum et unum novum de iluabus telis cum dimidio. 48. Due tovagloni usitati listati. 49. Due capudtergia listata. 50. Una canna panni lini. 51. Tres camixie ad usum dominarum, usitate. 52. Due camixie ad usum liominis, asitate. 53. Accie 33 filati condite in uno saclieto. Essene trovate accie 15 (1). 54. Duo manutergia de Ramo. Non est nisi unum manutergium (2). 55. Una tovagleta de Ramo. 56. Unus braciolis bonbicis. 57. Due tovaglolini panni listati. 58. Una binda lini nova. 59. Una taffaria pietà. 60. Octo gradalecti de terra. 61. Una binda parva bonbicis. 62 Due binde usitate lini. 63. Una tovagleta panni lini, parva. 64. Due binde usitate. 65. Una capsa in qua sunt omnes suprascripte res (3). 66. Una lucerna. 67. Septem broclie plene olei in quibus sunt libre 29 olei vel circha. 68. Duo coppj ab oleo plenj olei tenentes libras 25 vel circlia. (1) Ut supra. (2) Ut supra. (3) Intendi tutte le robe inventariate dai dodici mantiletti (n. 45) in poi, che sono riunite da una sgraffa, nel testo. — 178 — 69. Unus saclius cura sale intus. 70. Octo incisoria. 71. Unus boticellus cum tribus barilis acetj. 72. Uua tela pani lìnj novi ponderis librarum 50. 73. Una stagnata vetus non bona ponderis librarum 4. 74. Due catinelle piane de Montelupo. 75. Due catinelle piane pisane. Actum in suprascripta domo, posita in suprascripta ruga soprana de subtus, presentibus Arigo quondam Rossi, Bartbolomeo quondam Dominici, et Vitale quondam Leonardi, testibus etc. snb anno nat. dom. MCCCCXX, Iudict. XIII, die xvij aprilis. Eodem anno, indictione, mense et die. Hoc est inventarium bonorum opere Saucti Martini, repertorum in domo diete opere posite in Ruga soprana de supra et recomandata suprascripto Mino videlicet : 76. Una capsa antiqua cum certis instrumentis intus , cum libris sex cere. 77. Una capsabanca a duobus ucelis, vacua. 78. Una alia capsabanca vacua. * 79. Una securis antiqua. * 80. Una padella magna. 81. Due statere, una magna et una parva. 82. Libre 20 feramentorum veterorum, in piastrellis etc. 83. Una mensa cum trepedibus. * S4. Unus banchetus rotundus. 85. Unus tinellus prò tenendo caudelnm fioritimi intus. * 86. Tres lebetj parvi lapidei. * 87. Unus caldarinus parvus de Iianio. 88. Una pignata magna de Helba. 89. Unus Arcibancus bonus cum tovaliis 62 tam novis quam u-sitatis et tam longis quam brevibus vel curtis pro altaribus. 90. Una funis lunga. 91. Unus Arcibancus longus brachia sex in quo sunt sex tovalie pro altaribus, sex Camixi panj lini, due cultre albe, unum Guanciale de sirico. 92. Sex tovalie usitate ab altaribus extra dictos Arcibancos. 93. Coppi sex ab oleo et unus zirrus plenus oleo tenens libre 18 vel circha, in quibus omnibus sunt libre 30 olei vel circha. 94. Due torcie una nova et integra cere, et alia fracta vel minor. * 95. \ -- * 95 bis. ( Una catena ab igne cum una virga ferrea et unum tre- * 96. ( piede de ferro et unum par mollarum. * 97. ) 98. Unus sachetus in quo sunt plures bende et vela paramentata. - 179 - 99. Una cassabanca cum multis cartis, libris et scripturis. 100. Libre 100 feramentorum veterorum. 101. Unus scrineus tenens staria 20, vacliuus. 102. Una taula a pane. * 103. Sex pecie tabularum de liabeto. 104. Quatuor tino bone, tenentes videlicet duo, salinas 30 pro qualibet, et duo salmas 24. 10.). Una veges magna tenens barilia 30, in qua sunt barilia 4 vini. 106. Una veges parva nostrata, piena vino tenens barilia 10 * 107. lina caldaria magna usitata, tenens staria 1 et ultra. 108. Unus sextarius pro misurando bladum. 109. Due broche, habuit Minus unam. 110. Unus boticellus tristis tenens barilia 2. * 111. Unus catinus de ligno magno. * 112. Unus sachus magnus et unus parvus. * 113. Unum pavese. 114. Una tagla satis magna sive puleza. 115. Unum palum de ferro prò una porta, ponderis librarum 60. * 116. Duo ciste lunghe usitate. * 117. Unus canestrus magnus cum manico. * 118. Unum gausape brachiarum 3. 119. Due predelle. * 120. Una marella tristis. 121. Unum marone. 122. Una roncala tristis. Que omnes suprascripte res sunt in domo suprascripta. Et. quare suprascriptus ipsas noluit in acomandi già, remanserunt in suprascripta domo, exceptis signatis cum cruce, quas dictus Minus exportavit in presentia suprascriptorum testium, Arighi Rossi, Bartlio-lomei Dominici, Vitalis Lunardi, Nicolai Manfredi, testibus etc. ILLUSTRAZIONI. L’ opera di S. Martino , la bella chiesa maggiore di Pietrasanta, eretta in Prepositura fin dal 1387 e così ricca di marmi e di lavori artistici, dovuti specialmente al pie-trasantino Stagio Stagi, al Riccomanni, al Civitali, da poter passare, a giudizio di un forastiero, per una Cattedrale, aveva per amministratori due operai annuali, col divieto d’ elezione nei quattro anni successivi, nominati dal Consiglio Generale e approvati dal vescovo di Lucca. - 180 - L’Amministrazione possedè fondi per più di 60 mila scudi, e già nel 1353, fra i suoi beni v’ erano delle case. Mino Bonaccorsi, che, come oblato, avendo fatto donazione del suo all’opera, era eccettuato dall’annua elezione, ci appare operaio fin dal 1410, perchè in quell’anno Guglielmo del castello di Solaio e Margherita di Guido Cosci , sua moglie, donavano all’opera i loro beni, a condizione che, morto Mino , il donatore gli succedesse nell’ uffickk Probabilmente questo inventario fu fatto appunto quando il Bonaccorsi mori, perchè quel Guglielmo era eletto dal Comune per successore di lui e avea la conferma dal vescovo il 25 d’agosto 1422. Gli arredi delle due case , quella di Mino Bonaccorsi e quella dell’ opera, le vesti dell’ operaio e quelle da donna, probabilmente della moglie , ci mostrano che si trattava di gente non ricca, e per quanto vi sia tutto il bisognevole, nessun oggetto di pregio ci fa uscire dal-1’ ordine delle povere case borghesi del trecento o de primi del quattrocento , dove ancora la Rinascenza non ha portato un ravvivante soffio ammodernatore d’arte o di raffinatezza. E Pietrasanta, al principio del ’400, sebbene in continue relazioni con Lucca, con Pisa e con Firenze, posta sullo stradale da Genova in Toscana e però frequentemente visitata da’ forestieri, era ancora una troppo piccola terra perchè gli agi e le comodità della vita vi potessero esser diffusi anche tra la borghesia di que’ minori artieri e mercatanti. Le case, fabbricate di mattoni, s’aprivan nel pianterreno della facciata, con portici adatti per lavorarvi le lane e sede a’ cimatori e tessitori, sorretti da solidi piloni di pietra scarpellata. Dietro ad essi era una stanza grande, adoperata certo per cantina e granaio; difatti son notati subito, da principio, negli inventari, le u vegetes i u tinelli e tinelletti „ le “ capsebanche „ , il u sopida-neus „ e 1’ “ archone „ pel grano e per il miglio. Per una scala diritta si saliva al primo piano formato da uno stanzone posto, di facciata, sui porticati stessi. Esso - 181 — uvea luce da due finestre ad arco tondo, dimezzate da un sottil colonnino marmoreo, lavorato talvolta a finissima vitilinea, con elegante capitello, e come stanza maggior della casa, era quella dove si tesseva o lavorava e si passava la maggior parte del tempo. E serviva anche per la u coquina come appare dagli arnesi propri di questa stanza. Talune case avevano, dietro allo stanzone, una o due camere minori dove era la u lectera „ e l’occorrente per dormire; ma da questi inventarii, trovandovisi confusi scanni, vesti, arnesi da cucina, mensa e fornimenti da letto, ci è dato argomentare che lo stanzone del primo piano, nelle case di Mino, era cucina, camera da letto e stanza per desinare nello stesso tempo. Con altra scala si passava al secondo piano , un solaio a tetto, dove si trovava, generalmente, la roba usata e smessa, guasta o lasciata in abbandono. Il tetto sporgeva molto infuori sulla facciata e s’ appoggiava a solidi mensoloni di castagno, ne’ quali era confìtta una verga di ferro che scendeva a pari del davanzale della finestra e terminava con un anello in cui s’infilava il bastone per sciorinarvi i tessuti bagnati o tinti. Non possiamo, da questi inventari, farci un’idea compiuta di quello che possedesse l’opera di S. Martino, la quale però, nel 1404, era ben povera di arredi stando alla nota della consegna fattane dall’operaio al Proposto Simone, e che, per essere compiuti, riproduciamo dal Santini (1). Due calici di argento con patene, due corporali, una croce d’argento con 22 pomelli d’ argento, due veli, uno bianco e uno nero, per detta croce, un tabernacolo d’argento — u prò tenendo et portando Corpus Xpi „ — un paramento di seta nero con fregio rosso, manipolo, stola (1) Commentarii storici sulla Versilia Centrale, di Vincenzo Santini, Pisa, tip. Pierftccini, 1858-fiO. Ci siam valsi dell’opera stessa per le principali notizie sopra Pietrasanta, perché, ad onta doi suoi difetti, fatto giusto giudizio del tempo in cui fu pubblicata, è sempre il miglior lavoro su quella regione. Voi. II, pp. 89, 93. Voi. IV pp. 104 o segg. - 182 — camice e amitto ; un paramento vecchio con fasce rosse e verdi; un paramento di seta rosso con fregio serico e con fulcimento; una cassetta d’avorio ove sta il Corpus Xpi „ ; una cassa di legno dove sta detta cassetta ; una pisside di legno ove sono reliquie di vari santi, una tovaglia crocea, un turribolo d’ottone dorato per l’incenso, una navicella di stagno, una pisside nera, grande, da o-stie ; un armadio grande a due piani, tre piattelli per raccorre oblazioni, due stagnatelle per servire le messe, altre due mezzo distrutte, un guancialetto di seta verde per tenervi i libri sull’ altare, un guancialetto di panno nero per lo stesso oggetto ; un campanello di bronzo per la consecrazione , un piuraale di seta azzurro , un altro usato , un’ asta di legno a due pomi per portar la croce, un arcibanco grande antico, una croce di legno, due cal-derelli di bronzo per portar l’acqua benedetta, due candelieri di ferro sull’ aitar grande , due di legno per lo stesso altare, un candelabro di ferro usato , un piviale usato con fodera rossa. Sulla Versilia come sulla vicina Lunigiana eran rivolte, da tempo, e più che mai nel secolo XV, le pretensioni dell’emule repubbliche di Genova e di Firenze. Padrona della Riviera di Levante fino a Porto Venere ne’ secoli del basso Medio Evo, la Repubblica genovese aveva gareggiato già con Pisa, che dominava fino all’opposto braccio del golfo della Spezia, Lerici. E, dopo il 1406, caduta Pisa in poter di Firenze, i Fiorentini vo-lean distendersi in Versilia e in Val di Magra, a scapito anche della Repubblica di Lucca signora della Vicaria di Massa e di Pietrasanta dal 1370. Ma la gara ambiziosa che, per quei possessi, durò secolare fra Genova e Firenze, ed ha un ultimo episodio nell’ acquisto di Pon-tremoli fatto con maneggi diplomatici dal granduca Ferdinando II de’ Medici, nel 1650, a dispetto de’ Genovesi che l’avevan comprato due anni innanzi da Spagna, dovea risolversi presto, per Pietrasanta, a favore di Genova. Una delle tante operazioni di finanza, prosperamente riuscite per la Repubblica, le dava in mano il predominio - 183 - della Versilia. Lucca, bisognosa di danaro, concluse con Genova una lega decennale e le impegnò per 15 mila fiorini d oro varie terre di Lunigiana e di Versilia. E per quella cessione stipulata il 28 settembre del 1430, Genova mandò ad occupare Pietrasanta, che alla scadenza del prestito ritenne per sè, non essendo stata rimborsata, e due anni dopo cedè al Banco di S. Giorgio , nella cui dipendenza stette per quasi mezzo secolo, fino al 1484. Nel settembre di quell’ anno se ne impadronirono i Fiorentini con un colpo di mano , primo episodio di quella guerra fra le due emule repubbliche che ha nome da Sarzana, e che dette argomento ai Genovesi di protestare contro “ l’ambizione e sete inextinguibile de’ Fiorentini „, cercando di suscitare la preoccupazione delle potenze d’Italia contro il soverchio loro ingrandiménto (1). Nè si rassegnò tanto presto Genova a rinunziare alla signoria di Pietrasanta, chè i propositi di riacquistarla si rivelarono nel marzo del 1527, quando essa fu sguernita per afforzar Pisa nel timore delle genti calate in Italia col Frundsberg e che dovean seguitare verso Roma, con ’ dotte dal Borbone, e compiervi il memorabile saccheggio; e si attivarono più che mai nel 1529, mentre già sovra- (1) In una istruzione data a Francesco Marchesi inviato a Venezia per protestare Super hello cvm Florentinis qui occupaverant Petram sanctam, Sarzanam et Sarzanellum, i Genovesi dicevano : « Cum sit che tuta la cità nostra se senta gravemente offesa et iniuriata da Fiorentini, prima per la occupatione de Pietrasancta, poi de Sarzana cum Serzanello et d’altri lochi nostri, in li quali non hanno alcuna iusta raxone, et continuando ogni hora a la infestatione de le confine nostre, sicome per noi non gli ne fo mai dato causa alcuna legitima, cossi non possemo pensare che siano proceduti et procedano a questo modo a li danni nostri, se non per un immoderato appetitto et ambitione de extendere le fine sue con la occupatione de quello del compagno, che se arguisce molto, non havendo, dopo la occupatione de Pietrasancta, voluto observare la pace fata a Eoma per la Santità de N. S., (la noia pace procurala da Innocenzo VITI, ormai ligio, per quanto fosse genovese, a Lorenzo il Magnifico dopo il matrimonio del proprio figlio Franceschetto Cibo con Maddalena de’ Me lici), acceptata iurata et per lettere approbata et ratificata per dicti Fiorentini, havendo lo animo de usurpare ancora Sarzana, corno hano facto, et infestando continuamente le confine nostre, non credemo ad altro fine che per occupare tuta quella nostra rivera de levante ». (R. Archivio di Stato in Genova, Istruzioni e Relazioni, filza 2707, B). - 184 - stava a Firenze 1’ assedio fatale alla sua libertà, per o-pera del capitano di Sarzana che faceva pratiche d’avere, per S. Giorgio, anche Albiano e Caprigliola, le prime terre di Val di Magra che, con Stadano, al principio del XV secolo, fossero venute nella dipendenza de’ Fiorentini. Nel gennaio del 1530 Andrea D’ Oria mosse con le galere verso le spiaggie di Versilia; ma i terrazzani preferirono porsi in mano a un commissario del papa, deliberati anche “ se Fiorentini resterano vincitori restare cum lor Signori, et se pur perdessino , che resterano ad ogni modo cum Medici, li quali serano pur anche Fiorentini „ (1). 1. Archone. Si tratta del cassone di castagno per tenervi le granaglie e le biade, che è molto in uso anche adesso nei nostri paesi. Generalmente è diviso, da tramezzi, in tre o quattro scomparti, per riporvi separata-mente il grano, il granturco, l’avena, l’orzo o altro. E cerchiato di ferro ed ha un coperchio raccomandato a bandelle o cerniere. I vecchi e un po’ malandati, con qualche commessura che non combacia bene, si adoprano pei legumi, fave, fagiuoli, ceci e per le castagne. Non è da confondersi con 1’ “ arcibancus „ che era più piccolo e serviva per sedere. Cfr. num. 89 e 91. Uno di questi arcibanchi trovasi notato nell 'Inventario delle robe e munizioni esistenti nella rócca di Massa il 10 Agosto del 1376, che ha speciale importanza per noi non solo a cagione della vicinanza della Versilia col Massese, ma, special-mente, perchè il notaro Galvani che rogò l’atto che è soggetto del presente studio, era di Massa, e più d’una volta, il suo latino risente di quel dialetto (2): “ Staria (1) A. Neri, documenti genovesi prodotti nella bibliografia dello scritto di Cesare Sardi, I capitani lucchesi del secolo XVI, in Gior. stor. e lett. delta Liguria, anno IV (1903), pag 166. (2) E il primo dei documenti pubblicati da Giovanni Sforza a corredo della sua bella memoria Le gabelle le pubbliche imposte a Massa di Lunigiana ntlla prima metà del secolo XIV, in Gior. stor. e lett. della Liguria, ann. II, (1901) pp. 81-108. — 185 - octo fabarum, que sunt in uno arcibanco „. Nelle robe che trovansi ne\\Inventario dello Spedale di S. Maria della Scala in Poggibonsi (1), e che, trattandosi d’ un’ o-pera pia, hanno molta affinità con quelle di cui ci occupiamo, anche per la contemporaneità, c’è u una chasaccia senza choperchio, da tenere biada Ma il cit. inventario massese ha anche proprio l’arcone: “ Unum arcone in quo est milium et panicum mistum et biscotus novus, ad duos ucellos „ (2), e “ archoni 3 per servar farina „ insieme con “ uno archono grando „, erano, ne la sala grande, questo, nel prestino, quelli, del castello di Me-socco, secondo l’inventario del 1503 (3). Il Du Cange non registra che la voce K arca granaria, in qua granum seu frumentum conditur „ , e alla voce “ arconius „ attribuisce tutt’altro significato: “ locus ubi fenum congeritur et asservatur „ (4). Arca o archa, secondo il Merkel (5), è una specie di madia, ossia una cassa destinata a conservare farina o cereali, e riflette pure l’uso della lingua francese, con frequenti riscontri in Italia: p. es. “ erca „, in Piemonte. Archette, dice il Bologna, sono casse di doghe di legno connesse e con coperchio convesso , in cui si conserva il grano o la farina (6). Nel-1’ Umbria chiamavansi “ archemense „ le casse per riporvi i cereali (7). Pure L’Inventario dei beni di Giovanni di Ma-gnavia, Vescovo di Orvieto e Vicario di Roma (8), che ha (1) Pubblicato da Cuiìzio Mazzi in Miscellanea storica della Valdelsa, anno III, (1895), fase. I, pp. 89 e segg. L’inventario è del maggio 1455. (2) Sforza, op. cit. p. 102. (3) E. Tagliabue, Il castello di Mesocco, in Bollett. Stor. della Svizzera ital. Ann. XI (1389), pag. 233 e segg. (4) Glossarium mediae et infimae latinitatis conditum a Carolo Dd Fre-sne domino Du Cange etc. digessit Gr. A. L. Heuschel. Editio nova aucta a Leopold Favhe; Niort, L. Favre, 1883-87. (5) Il castello di Qnart nella Valle d'Aosta, in Bollettino dell’Istituto storico italiano, n. 15, anno 1895, pag. 121. (6) Inventario de’ mobili di Francesco di Angelo Gaddi, redatto a Firenze nel 1496; Firenze, CiveJli, 1883, pag. 26. (7) Gli Statuti della Colletta del Comune di Orvieto; (1334) pubbl. da Gr. Pardi in Bollettino della R. Deput. di St. Pat. per VUmbria, anno X. (1904), fascic. II pag. 175. (8) Pubblicato da Luigi Fumi in Studi e documenti di Storia e diritto , Giorn. St. e Lett. della Liguria. 13 - 186 — u una arca parva de ligno „ (n. 758), u due arce antique „ (n. 771), nella camera soprastante alla “ coquina „ e “ una arca antica plena furfure „ (n. 793); più u una archa divisa per medium cum duabus serraturis et sine clavibus „ dove sono dei libri (n. 856) e un’altra (n. 896), contenente tovaglie, annovera varie arche nel preciso significato di cassoni per la farina o per le granaglie, civaie, legumi : (n. 904) “ in domo in qua fit panis erant quinque arce inter magnas et parvas, apte ad tenendum farinam „ e (n. 924) u in cellario una arca cum ciceribus falsis albis et cicerchis (?) numero unius salme, falsorum „ ; e fra le robe che erano “ in castro S. Viti „ (n. 1079) u una arca ad tenendum panem „ , mentre son pur notate le archemense (n. 790, 791 e 1019) collo speciale ufficio di madia, per riporvi le tovaglie e il pane. Riassumendo: 1 ar-cone, anche se non era di speciale grandezza come questo che è qualificato u magnum „ perchè teneva 60 staja, cioè ben 20 sacca di grano (1), era di maggior capacità dell’arca, adoprata come grossa cassa, per altro e non soltanto per riporre i cereali, il pane e le tovaglie, e più dell’arehetta. L’ arcibanco era affine di capsabanco, che, secondo il Galli, doveva servire essenzialmente u prò sedendo ad focum „ (2). 2. Sopidaneus. La generica definizione che ne dà il Du Cange è : u Scamnum quod altioribus lectulis apponitur, seu scabellum quod parvulis lectulis apponitur u Suppedaneum secondo il Forcellini-De Vit (3) è qualunque appoggio da mettere “ sub pedibus Si tratterebbe, a. XV (1894), fase. 1-2, pag. 55 e segg.; fase. 3-4, pag. 239 e segg.; a. XVI (1895), fase. 1, pag. 35. (1) Lo staio di Lucca, che era appunto quello usato a Pietrasanta, e-quivaleva alla terza parte del sacco e si divideva in 2 mezzi o 4 quarte e 16 quartucci. Può ragguagliarsi a litri 24,4299. Cfr. Elenco di pesi e misure già usate in Lucca e nel territorio soggetto, in Bongi S., Inventario del R. Archivio di Stato in Lucca, Tom. II, pp. 67 e segg. V. anche il n. 108. (2) La casa di abitazione a Pavia e nelle campagne nei secoli XIV e XV, Estr. dal Bull, della Soc. pavese di St. pai, anno I (1901), fase. 2.°, p. 23. (3) Totius latinitatis Lexicon, Prato, Aldina, 1859-71. - 187 — dunque, d’uno sgabello vario di forma e grandezza, a-doprato per la comodità di chi siede o per salire special-mente sopra un letto elevato. Simile è il “ marchypya „ o marciapiede del castello di Quart, cosi ampiamente illustrato dal Merkel (1), che dal significato di tavolato su cui pongonsi i piedi e dall’affine di tappeto, si distese poi a indicare una predella e poi un pedagno per salire sopra i letti molto alti. Ma il nostro non ha questo ufficio : è un ampio cassone (come rilevasi dalla sua capacità di 40 staia) che non ha nulla da vedere col letto e che racchiudeva le granaglie e le biade. Quanto al miglio che v’ è dentro adopravasi, col panico , per fare il pane inferiore, mescolandolo con la farina di grano. Nell’inventario cit. del castello di Massa si notano : u Staria decem milii boni, staria quadraginta et dimidium milii panici insimul misti, pulveris pule milii et micarum panis biscocti lib. CL „, insieme con le “ fabae i grani e la farina castaneaccia. Suppedanei sono anche registrati negli Statuti della colletta del Comune di Orvieto (1334), ma nel senso di banchette per appoggiarvi i piedi (2), secondo il Pardi. 3. Tinelectus. Oltre la cantina e il celliere nell’ Inventario delle robe dell’ Ospedalfe di Poggibonsi è distinta la “ stanzia de le tina „ che ha tutto intorno lungo le mura, i sostegni, “ sedjmi „ (in senese), o bancacci, come diconsi nel massese, per reggere i vasi vinarii. Fra’ quali nella casa di Pietrasanta ne troviamo con nome simile, un altro, “ tinabulus tristis „ (n. 7), ed un altro ancora, “ tinellus „ (n. 9), anch’esso, come questo qui, “ prò svinando vinum „. Tino è propriamente il gran recipiente, a forma di cono tronco, in cui si pigia l’uva (n. 104). Tra le robe dell’ Ospedale di Poggibonsi erano “ quatro tina di cercha a barigli cento „ (3). Il “ tinellus „ serve per ricevere il vino nuovo che è ancora mosto. Lo stesso (1) Il castello di Quart. nella Valle d’Aosta cit., pp. 90-95. (2) Nel cit. Boll, della E. Dep. di St. Pat. per V Umbria, X, 2, pag. 175. (8) Op. cit. n. 188. — 188 - Ospedale avea “ tre tinelli da ricevere il vino, di barigli trentasei o cercha „ (1). Il u tinelectus „ corrisponde al bigoncione in che si raccoglie provvisoriamente il vino quando si spilla da la cànnora, per versarlo poi nelle botti o travasarlo. Al n. 85 troveremo un “ tinellus „ con tutt’altro significato. Queste varie specie di vasi eran di legno forte, preferibilmente castagno o rovere. Secondo il Cipolla nel Veronese adoperavasi anche il larice e l’abete, (pezzo-pi-cium). Tra le mobilie di casa Aleardi, al principio del secolo XV, è notata “ Una tina a buliendo (da farci bollire 1’ uva) tenente 14 quart „ (2) e u una tina prò ponendo vendemias „ trovasi nell’inventario del Vescovo di Magnavia (3). Però sono qualificate a tina lignea „. Il Galli nelle case pavesi ne trova anche u de lapidibus „ (4). 4. Secchione. L’Ospedale di Poggibonsi possedeva u uno vaso grande, da fare bochato „ (5). Le case di Vallazana nel Fivizzanese, hanno aneli’esse u secchiono uno man-gno „ (6) e u segiono uno de bugada „ era nel castello di Mesocco (7), distinto bene da u segioni 2 da salar carne „ (8) affini alla u conca di legno grande da salar porci „ che era nella rocca di Borgo Val di Taro (9). E il secchione pel bucato, gran vaso di terra oliare, adoprasi anche oggi ed Ila, nel massese, quel nome che il notaio ha latinizzato, mentre nella Versilia si chiama colla voce toscana conca, cosi definita dal Rigu-tini-Fanfani (10): “ Vaso di grande concavità fatto di (1) Op. cit. n. 189. (2) Libri e mobilie di casa Aleardi al principio del secolo XV, descritti da Carlo Cipolla, in Archivio Veneto, tom. XIV, p. I, pp. 38-53. Venezia, 1882. (3) L. Fon, op. cit., n. 1070. (4) Op. cit. pag. 27. (o) Op. cit. n. 116. (6) Stakfetti L. Due case di compagna nel secolo X V. Modena, Vincenzi, 1900, pag. 15; estr. dagli Atti e Memorie della lì. Dep. di Storia patria per le Provincie modenesi, Ser. V, voi. I. (7) E. Tagliabce, op. cit., p. 233. (8) Op. cit., p. 234. (9) E. Motta , Inventario della rocca di Borgo Valditaro nel 1488, in Giorn. ligustico del 1Ì-&7, p. 368. (10) Vocabolario italiano della Lingua parlata; Firenze, Barbera. — 189 - terra cotta, che serve propriamente per fare il bucato Accomodare i panni nella conca. A Massa questa funzione si dice “ inconcare „. La casa di Messer Bartolo da Tura con tanta precisione illustrata da Curzio Mazzi, ha u una conca da bucato „ (1). “ Sigionus „ nel pavese era il mastello per la biancheria; stagnoni i caldari per bollire 1’ acqua pel bucato (2). Tra la Mobilia di un gentiluomo ferrarese del cinquecento (3), c’era u un seio grande da bucato, due paroli da bucato, una cazzeruola e quattro mastelli da burato u Conchette „ che adopravansi per tenere il vino si trovavano in casa Aleardi (4) e secchioni per ricever 1’ olio dal torchio, grosse secchie di legno usate tuttodi nei frantoj , sono quelli che ricorda il Rossi nel suo u Glossario esemplificando con un passo dello statuto d’Albenga (5). 5. Vegetes. Anche u vejes „ come nelle case di Valla-zana (6). u Vegeticulum „ il botticello dal vino scelto o dall’aceto. Varie di capacità, le u vegetes „ son di minor portata dei tini. Una, detta u magna „, conteneva 30 barili (n. 105); di dieci barili è “ parva „ (n. 106). La misura media ordinaria era da 15 a 20 barili. La misura o capacità delle botti è data a barili, perchè in esse versasi il vino; quella dei tini generalmente a salme o some, che è propria dell’ uva come si porta dalla vendemmia nelle bigoncio. In casa Aleardi, erano due “ vejes picjs „ (d’abcto), un u vejeticulus castagnarii, uno larzii „ (di larice), quattro altri “ vejeticuli „, l’uno dei quali, di castagno , per 1’ aceto, e tre ancora da vino cotto (7). ili Estr. dal Bollettino senese di Storia patria, anni 1894-1900, sotto il n. 776. (2) Galli, op. cit. p. 8. (8) Pubbl da Giuseppe Pardi, estr. dagli Alti della Deput. ferrarese di Stor. patria, voi. XIII, anno 1901, p. 19 (4) Cipolla, op. cit., pag. 52. (5) * Teneatur secum portare « sejonos », in quibus distillari et cadi faciunt oleum ». Rossi Gerolamo, Glossario medioevale ligure, Torino, Paravia, 1*06. (6) Op. cit. p. 16. (!) Cipolla, op. cit., pagg. 52-53. — 190 - Una gran varietà di botti registra il Mazzi e mette conto riferirne i nomi per avere tuttcì la terminologia della pura parlata senese: u Botte buona e bella di barili otto, vecchia vuota di 18 barili, grande vecchia di 36 barili „ (1); poi “ due botticelle vecchie di barigli cinque o cercha, da biancho altre di vino vermiglio (2); “ una botticellaccia vecchia triste, dentrovi uno pocho d’a-scieto „ (3); e bottacce da tenere la biada, senza fondo o con un sol fondo , da cenere, da noci, e doghe e pezzi di fondi si accatastano nel celliere. 6. Vegetes nostrate e napoletane. Le nostrate hanno le doghe molto spesse e son cerchiate da grossi cerchi di ferro; si possono poi sfondare dalla bocca e il coperchio si divide in tre pezzi : la lunella, o la parte di mezzo, e i due fondi laterali a settori. Chiudere la botte si dice u tirarle i fondi „. I cerchi si ribattono con due grossi martelli: la mazza e la cacciatora. Napoletane sono le botti a doghe più sottili e cerchiate di grossi lameroni di ferro. Il fondo che fa da coperchio è tutto d’ un pezzo e si leva, rallentando i cerchi, senza dividerlo nelle tre parti. Sono più adatte che le nostrate per trasportare il vino. Anche nel castello di Massa trovavasi u una veges neapolitana teneris barilium XII „ (4). 7. Tinabulus. Cfr. n. 3. A differenza delle “ vegetes „ di cui la capacità si misura a barili, qui è misurata a salme. La salma, o soma, è di due bigonce d’uva o di due barili di vino. Cfr. n. 30. 8. Vegetes tristes. Cfr. n. 5. 9. Cfr. n. 3. 10 e 11. Scanum. Vario di misura e di forma, questo mobile ebbe vari uffici. Lo scanno da sedere che , secondo il Merkel, si può dire il sedile individuale (5), (1) Sodo nel « celliere », ne la « cantina » o ne « la stanzia de la tina » dell’Ospedale di Poggibonsi; op. cit. n. 1U8, 181, 193. (2) Op cit. 171. (3) Op. cit. 173. (4) Sfokza, op. cit. pag. 102. (5) II Castello di Quart cit. pag. 57 e segg. - 191 — mentre il banco serviva a più persone, fu uno de’ sedili più comuni e di uso più antico. In Firenze era segno di onore valersi in pubblico delle panche e degli scanni. Prese, dopo il secolo XVI, aspetti diversi. Questo primo u prò sedendo „ era di forma rotonda; ma l’inventario dei mobili di Sinibaldo Fieschi del 1532 (1), ricorda. u uno scamelino intelaiato da camera quadro „ e “ uno scagno quadro intelaiato da camera Qui però, si tratta non più di un mobile da sedere, bensi di un tavolinetto, affine all’altro “ scagneto coperto de velluto rosso da scrivere „. Ve n’erano di ricchi e coperti di stoffa e di semplici di legno. In casa Aleardi, nella camera superiore presso il granaio, fra la roba smessa c’è u unum scanum vetus „ (2). Questo scanno o sgabello rotondo per sedere era , secondo la geniale ricostruzione che ne fa il Viollet le-Duc (3), u un meublé commode pour causer a-vec les femmes; il permettait de se tourner dans tous les sens, de se deplacer facilment Diverso era 1 altro, u cum sponda brachiorum trium simile alle u tre panchette u brachiorum trium „ che, insieme ad una banca grossa, son notate negli atti di Giovanni di ber Orso Bar-zellotti di Lucca. Corrisponde questo alla definizione del Du Cange: u Sedimen ligneum longius, quod plures una sessores capit Anche il Mazzi ricorda u tre deschetti (panchetti, sgabelli), due co le spalliere e uno senza „ (4). La materia degli scanni era varia a seconda del loio pregio e importanza. Nella casa Sacco a Castione c è un banco di abete e uno di rovere (5). Lo scanno a sponda o spalliera, o banco adoperavasi per sedere a mensa, lo il) Arredi ed armi di Sinibaldo Fieschi, pubb. da A. Manno , in Atti della Soc. L>g- di St. patria, voi X, fase. IV. (2) Cipolla, op. cit. pag. 52. (8) Dictionnaire raisonnè du Mobilier francai», I, 106 (4) Inventario dello Spedale di S. Maria della Scala in Poggibonsi, cit., " li) Cipolla C., Un amico di Cavgrande della Scala, in Memorie della R. Accademia delle scienze di Torino; Ser. II, Tom. LI, Torino, Clau-sen, 1!02.A pp. 87-32 c’è l’inventario del (i aprile 1389, seguito da molte illustrazioni. - 192 - scanno senza sponda o rotondo, odierno sgabello, era a-datto a sedere per trattenersi a conversare. E accanto ai letti troviamo sempre o banche o cassabanche o scanni. Cosi nell'inventario dei beni di Giovanni di Magnavia (1), nel quale accanto agli scanni “ ad sedendum „ c’ è notato anche uno “ ad comedendum „ , che era certo un piccolo tavolino come quello di Sinibaldo Fieschi citato più innanzi, se pure non si volle indicare uno scanno speciale per sedere a mensa. 12. Letica. Secondo il Du Cange “ lecti fulcimentum, bois de lit „. Cita: u Consules fecerunt apportari ad dictum hospitale lectos sequentes captos in aliis hospitalibus : primo de hospitali duas leticas Oltre questa u letica tristis „ se ne nota un’altra “ bona „ (n. 42). 13. Gamurra, tunica. Mantellus. La gamurra o carmina, abito femminile, si facea d’ordinario con le maniche di colore diverso dal rimanente. Nella casa di Bartolo da Tura ce n’ era una di verde buio, di panno, vecchia e logora, con maniche (2); altre erano senza maniche (3); una di saia bigia con maniche di panno nero (4); una di “ bruschino „ (rosso-scura) avea le maniche nere (5). Per ornamento poteva avere frappe, scagliette d’oro e altro. Oltre che quelle per le donne c’ erano gamurrine e ga-murrini da fanciulli (6). Il Rossi nel Glossario medioevale ligure registra “ gamerra, specie di mantello „, ed esemplifica con un passo dello Statuto di Genova. Il Gan-dini nella illustrazione del corredo di Elisabetta Gonzaga (i) identifica “ zippa v con u camora „ e la dice veste completa lunga fino ai piedi con busto e maniche Il busto si allacciava con stringhe, (« cordela de seda „). W*. (8) Mazzi, op. cit , n. -Ió6. (I) Op. cit., n. *m. (ò) Mazzi, op. cit. « Altri sette grandi cbon sedjci coperchi di terra per coprirci e1 detti orci * 11. 221. (•>') Zoekaver. op. cit., pag. 18B. (7) Op. cit. n. 450. (8) Mazzi, La cata di Barloln da Tura, cit. n. 11!'. — 219 — da tenere olio, grandi (1), u tre copparelli piccoli „ (2). Eranvi, come oggi, le grosse pile di pietra : per es., in casa Sacco a Verona: u Quinque centenarios lapidis ab oleo n ; e anche di legno : u Sex centenarios ligni ab oleo „. Nel Massese si usano grosse pile di marmo. 69. Cfr. n. 34. <0. Incisoria. Taglieri, varii di grandezza e materia. Di legno in casa Aleardi e numerosi : u Quinquagintaunum incisoria ligni nova „ ; di stagno nell’inventario del vescovo di Magnavia, dov'è accomunato il nome di taglieri e incisoria u Septem taglieri sive incisoria de stagno raa-gna „ (3); di poltro nel castello di Mesocco, dove compariscono fra gli arredi della cucina: u Tayari 18 li quali sono a la cuxina „ (4); preziosi, d’argento, per la credenza, nell’Inventario di Spinetta da Campofregoso : u Incisoria duo de argento, rotunda „ (5). Oltre che rotondi pot'cano essere anche quadri, e non solo ve n’ era di varia grandezza per la cucina e la credenza come quelli ricordati nella casa di Rartolo da Tura (6), ma anche per mettere in tavola: “ lino tagliere tondo nuovo, da tenore carne in tavola, di stagno In casa Aleardi son ricordati subito dopo i coltelli, e cosi in casa di (inno senese (7). Anche a Vallazzana ne troviamo. Quelli di legno si facevano generalmente d’acero, come i bicchieri . e avean forma vascolare quasi di piatto. Il Re-vere mettendo “ incisorium „ insieme con u cultellus pro tabula „ e notando poi la materia de’ manichi di vari coltelli mostra averli identificati con arnesi per tagliare (8). 71. Boticellus. Il Du Cange ha u Butlcula, boticella che ricongiunge a “ buta ed esemplifica: u Tradidit quan-dam boticellam vini pro recreatione spirituum “ Roti- (1) Op. cit., n. 461. (2) Op. cit., n. tffi. O?) L. Fi mi, Op. cit. n. 71-53. (I) E. TAttUAin n, op. cit., pag. 238. (Ò) A Neri, op. cit, pag. 854. (<») C. Mjuiti, op. cit., n. 1"1, 7i«, 771, 8*1. (7) Znuuttn, op. cit, p. 198. (X) Arredi ecc., pag. 161. — 220 - glius, Botiglionus, Butta, Buttis, Buzu „ son tutti da una medesima radice. Qui s’intende un vaso di legno di piccola misura. Affine sarebbe “ vegeticulus o vezolus „ ; cfr. n. 5 e 6. 71 bis. Barile. Nel castello di Massa: “ Unum barile dovarum (doga) cum fundo tristi „ (1). Nell Ospedale di Poggibonsi : u Due barigli da portare vino „. Il barile da vino di Lucca equivaleva a lit. 40,1357 e dividevasi in 34 boccali o 17 fiaschi. Due barili formavano la soma (2) cfr. n- 30. 72. Tela. Una pezzata di tela di lino per valersene a varii usi. Trovansi ne’ diversi inventarii, “ in una petia „, tovaglie, sugacapita, mantili e manutergia. 73. Stagnata. In casa Aleardi : “ Unus stagnoletus ab oleo, parvus „. “ Unus stagnolus stagni ab oleo, magnus sive mezanus „ (3). Trovansi anche per il vino. Nell’inventario di Giovanni di Magnavia : u Duo vaxelli de stagno prò tenendo vinum „ (4). Questa assai probabilmente per l’olio. “ Stagnata per tener l’olio „ dicesi anche oggi nel Massese, e u stagnata „ chiamasi il vaso ampio, di latta doppia, detto anche, impropriamente, “ ramina „ dove si tiene dalle lattaie il latte. 74. Catinelle. Cfr. n. 24. Caratteristica la provenienza dalla nota terra di Montelupo fiorentino , tanto celebre per le stoviglie. 75. Catinelle. Queste pisane, dette 11 magne „ , mentre le precedenti di Montelupo sono “ piane trovano riscontro in altre simili che importavansi nella Vicaria di Massa, come rilevasi dall’ articolo citato più volte dello Sforza (5). (Continua), c? Luigi Staffetti. (1) Sforza, op. cit., pag. 103. (2) S. Bongi, Elenco cit., pag. 68. (3) Cipolla, op. cit., pag. 51. (4) Fumi, op. cit, n. 950. (ó) Le gabelle e le pubbliche imposte a Massa, pag. 100. BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO. Bruto Amante, Fra Diavolo e il suo tempo (1796-1806 ì con 60 illustrazioni e molti documenti inediti, Firenze, R. Bemporad e figlio, 1904, in 8° di pp. 473. Intorno al famoso personaggio che riempì del suo nome pauroso e delle sue gesta gli ultimi anni del secolo XVIII e i primi del XIX, molto si era sbizzarrita finora la fantasia popolare, creando le più strane e spaventose leggende, e molte notizie false, esagerate e spesso contraddittorie n’erano state date dagli scrittori contemporanei e posteriori che di lui aveano trattato. 11 D.r Bruto Amante ha voluto riprendere ora un tentativo non nuovo e certo non poco ardito: la riabilitazione della figura del leggendario brigante. L’A. si propone di mostrarci la figura di lui sotto un nuovo aspetto, e, scusandolo delle colpe e dei delitti pei quali è famoso, vuol farne un fiero uomo di parte, un difensore nobile e simpatico del territorio della sua patria e del suo re. È l’autore riuscito nel suo intento? Diciamolo subito: a noi sembra di no. Egli ha procurato di ricostruire, intorno a Fra Diavolo, anche l’ambiente che lo circondava e di ricordare i fatti e i personaggi che gli furono contemporanei: ed è questo un merito che volentieri gli riconosciamo, come pure è notevole la cura colla quale egli ha raccolto, dappertutto dove ha potuto, in archivi pubblici ed anche presso privati, documenti spesso nuovi ed inediti. Forse tuttavia egli si dilunga talvolta anche troppo in digressioni non necessarie e che poco giovano all’ economia del lavoro , perchè contengono notizie insufficienti per chi non sa, ed inutili per chi già conosce quel periodo di storia: come nel lunghissimo capitolo (IV) che riguarda gli eccessi della restaurazione borbonica, o nel racconto di insurrezioni locali che non hanno attinenza diretta coll’oggetto della monografia. Ad ogni modo però il grave difetto del libro — tanto più grave data l'audacia del tentativo, il quale avrebbe avuto bisogno invece di un’ accurata e completa dimostrazione è che troppo spesso l’autore cade, per amore della tesi, in facili ed affrettati giudizi, e sforza, senza esaminarli interamente al lume della critica storica, 1 inteipietazione dei documenti e dei fatti, dei quali poi non si ferma a cercare la motivazione psicologica , e dello stesso fatto porta versioni diverse ed anche contraddittorie senza discuterle e confrontarle. Importantissimo infatti sarebbe stato, per ben comprendere e giudicare Fra Diavolo negli ultimi otto anni nei quali soltanto egli svolse l’attività che gli acquistò così grande fama, conoscere il periodo anteriore della sua vita. Invece l’A-mante, pur accennando in principio dell’opera sua alla grande oscurità in cui è avvolta la gioventù di Fra Diavolo ed a quanto di fantastico e di falso intorno ad essa è stato scritto, riporta bensì i passi di parecchi autori che se ne sono occupati, ma non contribuisce per nulla da parte sua, collo studio accurato dei documenti che ci rimangono, a rischiarare almeno in parte questa oscurità: anzi con una certa facilità passa sopra questo punto. E tuttavia si sa, per testimonianza di scrittori anche borbonici e di un manoscritto del tempo, dove anzi i fatti sono minutamente narrati, che Fra Diavolo (è questo, come è noto, un soprannome che gli fu dato in seguito, poiché il suo nome vero era Michele Pezza) aveva commessi in gioventù due omicidi, dei quali , dopo essersi dato alla campagna, ottenne di scansare la pena col servizio militare. Le notizie che ne abbiamo sono, è vero, confuse e contraddittorie , ma ciò non toglie che il conoscerne il movente, la passione che n’era stata causa, sarebbe stato, come riconosce anche 1' autore, di capitale importanza : e ad ogni modo il fatto che i delitti di cui Fra Diavolo viene incolpato siano due e non uno soltanto, che più facilmente si sarebbe potuto spiegare, e più ancora il fatto che alcuni autori che ne hanno trattato parlino di delitti commessi a tradimento, depone poco a favore di una benevola interpretazione. « Ma — conchiude l’Amante — i primi passi di certi uomini singolari per audacia e arditezza..... di rado sono corretti e quasi diffìcilmente possono esser tali...... ». E l’autore ci conduce poi direttamente agli avvenimenti del-1’ epoca, ricordando la spedizione del Re di Napoli, Ferdinando IV, contro i Francesi, che nel 1798 avevano occupato Roma e ne avevano scacciato il Papa. Ma, è noto, Ferdinando IV retrocede poi, non appena i Francesi, dopo i primi rovesci, cominciano a riannodarsi: e infine fugge addirittura a Capua, a Caserta poi, di là a Napoli e finalmente a Palermo , mentre le popolazioni, da lui eccitate con proclami, si ribellano e resistono tutte fortemente contro i Francesi, che si avanzano guidati dallo Championnet e proclamano da ultimo in Napoli la repubblica partenopea. In mezzo a così gravi avvenimenti comincia a svolgersi l’azione di Fra Diavolo, il quale si era messo subito a capo di una delle numerose « bande » di uomini armati che si andavano formando, ed infieriva contro i Francesi che da parte loro avevano saccheggiato Itri, patria di lui, ed ucciso il padre. Troppo lungo sarebbe il seguire qui in tutti i suoi particolari l’esposizione che l’autore ta del seguito degli avvenimenti : basterà darne appena un rapido cenno. — In breve la Terra di Lavoro è tutta in ribellione: Fra Diavolo molesta in ogni modo i Francesi nel territorio napoletano , intercettando loro le comunicazioni, impadronendosi di vettovaglie, assalendo, saccheggiando continuamente: ed intanto dalle Calabrie sopravviene il cardinale Ruffo con altre truppe, colle quali egli riesce ben presto ad occupare Napoli scacciandone i Francesi, ed a fare arrendere la fortezza di Gaeta, al cui assedio aveva pure preso grande parte Fra Diavolo. Questi è. allora chiamato a Corte dal Re, e ne riceve encomi, il titolo di colonnello borbonico ed una rendita annua, benché molto nominale. — Altro punto importante della storia di Fra Diavolo è la parte da lui presa alla spedizione del 1799, che il Re di Napoli aveva mandato contro Roma per iscacciarne i Francesi i quali di nuovo l'avevano occupata. La spedizione fu per Fra Diavolo molto avventurosa, ed è poi notevole per l’orribile saccheggio di Albano da lui compiuto, o almeno lasciato compiere dai suoi: e pare che siano stati allora così numerosi gli atti di crudeltà e di indisciplina per parte di lui, che lo stesso generale borbonico Naselli fu costretto un giorno, circondandolo insieme colla sua banda, ad incarcerarlo coi compagni in Roma in Castel Sant’Angelo , donde poi Fra Diavolo riuscì a fuggire: dopo di che il processo fu sospeso per ordine del Re. Ma eccoci al 1806, anno che sorge per la dinastia dei Borboni sotto ben tristi auspici: Napoleone proclama l’esistenza della Casa di Napoli incompatibile col riposo d’Europa, un esercito agli ordini del fratello suo Giuseppe imprende la conquista del regno delle Due Sicilie. E la Corte fugge al solito a Palermo, lasciando all’ammiraglio Sidney Smith il compito di molestare con una flotta le operazioni dei nemici, tentando degli sbarchi ed approvvigionando Gaeta che resisteva, ed a Fra Diavolo di sollevare le Calabrie, assalendo da tergo i Francesi. Ma la ribellione delle Calabrie riesce i- - 2-24 - nutile, poiché intanto Gaeta si arrende ai Francesi e 1’ esercito invasore corre in ogni parte a reprimere l’insurrezione: le bande di Fra Diavolo si assottigliano ogni giorno più ed egli è ridotto ormai ad una fuga dal Napoletano agli A-bruzzi , alla Terra di Lavoro. Ma il re Giuseppe voleva ad ogni costo la cattura di Fra Diavolo , e 1’ ardua impresa fu affidata al colonnello Hugo: e furono ventiquattro giorni di inseguimento continuo e disperato, nei quali mille volte Fra Diavolo riuscì a sfuggire con miracoli di audacia. Ma finalmente, arrivato un giorno a Baronissi, paesetto del circondario di Salerno , viene accolto da un farmacista del paese, che, dubitando poi egli fosse un brigante, lo consegna alle guardie nazionali : così egli è arrestato, riconosciuto, condotto a Salerno e di là a Napoli, dove è condannato a morire sulla forca. Fu giustiziato l’il novembre sulla Piazza del Mercato. Esposta così in brevi tratti la vita di Fra' Diavolo, sorge naturale la domanda: in qual modo l’Amante scusa dunque le crudeltà veramente enormi ed efferate di lui? Poiché egli stesso è costretto più di una volta a raccontare tratti di ferocia del suo protagonista che veramente stupiscono. Durante la prima invasione dei Francesi, nel 1798, Fra Diavolo, dice il manoscritto già citato « trucidava i corrieri e tutti quelli che gli dessero ombra di recar lettere o ambasciate, rompendo il cammino fra Roma e Napoli. Chiunque però viaggiava in queste contrade, ed aveva qualche cosa da perdere, era ben presto qualificato per francese e ne aveva l’ugual sorte ». Ora era inevitabile punto di passaggio per coloro che transitavano per Itri una località detta « Santo Spirito », dov’ era a fianco della strada uno spaventevole precipizio, della profondità di oltre 300 braccia, nel fondo del quale scorreva precipitoso un torrente. In questo luogo il nostro eroe « attendeva tutte le vetture di transito su le quali esercitava. le più inique rappresaglie, i più crudeli assassini...... Quivi, depredato a quei disgraziati tutto ciò che formar potea idea di bottino, agglomerava uomini e donne, vecchi e fanciulli, vivi o feriti , cavalli, carrozze, conduttori, tutto in sostanza, e dall’orlo del precipizio faceva minare furiosamente giù dal torrente. Indarno quei miseri chiedevano soccorso: di roccia in roccia urta, trabalza, e conquassato a terra alfin ruina I » — Un’altra volta, durante l’insurrezione di Terra di Lavoro del 1806, Fra Diavolo, rinchiusi in una vecchia casa più di venti mori latti prigionieri « es-eguì sopra di essi coi suoi compagni una scarica di schioppettate , lasciandoli poi i feriti confusi ai morti senza la minima cura ». E molte altre gesta di simil genere si potrebbero raccontare, commesse da Fra Diavolo colle sue bande: saccheggi, stragi, massacri, dei quali basterà ricordare ancora soltanto quello famoso di Albano , durante la spedizione contro Roma, benché ci rimanga un certificato di buona condotta per Fra Diavolo di alcuni di quei cittadini, di carattere e di provenienza però assai poco credibili, come del resto riconosce anche l’Amante. Ed infatti sappiamo che al loro ritorno ad Itri ognuno di coloro che avevano preso parte a quel saccheggio portò seco « oro, argenterie, gioie, tele finissime..... tutto in sostanza quello che formar poteva oggetto di speculazione, di lusso, di comodo , di necessità di Albano » : e che « le loro case rigurgitavano di bene d’ogni sorta », e v’era qualcuno che a-veva persino tre botti piene di danaro : lo stesso Fra Diavolo del resto, quando, durante l’inseguimento ultimo, dovette abbandonare ogni cosa per salvarsi, trasportava seco « sopra cinque muli il bottino ». E presso il popolo di Albano l’idea d’Itri, il paese di Fra Diavolo, dice il manoscritto citato, « reca ancora terrore ». Ora è vero che noi dobbiamo riportarci ai tristi tempi nei quali viveva Fra Diavolo, alle necessità della guerra, alla gente di cui egli si circondava: ma non è giusto attribuire tutta e sempre la responsabilità degli eccessi ai compagni di lui, che egli, così energico e temuto, avrebbe potuto almeno in parte frenare, e conchiudere, come fa l’Amante, che del resto simili fatti accadono in tutte le guerre, poiché bisogna ben distinguere quella che è soltanto la necessità di una difesa legittima e talvolta disperata, da ciò che altre cause e passioni possono aver determinato. E quello che è sopratutto notevole e di cui ognuno che sia spassionato dovrebbe specialmente tener conto, ci sembra appunto il fatto che spesso delle uccisioni e delle stragi compiute da Fra Diavolo coi suoi la causa non è direttamente la difesa della patria e del re, ma, come in quegli episodi che più sopra ho ricordato, è la malvagità stessa dell’animo e un desiderio cieco di sangue: sono insomma dei delitti senza ragione , che rassomigliano molto piuttosto a quelli del teppista o del bandito. E dei briganti Fra Diavolo ha del resto anche la superstizione caratteristica (è recente il ricordo di quella di Tiburzi e di Musolino): e l’Amante stesso, senza per altro trarre dal fatto — 226 — alcuna conseguenza di poco nobili sentimenti e bassa mentalità del protagonista, ci racconta che Fra Diavolo, mentre, datosi alla campagna, scorreva il territorio d’Itri, entrò una volta di nascosto in una chiesa del suo paese, « dove, fattosi incidere un braccio, nascose in quella ferita un’ ostia consacrata, fermamente credendo che quell’ atto si stupido e sacrilego, lo rendesse invulnerabile ». Come si può ora seriamente sostenere, da chi voglia dare un giudizio sereno ed imparziale, in un individuo quale dalla leggenda e dalla storia ci appare Fra Diavolo, una coscienza sicura, un concetto chiaro e nobile di una missione da compiere, come vorrebbe persuaderci l’Amante? Egli fonda questo suo giudizio del resto soltanto sopra pochi fatti dei quali cerca in tutti i modi di valersi e sui quali insiste di continuo, che veramente mostrerebbero, è giusto riconoscerlo, in Fra Diavolo dei tratti di generosità e quasi d’ altruismo : e principalmente sul fatto che, non essendo Fra Diavolo rimborsato dal re, malgrado le insistenze vivissime e continue, di certa somma che egli aveva presa a prestito per le spese di guerra durante il primo assedio di Gaeta, gli chiese alla fine il permesso di poter pagare i creditori colla vendita della rendita di vari suoi immobili avuti in dono dal re: il permesso del resto gli fu negato, e quindi Fra Diavolo non compì 1’ atto generoso che diceva di voler fare. Ma è facile comprendere che un’opinione, la quale si fonda su fatti così isolati e non su quella che è la norma generale e costante della vita, ha un valore assai relativo; specialmente se si pensi che simili casi in simili individui, per uno strano contrasto della natura, non sono nuovi nè rari. Se Fra Diavolo rilasciava talvolta, come si diceva, ai vetturali ed ai procaccia la ricevuta di quello che loro depredava, anche il brigante è talvolta umano e generoso colle sue vittime e giunge anzi talora a difendere il debole e l’oppresso, e ci tiene a mantenersi un carattere elevato e non volgare. E non è lecito allora almeno dubitare di questo preteso grande, sviscerato a-more di Fra Diavolo alla Casa dei Borboni e di quello spirito di abnegazione che lo avrebbe tratto anche al sacrificio? Poiché non è a parlare in Fra Diavolo, come pare invece voglia ammettere l’Amante in principio del suo volume , di a-more verso la patria, del quale non abbiamo alcun accenno nelle sue parole e nelle sue azioni, ma al caso di questa affezione esclusiva alla dinastia borbonica. Ma era proprio in- - 227 - teramente la fedeltà cieca, affettuosa dell’uomo devoto? O quanto entrava in essa il desiderio della vendetta, la passione della vita sfrenata, il gusto del sangue e del bottino, l’appa-gamento infine dei propri istinti naturali, a cui si .presentavano favorevoli il pretesto e 1’ occasione? Certo quello che sappiamo della vita di Fra Diavolo non potrebbe indurci ad interpretare così facilmente la sua devozione alla causa dei Borboni. Tanto più che il contegno di Ferdinando IV non fu sempre il migliore verso colui al quale infine avrebbe dovuto avere della gratitudine: e difatti non volle mai pagargli, malgrado tante insistenze, quelle grosse somme che Fra Diavolo assicurava di aver prese a prestito in varie occasioni per le spese di guerra, per quanto il re possa aver avuto le sue ragioni per non prestargli interamente fede. Poiché egli in fondo doveva comprendere — come appare anche da una lettera da lui diretta al cardinale Ruffo, alla quale l’Àmante cerca di toglier valore spiegandola come un omaggio alle o-pinioni del Ruffo notoriamente contrario a Fra Diavolo — che questi « è un capo di briganti, ma convengo altresì che ci ha molto ben servito: bisogna dunque servirsene, non disgustarlo, ma nel medesimo tempo con la persuasiva convincerlo di dover stare a freno e in disciplina lui e la sua gente, se vuole acquistarsi veramente un merito con me » : e infatti più di una volta il re dovette dare ordine — anche l’Amante riporta un’ordinanza del 3 febbraio 1806 — che Fra Diavolo coi suoi non si muovesse e fosse tenuto in disciplina. Quello che adunque difetta principalmente, ci sembra, nello studio dell’Amante è l’analisi psicologica, pure così importante, del suo personaggio, dei suoi atti, delle sue azioni. E ad ogni modo la Corte ed il governo ch’egli difendeva, ed il re, quale ci appare dalla storia, debole e crudele, a cui era legato, devono essere tenuti presenti per un giudizio complessivo di Fra Diavolo : la causa poi sostenuta da lui è certo delle meno simpatiche : la reazione cieca della parte più retrograda e conservatrice contro le nuove, generose idee della rivoluzione francese , che pure tanti eletti ingegni di quel tempo , Mario Pagano , Domenico Cirillo , Luisa Sanfelice e gli altri tutti della Repubblica Partenopea, avevano accettato con tanto entusiasmo. Le « truppe a massa », come erano chiamate, nella loro mancanza di ogni contenuto nobile ed intellettuale, si diedero spesso ad atti di vandalismo, come saccheggi di librerie e distruzione di opere d’arte: la canzone - 228 - dei sanfedisti è quanto di più volgare e fanatico si possa immaginare : È finita l’eguaglianza, È finita la libertà, Viva Dio e Sua Maestà, Li giacobini fora da cà. Li vutammo cu 1’ ocelli all’ ariti, Viva il Principe ereditami..... Viva Dio e l’artiglieria..... Ebbene : anche il fatto che tale fosse la causa sostenuta •la Fra Diavolo depone poco a favore del nostro personaggio e della sua gentilezza ed elevatezza di sentimenti. E se vogliamo tener conto della leggenda e della tradizione popolare, a darci un'idea del ricordo triste e pauroso ch’esse ci hanno lasciato di lui, oltre il sinistro soprannome col quale era a tutti noto, può bastare il fatto che, come scriveva Alessandro Dumas recatosi ad Itri nel 1862. Fra Diavolo ispirava ancora terrore, dopo 56 anni dacché era stato impiccato, ai suoi compatrioti. Ed altri fatti concorrono a mostrarci quale dovesse essere l’opinione che di lui avevano i suoi stessi contemporanei : l’Amante ci racconta infatti che, durante la spedizione di Roma, « molti abusarono del nome di Fra Diavolo per commettere soperchierie d’ ogni genere » : ed eloquente è pure l’episodio di quel tale Alessandro Abruzzese, che durante l’insurrezione di Terra di Lavoro, « qualificandosi per sottocapo di Fra Diavolo con varii compagni infestava le strade » commettendone d’ogni colore! Lo stesso Fra Diavolo, quando, preso finalmente dopo un accanito inseguimento, fu sottoposto all’interrogatorio prima del giudizio, dovette comprendere a quali eccessi nella sua vita era arrivato e sentire il bisogno di scolparsene: per quanto diverse infatti siano le versioni, pare che realmente gli sia mancata allora la forza d’animo, e, come dicono i giornali ufficiosi del tempo ed anche il Colletta, che, per iscusarsi dei suoi atti di crudeltà, abbia insistito nell’accusare la regina Carolina e gli altri della Corte, dicendo ch’egli non aveva se non obbedito ai loro ordini. Riassumendo adunque e conchiudendo , se è giusto riconoscere in Fra Diavolo alcune qualità come l’energia, l’esperienza delle cose di guerra e un’ audacia non comune, se è vero ch’egli è stato tanto ammirato, oltre che temuto, perchè è facile che uomini simili eccitino l’ammirazione, special- - 229 - mente quando la fortuna ed il successo li favoriscono, pure a noi che siamo a tanta distanza di anni dal tempo nel quale egli svolse la sua attività, non è lecito farci trasportare da sentimentalismi o desideri tardi di panegiristi, ma da osservatori attenti e spassionati dobbiamo guardare soltanto i fatti. E ad ogni modo dal sentimento di ammirazione e dalla fantasia non dovremo mai lasciarci trasportare al punto da paragonare, o anche dall’accettare, come fa l’Amante, il paragone che da altri vien fatto di Fra Diavolo con ben altre gloriose figure, 1’Empecinado di Spagna, Canaris di Grecia e Abdel-Kader di Africa ! Ancora poco, del resto, se si pensi che già si era detto di Fra Diavolo: « ..... fu il Cabrera dal 1799 al 1806..... », e già si era tentato un ravvicinamento anche più grottesco: « come l’Alfieri sfogava il suo odio contro la Francia col Misogallo, così Fra Diavolo col ferro, col fuoco, con lo esterminio! ». Bene adunque comprese il vero valore della figura del famoso Itrano il Colletta, il quale giustamente scrisse (II, 40) : « Fra Diavolo già assassino , di assassini capo, da assassino oberando , in qualunque fortuna era infame e colpevole. Non si confondano popolo armato e brigantaggio : l’uno difenditore de’ suoi diritti, libertà, indipendenza, opinioni, desiderato governo : l’altro , fazione iniqua, motrice di guerre civili e di pubblico danno ». Egidio Tentori. Adolfo Mangini, F. D. Guerrazzi, Cenni e ricordi ad illustrazione di sei scritti pubblicati in appendice. Livorno, MCMIV, Raf. Giusti Editore, in 16° di pp. VIII-163. Fra i molti — e forse troppi — volumi che hanno veduta la luce nell’occasione del I centenario di F. D. Guerrazzi (1), questo , pubblicato dall’Avv. Mangini di Livorno, è, senza dubbio, uno dei più considerevoli, non tanto per l’intrinseco valore degli scritti, parte editi, parte inediti, quanto per la copia delle notizie con le quali il M., ha creduto opportuno di corredarli. Nessuno, forse, avrebbe potuto fare altrettanto, perchè nessuno possiede tanti documenti su F. Domenico (1) Nel ultimo fascicolo del Giornale Storico della Lett. Ital., è pubblicata una mia rassegna, per quanto mi è stato possibile, ampia, di tutto ciò che fu edito in tale occasione: già un’altra ne ha pubblicata lo Stiavelli nei Numeri 38, 39 (1904) del Fanfidla della Domenica. - 230 - quanti il M., e nessuno conosce la vita privata dell’illustre livornese meglio di lui, figlio di quell'Antonio per lunghi anni collega di studio di F. Domenico e ad esso legato da saldissimi vincoli di amicizia (1). Il primo de’ sei scritti raccolti nell’elegante volume è una prefazione inedita a La Battaglia di Benevento, con quell’andatura umoristica che si trova in larga copia ne La Serpicina, ne L’Asino, ne 11 buco nel muro, umorismo dove per altro (e questo accenno è assai importante perchè pochi altri se ne trovano in tutta l'opera guerrazziana) trapela una certa amarezza per il recente insuccesso de 1 Bianchì e i Neri al teatro Carlo Ludovico di Livorno (2). Contiene questa prefazione una disputa letteraria fra studenti, in uno dei quali il AI., ravvisa C. Bini, in un altro Tommaso Bargellini. In sè lo scritto ha ben poco valore letterario e certo, con quella intonazione, non sarebbe stato adatto a far da proemio alla truce Battaglia: ma, fra molte cose già note e che non era necessario ripetere, il M., ci dà sul primo romanzo del G., qualche curiosa notizia come quella a proposito del contratto stipulato fra l’A. e la Casa libraria Bertani-Antonelli e qualche buon documento, come la risposta data dal R. Censore Padre Suppa sul valore del La Battaglia di Benevento e sulla opportunità di pubblicarla (3). Il secondo dei brani pure inedito, Una passeggiata a Montepulciano, ha valore per il momento in cui fu scritto, il periodo della relegazione del G. in quella città in séguito alla lettura fatta all’Accademia Labronica dell’elogio per Cosimo Del Fante (4). Si tratta di una visita di F. Domenico agli scavi di quelle terre e la narrazione non manca nell’insieme di un certo interesse, quantunque risenta del profondo sconforto a cui l’A. erasi abbandonato per quella piccola persecuzione che al Mazzini pareva cosa da ridere. Il terzo scritto, assai breve, fu dal M., estratto da uno (1) Già il Carducci e il Martini attinsero per gli epistolarii guerraz-ziani alla immensa mole di documenti posseduti dal M.: aneli’ io debbo a lui d’aver potuto pubblicare complete le Note Autobiografiche e unire ad esse il poemetto La Società. Mi è caro qui ringraziarlo di ciò che scrivo nella prefazione a proposito dell’opera mia. (2) Cfr. Guastalla, La vita e le opere di F. D. G. i Rocca S. Casciano, Cappelli 1908) cap. terzo. (3) Io ho pubblicato solo la domanda fatta dal Governo centrale al Padre Suppa in op cit., app. di doc., I. (4) Cfr. Guastalla, op. cit, cap. sesto. — 231 — degli albi del Cav. Castruecio Chelucci Palmerini da Gavi-nana: il G. l’aveva mandato al Tigri, in cambio delle sue Selve e il Tigri l’aveva dato al Chelucci per fregiarne il suo albo. L’argomento dello scritto fornisce al M. occasione di dir brevemente de L’Assedio di Firenze e delle avventure che ne accompagnarono la prima stampa parigina, soggetto che spero sarà fra poco da me compiutamente illustrato con numerosi documenti, tuttavia inesplorati, del R. Archivio di Stato di Firenze. Lo scritto pubblicato dal M., ricorda assai per lo stile L’Assedio di Firenze ed è, in un certo modo, un rifacimento dell' episodio di Farinata e di Dante, con a-spri rimproveri alla codardia dei tempi in cui F. Domenico visse. Affatto trascurabile, o solo di un valore tutto relativo a colui che lo ripubblicò, è lo scritto seguente, Un'ode prosastica dal G. composta nella occasione delle nozze di A. Mangi ni con Cesisa Tonci (1853), e ricorda ne’ pensieri, ma con maggiore artificio, taluni spunti della canzone leopardiana nelle nozze della sorella Paolina. Anche questa breve prosa è preceduta da varie pagine di notizie circa le relazioni corse tra F. D. e l’Avv. Antonio Mangini, le quali speriamo sieno un giorno ampiamente illustrate dall’Avv. Adolfo possessore di 7(iH lettere del G. al padre suo, e sarà bene che venga posta nella sua vera luce questa nobile figura di cittadino integro e di amico fedele. Segue una risposta del G. a Cesare Cantù (1) con quei lamenti che non gli erano insoliti, per la poca riconoscenza degli italiani verso di lui che tanto aveva lottato e sofferto per essi, e con quel giudizio che si trova ripetuto in più luoghi, sulla durata de’ suoi lavori letterari (2). Chiude il volume un racconto — Figlio unico di madre vedova — che già due volte era stato pubblicato (3) e non ■ li Questa lettera, del ’fiH, era già stata pubblicata con quella del Cantù, la qual pure è ricomparsa in questo volume del M., nella Ri-ritla d'Italia del 15 gennaio 1000 e vi aveva premesse alcune parole V. Fiorini. i'ìi « Quanto alla durata delle mie opere, io penso che lo opere durino per bellezza estetica; ma le mie, troppo hanno in sò del politico, o peri1) dureranno come opera un rimedio, fin che dura la malattia..... ». (8) Prima in Foglie autunnali, Ricordi ai giovani. Strenna nazionale italiana pel 1X78, compilata da B. E. Maineri. Milano, 1873: poi in Rivista Italiana, Firenze, 1878, primi 1 numeri. - 332 - aveva bisogno (tanto è meschino lavoro , se ne togli la purezza della lingua) di essere per la terza volta stampato. Appartiene all’ ultimo periodo letterario del G. e richiama alla mente le novelle di F. Dall’ Ongaro (1). Rosolino Guastalla. NECROLOGIE Angusto Franchetti. Ali ! se un bel giorno si levasser quanti Han eor di cittadini, e, insiem raccolti Ci spazzassero via tutti i furfanti, Col gregge lor di timidi e di stolti, Avanti, io ti direi (dolce memoria D’altra età !) presto i pochi saran molti ; Ha, con breve pugnar, certa vittoria Chi guarda in alto, ed in sè fida e vuole..... Oli ! come bello nell' antica gloria, Tornerebbe a brillar d’Italia il sole !..... Se al puro lume suo rivolga il capo Ed apra gli occhi la nascente prole, Li chiuderà contento il nonno Ciapo. Il « nonno Ciapo » ossia l’autore di quelli arguti Consiijli elettorali e Consigli parlamentari, che finiscono colle terzine surriferite, ha chiusi gli occhi nella sua cara Firenze nativa il 22 dello scorso gennaio. Nè il parlar di lui , così degno , in questo Giornale della Liguria esce dalle tradizioni del periodico e degli altri Ligustici dei quali continua la serie, e che han sempre guardato oltre Varo, oltre Magra, oltre Appennino e non superficialmente guardato.... purché ne valesse la pena — Una larga coltura, una acuta intelligenza, un’anima calda d’amore per ogni cosa bella, un’attività multiforme così nei varii campi degli studi letterarii e storici, come della amministrazione del comune e dei sodalizii di beneficenza e d’istruzione, e tutto ciò ben armonizzato, con una impronta schiettamente italiana un’impronta di letterato gentiluomo e galantuomo, son doti non comuni a trovarsi unite, doti che al Franchetti vivo conciliarono la stima e l’affetto di quanti lo conobbero, e fanno certi del posto cli’è serbato al suo nome nella storia delle buone lettere italiane, della vita fiorentina nel secolo decimonono. — Molti 11011 sono che sappiano al Franchetti appunto appartenere quella bella versione della Storia della Grecia dello Smith che fu una delle pubblicazioni scolastiche del Barbera, eli’ ebbero più giusto e meritato favore e nella quale (I) Corredano il volumetto del M., tre ritratti del G., uno del ’35 eseguito in avorio dal fratello Temistocle, uno del ’-18, uno del ’69. - 233 - leggesi una breve avvertenza i'o Storico Italiano, dove lo stesso senso traspare, e mi si lasci ricordare — tanto opportuno torna anche oggi — ohe dopo aver liberamente toccato di certe critiche che s’eran fatte al Bonghi come Ministro della Istruzione: « tuttavia — prosegue — (cosa incredibile e vera!....) non potè essere tacciato nè di arb.trii nè di illeciti favori, e neanche di violazione di leggi e di regolamenti, fatti da lui stesso o dai suoi predecessori ». (4) Cristoforo, fratello del nostro Leopoldo, che nacque a Pontremoli il 20 aprile del 1833, consacrò tutto se stesso all’industria avita, e ne fu vittima, essendo miseramente perito il 31 agosto 1871 per la subita e-splosione del grandioso polverificio da lui fatto costrurre secondo i nuovi sistemi. Cfr. Il eoo. Cristoforo Bocconi, Pontremoli, tipografia di Raffaele Rossetti, 1871, in 4° di pp. 8. cav. Luigi, vissuto dal 179] al 1854, al tempo del Granducato tu gonfaloniere operoso del paese suo e sedè senatore nel Parlamento toscano. Sposò Teresa Fortini, che a una singolare bellezza accoppiò le doti che fanno esempio allo altre le mogli e le madri (1). Leopoldo venne educato nel Collegio di Lucca; a Siena prese la laurea in giurisprudenza, ma la legge non era per lui, nato poeta; e coltivò le lettere, dandosi all’ insegnamento. Il ‘29 decembre del ’61 venne nominato professore supplente della quarta classe ginnasiale nel Collegio di Lucca; promosso provvisorio nel 1864, ebbe il grado di titolare il 14 luglio del 1881. Fu messo a riposo il 30 decembre del ’98. Fin dall’ 11 maggio di quell’anno il Comune di Lucca 1’ a-veva scelto a direttore didattico capo delle sue scuole elementari ; ufficio che tenne fino alla morte con zelo e bravura. E come insegnante di belle lettere la sua scuola dette ottimi frutti. Aveva l’arte d’ insinuarsi nel cuore de’ giovani e d’innamorarli allo studio. Il Collegio poi era per lui ima seconda famiglia; viveva gran parte del giorno in mezzo a’ propri alunni e sentiva per essi tenerezza di padre. Nelle accademie che vi si tenevano per la distribuzione de’ premi, dalla sua facile penna uscivano sempre commediole, dialo-ghetti, poesie da declamarsi dai giovani ; e ne’ divertimenti carnevaleschi era l’anima del loro teatrino, dove recitava egli stesso, ora da generico, ora da caratterista, avendo molta attitudine e passione per 1’ arte drammatica. Si provò anche nel canto , e in varie operette in musica seppe strappare il plauso degli spettatori (2). 11 continuo studio de’ classici affinò la sua vena di poeta, che ebbe facile ed abbondante; specchio fedele di un’indole dolce e affettuosa; d’un carattere aperto e leale; d’un cuore che s’accendeva ad ogni manifestazione del bello e del vero. « Notevoli per gentilezza d’immagini per musicità di colorito e per il verso pieno e sonoro » furono giudicate le sue poesie (3); e con ragione. Quelle die dettò « nei primi anni della giovinezza » le raccolse e offrì al fratello Carlo , « nel lieto giorno » delle sue nozze con Maria Giuliani. Tra quelle poesie sono da segnalarsi il sonetto A Pontremoli, l’altro sonetto che s’intitola Giuseppe Garibaldi al Varignano, e l’ode per il giorno o-nomastico della madre (4); della quale poi pianse la morte con te- (1) Betta P. Teresa Fortini vedova Bocconi, Lucca, dalla tipografìa Giusti, 1886, in 12° di pp. 28. (2) Come scrive un suo biografo, « passò la vita tra la casa e la scuola, tra gli amici ed i libri, fra gli autografi degli uomini illustri, dei quali con spesa non piccola e ricerche diligenti e assidue, era 'riuscito a mettere insieme una collezione copiosa e pregevolissima, corsi-derando come la sua più gradita ricreazione la cura di raccoglierli, ordinarli e illustrarli ». (3) Cfr. Il Progresso, foglio settimanale di Lucca, ann. XXX, n. 2, sabato 11 gennaio 1905. (4) Al mio dilettissimo fratello Carlo Bocconi, Lucca, tipografìa Landi, ld72, in 8° di pp. 16. - 237 - nerezza <1’ affetto (1). De’ suoi versi però una gran parte son d’ occasione, nè sempre riesce facile il rintracciarli (2). Eletto so -io ordinario della R. Accademia Lucchese di scienze, lettere ed arti il 5 marzo del 1880, vi lesse lo studio : Giuseppe Barriti e la Frusta letteraria, rimasto inedito; nonché parecchi saggi della sua traduzione in ottava rima, dell’ fflneide di Virgilio (3), che è la cosa migliore che sia uscita dalla sua penna, ed è a rimpiangere non l’abbia condotta a fine. Negli ultimi anni della vita prese a tradurre, parimente in ottava rima, alcuni tratti de\V Iliade d’Omero; ma senza che li desso alla luce. La Lunigiana, con orgoglio di madre, tra’ figli che la onorarono scrive il nome di Leopoldo Bocconi, poeta dagli affetti gentili, traduttore valente di Virgilio. Giovanni Sforza. SOCIETÀ LIGURE DI STORIA PATRIA CRONACA DELLA SOCIETÀ. Nell’assemblea del 12 marzo 1905 si è proceduto all’elezione del-l’Ufficio di Presidenza e del Consiglio della Società Ligure di Storia Patria. Il Presidente Marchese Cesare Imperiale ha premesso un’ elaborata relazione di quanto ha compiuto il Consiglio Direttivo durante il tempo che è rimasto in ufficio , e la relazione ha riscosso 1’ luia-uime consenso della numerosa assemblea. Appena indetta la votazione per la rinnovazione del Consiglio, (1) Alla venerata memoria della santa donna che'gli fu madre Leopoldo Bocconi, (In fine:) Lucca, tipografia Landi, 1885, in 8° di pp. 8. (2) Alla sva sorella Maddalena nel dì che la disposava il conte Giovanni Noceti di Bagnone, Lucca, tipografia Landi, 1862; in-8.° di pp. 8. — All' Amieo Giovanni Sforza nel dì che impalmava con V egregia donzella Elisa Pierantoni il dott. Leopoldo Bocconi, (In fine:) Lucca, tipografia Giusti, 1869, in 8° di pp.4. — Consigli ai giovani studenti, versi del dott. Leopoldo Bocconi letti nella solenne distribuzione dei premi agli alunni del R. Collegio e Ginnasio di Lucca il 12 decembre 1880, Lucca, tipografia Landi, 1880, in 8° di pp. 8. (8) Saggio di traduzione deli’'Eneide di Virgilio in ottava rima, del professore Leopoldo Bocconi socio della R. Accademia Lucchese, Lucca, tipografia Giusti, 1883, in 8° di pp. 36. (Estratto dagli Atti della R. Accademia Lucchese di scienze, lettere ed arti, tom. XXII, pp. 163-195). — Il secondo libro dell'Eneide di Virgilio, tradotto in ottave dal dott. prof. Leopoldo Bocconi, socio ordinario , Lucca , tipografia Giusti, 1895 , in 8° di pp. 52. (Estratto dagli Atti suddetti, tom. XXVII, pp. 1-51). — Il sesto libro dell’Eneide di Virgilio, tradotte in ottave dal dott. prof. Leopoldo Bocconi, Lucca, tipografia Giusti, 1902, in 8° di pp. 60. (Estratto dagli Atti ricordati, tom. XXXII). — 238 — 1’ assemblea, dietro proposta del March. Antonio, Carrega ha rieletto per acclamazione a Presidente il March. Cesare Imperiale. Si è quindi proceduto per via di scrutinio segreto all’elezione dei Vice-Presidenti e dei rimanenti membri del Consiglio con il risultato seguente : Vice-Presidenti : Barrili comm. prof. Anton Giulio, Staglieno march, cav. uff. Marcello. Consiglieri: Balbi avv. Giulio, Beretta sac. prof. cav. Luigi, Casaketto avv. Pier Francesco , Cervetto cav. Luigi Augusto, Costa comm. Francesco Domenico , Ferretto Arturo , Frisoni prof. cav. Gaetano , Moresco avv. Mattia . Peragallo sac. cav. Prospero, Poggi avv. cav. Gaetano, Spinola march. Paolo, Staf-fetti conte prof. dott. Luigi. Nella successiva adunanza consigliare del 16 marzo, si sono effettuate le seguenti delegazioni ai vari servizi : alla segreteria, Moresco , predetto — alla contabilità, Spinola , predetto — alla tesoreria, Costa, predetto — alla biblioteca, Staffetti, predetto. * * * S. E. il Ministro della E. Marina, con sua lettera del 13 dicembre 1904 ha proposto alla Società Ligure di compilare, in unione alle consorelle di Napoli, Venezia e Palermo, una monografìa storica sui porti dell’antichità nella penisola italiana, da offrirsi in omaggio ai membri del X Congresso Internazionale di Navigazione che avrà luogo a Milano nel prossimo settembre. Il Consiglio direttivo radunatosi appositamente inviava a S. E. nn voto di plauso per la geniale iniziativa, e deliberava di assumersi l’impegno di compilare la monografia per quanto riguardava i porti dell’antica Liguria. Conseguentemente costituiva un Comitato centrale di redazione, composto del March. Cesare Imperiale, del Comm. A. G. Barrili, del March. Marcello Staglieno, dell’ Avv. Giulio Balbi, del March. Paolo Spinola, del Conte Prof. Luigi Staffetti e dell’Avv. Mattia Moresco. Contemporaneam erte era fatto invito al Cap. di vascello C. Boet, direttore dell’Ufficio Idrografico della E. Marina, di partecipare al Comitato, e l’egregio Comandante si affrettava ad aderire facendosi rappresentare dal tenente di vascello Domenico Marchini. Il Comm. prof. A. G. Barrili assumeva la direzione scientifica della compilazione, alla quale sarà premessa una sua prefazione, e il Comitato diramava speciale invito ad alcuni egregi Soci corrispondenti, di assumersi, ciascuno per una parte determinata, il lavoro di redazione. E a questo proposito la Società è ben lieta di poter constatare che essi risposero volenterosi alla richiesta, offrendo con studio sollecito la preziosa opera loro, affinchè la memoria riuscisse degna dell’intento. Essi sono i signori, Comm. prof. Gerolamo Eossi, Comm. prof. Vittorio Poggi, Cav. Luigi Augusto Cervetto , Arturo Ferretto, Dott. Ubaldo Mazzini e l’Avv. Bernardo Mattiauda. # * * - 2:39 — L’ufficio di Presidenza della Società fu avvisato in via ufficiosa, che nel prossimo settembre avrà luogo a Tortona un Congresso Storico. Furono già prese le prime disposizioni perchè la Società vi sia degnamente rappresentata. Frattanto s’invitano quei Soci che intendessero partecipare ai lavori del Congresso di darne notizia alla Presidenza. * * * La Società deve deplorare amaramente la perdita dei Soci : Ingegnere Francesco Maria Parodi, Avv. A. Emilio Dellepiane , Avvocato Giuseppe Ottavio Torre, Marchese Giulio Cattaneo Della Volta, Professor Cav. Giovanni Denegri, Ing. Prof. Timoteo Rafa-nelli, Comm. Avv. Leone Fontana, Senatore del Pegno , alle famiglie dei quali turono inviate sincere espressioni di condoglianza. La Società è stata pure chiamata a presentare sentimenti di cordoglio al suo amatissimo Presidente Marchese Cesare Imperiale, duramente colpito dalla perdita di quell’ egregia Gentildonna che tu la Madre sua. * * * Le file dei Soci si sono accresciute dei Signori: Balbi Avv. Celso — Bellotti Prof. Silvio — Bozzo Avv. Antonio — Campora Cav. Bartolomeo , Cancelliere di Corte d’Appello — Carbone Ingegnere Prof. Dario — Cortese Pippo — Curio Marchese Faustino — Ferrari Avv. Celso — Gambaro Avv. Pierino — Lanza Avv. Francesco— Mannucci Prof. dott. Francesco Luigi — Messea Nob. Federico — Oxilia Avv. Federico — Poggi Prof. Francesco (e non G. B. come fu stampato nella Cronaca del 1904 [Cfr. Giornale SI. c Leti, della Liguria. Anno V, fase. 1-2, p. 80]) — Ponzone Dott. Amedeo — Porro Prof. Francesco — Ramella Avv. Prof. Nino — Saporiti Mons. Can. Giovanni. * * * Alla Biblioteca sociale fu fatto cortese dono delle segueuti pubblicazioni : Boxano L., Questa E., Rovereto G., Guida delle Alpi Apuane, Genova, Sez. Lig. d. Club Alpino, 1905, 16° p. X. 370 c. molte tav. e 1 carta. — Govone Uberto. Il Generale Giuseppe Govone. Frammenti di Memorie. Torino. Francesco Casanova (Tip. V. Bona), 1902, 4° p. XII, 521. — Messea Federico. Le Convenzioni Cesaree col Finale Ligure. Godici e provvedimenti politici finaresi dal 1252 al 1733. Note e curiosità storiche. Genova,, tip. Operaia, 1904, 8° p. 208. — Oxilia Giuseppe Ugo. La Campagna Toscana del 1S48 in Lombardia. Firenze, Bernardo Seeber (Savona, tip. D. Bertolotto e C.), 1904, 8° p. 404. — Peragallo Prospero. Due episodi del Poema « 1 Lusiadi di Camòes » ed altre Poesie straniere colla traduzione in verso italiano. Genova, tip. Ved. Papini e Figli 1905, 8° p. 63. 240 — — Ptntus Sebastiano. Sardinia Sacra. Voi. I. Provincia Ecclesiastica «li Cagliali. Iglesias, tip. Canelles 1904, 8“- p. IX, 139. — Tar-ducci Francesco. Vita di S. Francesco d’Assisi. Mantova, G. Mon-dovì, 1904, 8° p. XX, 433. Il Socio Corrispondente Xavier da Chinila, oltre alla splendida sua opera bibliografica: Impressòes Deslandesianas (Lisboa, Tinpr. Nacional, 1891-96, 8° p. XV-1228) inviò in omaggio altre suo pubblicazioni di minore importanza; così pure inviarono pregevoli lavori i Soci Cav. Nob. Giovanni Sforza, Dott. Francesco Luigi Man-mu-ci, Dott. Ubaldo Mazzini, Cav. Prof. Achille Neri, il quale offrì alla Biblioteca una scelta raccolta di opere di storia locale e alcuni pregevoli manoscritti. Tra gli acquisti sono più notevoli : Abba Giuseppe Cesare. Da Quarto al Volturno. Xoterelle d’uno dei Mille. Bologna, Ditta Nicola Zanichelli, 1899, 4a ed., 16° p. 302. — La Storia dei Mille. Firenze, E. Bemporad e F., 1904, 4° p. VIII-212. — La Vita di Nino Bixio. Torino-Eoma, Casa ed. naz. Eonx e Viarengo , 1905, 16° p. 206. — Batti.'Tkixa Antonio. La Repubblica di Venezia dalle sue origini alla sua caduta. Undici conferenze tenute all’Ateneo Veneto nella primavera del 1896. Bologna, Ditta Nicola Zanichelli, 1897, 16° p. VI-399. — Bigazzi Pasq. Aug. Firenze e contorni. Manuale bibliografico e bibliobiografico delle principali opere e scritture sulla storia , i monumenti, le arti, le istituzioni, le famiglie, gli uomini illustri, ecc., della citlà e contorni, Firenze, tip. Ciardelli 1893, ed. di 300 esemplari, 4°, p. 359. — Carutti Domenico. Storia della Corte di Savoia durante la involuzione e VImpero Francese. Torino , L. Boux e C., 1892, 8° p. IV-516; 466. — Chiala Luigi. Pagine di Storia contemporanea. Torino, L. Eoux e C., 1892, 8° p. VII-298; VII-350; 377. — Pagine di Storia contemporanea. Torino, L. Eoux , Frassati e C., 1898, 8° p. VII-736. — Formentini Marco. Il Ducato di Milano. Sludi storici documentati. Milano, G. Brigola (tip. G. Bernar-doni), 1877, 8° gr. p. XI-749. — Frizzoni Gustavo. Arte Italiana del Rinascimento. Saggi critici. Milano, Fratelli Dumolard (tip. Lombardi), 1891, 8° p. XVII-393, tav. 30. — Goni Agostino. Storia della Rivoluzione Italiana durante il periodo delle Riforme (1846-14 Marzo 1848). Firenze, G. Barbera , 1897, 16° j>. VIII - 520. ■— Livi Giovanni. La Corsica e Cosimo I De’ Medici. Studio storico. Firenze, tip. Bencini, 1885, 8° p. XIII-413. — Magenta Carlo. La Certosa di Pavia. Milano, Fratelli Bocca. (Pavia, tip. Fratelli Fusi), 1897, I». Ixxxiij - 489, tavv. XXX. — Eossi Agostino. Francesco Guicciardini e il Governo fiorentino dal 1.527 al 1540. Con nuovi documenti. Bologna, Ditta Nicola Zanichelli, 1896-99, 18° p. XI-300 ; 350. — Seignobos Cii. Histoire politiqtie cie VEurope Contemporaine. Evolu-tion des partis et des formes politiques. 1814-1896. Paris, Armand Colin ot C.ie (Cocclommiers, impr. Brodard), 1899, 4° p. XII-814. — Waixon H. Jeanne (V A re. Paris, Librairie Hachette et C.ie (impr. LaJonx tils et Gnilliot), 1879, V ed., in 18° p. 458, 450. La Società acquistò pure la Prima Serie AcWArchivio Storiai I-taliano, con le Appendici; e le sottoindicate monografie della Storia Universale illustrala a cura di Guglielmo Onclcen (Edizione italiana della Casa L. Vallardi) : Bruckner Alessandro, Pietro il Grande; IIi glkk Bernardo. Storia delle Crociate; Philippson Martino. Il Secolo di Luigi Decimoquarto ; Euge Sophus. Storia dell’epoca delle Scoperte. Giovanni Da Pozzo amministratore responsabile. AVVERTENZE 1) Il giornale si pubblica di regola in fascicoli bimestrali di 80 pagine ciascuno. 2) Per ciò che riguarda la Direzione rivolgersi in Genova al Prof. Achille Neri - Corso Mentana, 43-12. 3) Per quanto concerne l’Amministrazione, esclusivamente al-l’Amministrazione del periodico - Spezia. 4) Il prezzo d’associazione per lo Stato è di L. 10 annue. — Per l'estero franchi 11. La Direzione concede ai propri collaboratori 25 copie di estratti dei loro scritti originali. Coloro che desiderassero un maggiore numero di copie, potranno rivolgersi alla Tipografìa della Gioventù - Via Corsica, N. 2 (Genova) che ha fissato i prezzi seguenti: Da 1 a 8 pagine Da 1 a 16 pagine Copie 50 ... . L. 6 Copie 50 . . . . L. 10 In questi prezzi si comprendono le spese della copertina colorata e della legatura, nonché di porto a domicilio degli Autori. AI SIGNORI COLLABORATORI 100 .... „ 10 100 successive „ 6 „ 100 . . . . „ 15 „ 100 successive „ 8 Prezzo del presente fascicolo L. 3 PUBBLICAZIONI RICEVUTE H. Hauvette. Le chevalier Marin et la Préciosité a propos d’un ouvrage récent. Bordeaux, Feret, 1905. Angelo Somma riva. La lirica pierdareggiante in Italia da Orazio a Chiabrera. Genova, Tip. della Gioventù, 1904. Alberto Lombroso. Perché Domenico Favini non andò in Francia con il Garibaldi nel 70. Documenti inediti. Roma, Centenari, 1905. Una breve relazione sulla Corte di Francia nel 1682 e alcune spigolature sidla polizia estera degli Inquisitori di Venezia raccolte da Carlo Contessa. Torino, Artigianelli, 1904. Gaetano Cogo. Intorno alla Istoria civile di Pietro Giannone. Osservazioni a proposito di una pubblicazione recente. Venezia, Visentin i, 1904. . Paolo Accame. Notizie e documenti inediti sui Templari e Gerosolimitani in Liguria. Finalborgo, Rebbaglietti, 1902. Albano Sorbelli. Il corredo di ima sposa bolognese nel secolo XVI. Bologna, Zamorani e Albertazzi, 1904. Vita di Pietro Giannone scritta da lui medesimo per la prima volta integralmente pubblicata con note, appendice ed un copioso indice da Fausto Nicolini. Napoli, Pierro, 1904. Alfredo Panzini. Dizionario moderno. Supplemento ai dizionari italiani. Milano, Hoepli, 1905. Alfredo Segré. La giustizia in Pisa dal cinquecento cd settecento incluso. Pisa, Mariotti, 1905. L. G. Pelissier. Cent heures à Crcicovie. Rome, Forzani, 1905. ('irò Ferrari. Le visite ai confini del territorio padovano prima della peste del 1630-31. Padova, Prandi, 1905. Orazio M. Premoli. Vita illustrata di Sanf Alessandro Sauli barnabita vescovo prima di Aleria poi di Pavia. Milano, Bertarelli, 1904. La Geografia di Dante secondo Edoardo Moore. traduzione e riassunto di E. Sanesi e G. Boffito. Firenze, alle Quercie, 1905. Alfredo Comandini. L’Italia nei cento anni del secolo XIX. Milano, Vallardi, (in cont.); fase. 43 45. Giuseppe Giorcelli. Una zecca piemontese medioevale sconosciuta. Milano, Cogliati. Due assedi del Castello di Casale 1740-1746 descritti dal canonico casalese Giuseppe Antonio De-Morani ed illustrati da Giuseppe Giorcelli. Alessandria, Piccone, 1904. Lettere di piemontesi illustri. Pisa, Mariotti, 1905. Alessandro d’ Ancona. Esilio e Carcerazione di Pietro Giordani. Nuovi documenti da archivi e biblioteche■ Roma, Nuova Antologia, 1905. Ferdinando Gabotto. Del reggimento e dei rivolgimenti interni di Tortona dal 1156 al 1213. Tortona, Rossi, 1905. Giornale storico E LETTERARIO DELLA pubblicato sotto gli auspici della Società Liguke di Storia Pateia F. L. Mannueci : Delle Società genovesi d’ arti e mestieri durante il secolo XIII, pag. 241. — L. Staffetti: Inventario di beni e robe dell’opera di S. Martino in Pietrasanta (cont. e fin e), pag. 305. — U. Mazzini: Alcune opere di Benedetto Buglioni in Lunigiana, par/. 322. — VARIETÀ: G. Roberti: L ar--citesoriere Le Bnm a Genova, pag. 336. — BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO: Vi si parla di: Francesco Petrarca e la Lombardia, Della Torre, Rillosi (A. JJ.), pag. 339. — ANNUNZI ANALITICI: Vi si parla di A. Lorenzoni, Strenna dei Rachitici, P. Costa, T. Gnoli, I. B. Supino, U. Assereto, O. Bacci, V. Cian, M. Aglietti, A. Pellegrini, F. Z. Molfino, E. Rocchi, A. Panzini, A. Pellegrini, pag. 343. — SPIGOLATURE E NOTIZIE, pag. 354. — APPUNTI DI BIBLIOGRAFIA LIGURE, pag. 357. LIGURIA DIRETTO DA A O XJL I Iu .E N E lì I E DA UBALDO MAZZINI ANNO VI Fascicolo 7-8-9 1905 Luglio-Agosto-Settembre SOMMARIO. DIREZIONE Genova - Corso Mentana 43-12 AMMINISTRAZIONE Genova - Tip. della Gioventù La Spezia - Amministrazione del Giornale L * - ■ _ - 241 — DELLE SOCIETÀ GENOVESI D’ARTI E MESTIERI DURANTE IL SECOLO XIII (CON DOCUMENTI e STATUTI INEDITI) Prendendo a dimostrare in un mio recente lavoro (1), l’importanza politica, oltreché religiosa, in Genova, della congregazione di santa Caterina, ove l’anonimo cantore delle lotte interne e delle esterne vittorie cittadine solea chiamare attorno a sé, nei momenti d’ozio, il suo popolo laborioso, ebbi occasione d’accennare alla scarsa esistenza delle corporazioni d’ arti, durante il sec. XIII, in quella città, causata, come supponevo, dalla maggior attività commerciale piuttosto che industriale delle varie classi degli abitanti ; aggiungevo, in nota, e non a torto, che solo dei battifogli e dei fabbri d ’oro e d’ argento eran giunti sino a noi statuti così antichi (2). Del resto il fatto mi pareva e mi risultava li per lì tanto ovvio dallo studio che andavo producendo dell’ambiente storico di quel tempo , che non pensai neppure a suffragare con 1’ opinione d’altri la mia: che se ciò avessi creduto opportuno, non mi sarebbe mancata l’eccellente compagnia del La-stig (3) e del Caro (4), profondi conoscitori entrambi delle cose nostre. Sennonché qualche notizia di consoli d’ arti, spigolata qua e là nell’Archivio di Stato genovese, men- ci) L'Anonimo Genovese e la sua raccolta di rime, Genova, a cura del Municipio, (Tip. Pagano), 1904, p. 53. (2) Furono pubblicati dal Yarni, Appunti artistici sopra Levanto, Genova, 1870, pp. 57 e 125. (3) In Entwicldungswege und Quellen des Handelsrechts, Stuttgart, 1877, a p. 79: « Ein starlces machtiges Gilde und Zunftweses.... Genua niemals besessen hat ». (4) Cfr. Veifassung Genuas zur Zeit des Podestats, Strassburg, 1891, pagina 20; e Genua und die Miichte am mittelmeer, voi. I, Halle, 1895, p. 10, dove: « Es war eben nicht die industrielle Thatigkeit der Handwer, die in dem Erwerbsleben Genuas in ester Linie stand ». Giorn. St. e Lclt. della Liguria. 17 - 242 - tre volgevo l’intelletto a nuove indagini, e alcune riflessioni suggeritemi da certi documenti che ebbero , posso dire , la compiacenza di cadérmi sotto mano (1) e che venivano a dar buona ragione al Serra, propenso nell o-pera sua ed attribuire, ma purtroppo senza uso di convincenti prove (2), un valore non trascurabile alle prime associazioni d’arti e mestieri di Genova, m’indussero ad abbandonare temporaneamente le mie predilette ricerche letterarie, per dilucidare un punto della nostra storia nel quale vengono a convergere numerosissime quistioni non ancora risolte del tutto. Quando s’introducessero le arti in Genova, sarebbe vano domandarci. Nessuno vorrà, credere che una parte almeno degli uomini formicolanti fra il nostro bel golfo e l’Appennino , non lavorasse e non provvedesse per sè e per altri, anche nel più lontano medioevo, armi, vestiti, abitazioni, navi ; e per vero male argomentano coloro che col solito metodo superficiale, toccando delle industrie e delle origini loro in qualche ligure contrada, si fermano al ricordo di un fabbro ferraio del secolo XI o di un maestro d' ascia del XII, e si gloriano di poter risalire cosi l’erta faticosa del passato. Un buon sussidio invece per sostenere 1’ opinione della loro molteplicità fin dai secoli XI e XII, ci sembra esser fornito dall’onomastica ligure, e specialmente da quella parte di tale scienza che riguarda i cognomi. “ L’ uso dei casati, cominciato in Italia fin dal secolo X „, scrive il Muratori (3), “ invalse adagio adagio. La bassa gente ne fece di meno per un pezzo, tantoché perfino nel secolo XV molti d’umile stato non avevano cognome alcuno, ma portavano per distintivo la patria o l’arte Genova, che fu una delle prime (1) Sian rese ancor qui pubbliche grazie al sig. Ferretto che a questi miei documenti volle aggiungere l’indicazione di altri a lui noti e contribuire poi in ogni modo alla migliore esumazione di tutti. (2) Cfr. il discorso primo nel to. IV della sua Storia dell’antica Liguria e di Genova, ed. di Capolago, 1835; e quanto dice su di lui E. Bensa. I commercianti e le corporazioni d’arti nell’ antica legislazione genovese , cenni, Genova, Sambolino. 1884, p. 8. (3) Antiquitates Italicae, diss. XLII. — 243 - città ad ammettere il casato (1), sia perchè maggiore vi si sentisse il bisogno di tale innovazione a causa del continuo ostacolo delle omonimie nei contratti commerciali , sia perchè la suggerisse quell’ istinto pratico che mai non venne meno ai suoi figli, contò assai presto numerosissimi cognomi presi appunto dall’ arte professata, i quali si trovan già nel secolo XIII come nomi di famiglia senza alcun riferimento all’ arte o al mestiere di coloro che una data famiglia componevano ; tant’ è che in alcuni dei nostri documenti, lunghe filze di cognomi ricordanti arti diverse, sono attribuiti a persone esercitanti un’arte sola. E della derivazione diretta di tali co-gnoininazioni dalle arti e dai mestieri, nonché dell’ inalterato loro significato originario, mi riesce trovare sicura traccia anche in questo, che in Genova non si mutarono mai in i, alla fine, essi cognomi, ossia non si pluralizzarono e si fecero succedere, come avvenne in quasi tutte le altre città dell’ Italia settentrionale e centrale, al nome, a mo’ d’apposizione, per tutto il secolo XIII almeno, continuandosi bensì a chiamare u lanerius, cultellerius, pel-liparius anche chi si sa con certezza non essere affatto lanaiuolo, coltellinaio, pellicciaio, ma appartenere a famiglie così contraddistinte. Epperò giustamente il Gaudenzi li ritiene, in Genova “ appellazioni individuali comuni a tutti i membri di una famiglia „ (2). Il rintracciarli quindi nelle carte più antiche del secolo XI e del XII (3), quali appellativi cognominali di chi l’arte indicata dal cognome proprio esercitava o quali cognomi estesi già ai membri (1) Cfr. Cibkario, Della Economia politica del medio evo, to. I, Torino 1871, p. 70. (2) A. Gaudenzi, Sulla storia del cognome a Bologna nel secolo XIII. Saggio di uno studio comparativo sul nome di famiglia in Italia nel medio evo e nell'età romana, in Bullett. dell’Ist. Stor. Ital., n. 19, p. 15 e segg., e p. 25. Di siffatti nomi derivati dall’arte restano esempi a tutt’oggi, in Genova; si veda, ad esempio, il comunissimo Banchero da lancherius, cambiatore. (3) Cfr. gl’indici dei due registri della curia arcivescovile di Genova, compilati dal Belgrano nel voi. II, P. I, e nel XVIII degli Atti della Soc. Lig. di St. P.; e il notulario di Giovanni Scriba, edito dal Vallauri in M. II. P., Chartarum, to. II. — 244 - di una famiglia discendente dall’artefice, non solo prova 1’ esistenza contemporanea dell’ arte stessa, ma ce la fa presupporre il più delle volte preesistente. Peraltro, se resta così dimostrato il buon numero delle arti in Genova, prima del secolo XIII, non altrettanto può affermarsi riguardo alle associazioni degli artefici, giacché queste non compaiono che assai tardi nei documenti, solo cioè in pieno secolo XIII, e senza lasciar luogo ad ammettere positivamente , per la più parte di esse, un’antichità maggiore, la quale poi sarebbe pericolosissimo , come qualcuno ha notato (1), dedurre semplice-mente da indicazioni di individui esercenti speciali industrie. Per mio conto dunque, dico subito, e proverò più innanzi, che nel secolo XII corporazioni d’arti in Genova non esistevano (2). S’affaccia allora più che mai viva la questione dell’origine, che non si potrà certo avvicinare a quella studiata e trovata per le corporazioni d’ altre città dove il popolo cominciò assai presto ad associarsi secondo i vari mestieri. E sarà subito da eliminare, per il caso nostro, l’ipotesi attraente che fino a pochi anni fa da tutti gli storici più o meno reputati, italiani e stranieri, si produceva, e secondo la quale non si sarebbe dovuto vedere in queste società del basso medioevo che uno strascico dei collegi romani d’ artefici. La critica moderna ha in ogni modo sdegnosamente rifiutato in tesi generale tale comodissima affermazione, e s’è affrettata a spiegare diversamente quei pochi fatti che dall’oscurità dei tempi si toglievano e si recavano a sostegno di essa (3). (1) Ebeestadt, Magisterium und Fraternitas, Leipsig, 1897, p. 4; e Solmi, Le associazioni in Italia avanti le origini del Comune , Modena 1898, pagina 47. (2) Asserisce il Podestà (Il trattato sui coralli di Pietro Balzano. Accenni critici, Genova, Sordomuti, 1880, p. 7), di aver trovato che fin dal 1154 i pescatori corallari di Portofìno, uniti in consorzio , innalzassero un tempio al Santo patrono della Liguria. Ma qui non è probabilmente da riconoscere una corporazione artigiana. Del resto la notizia data così, senza la fonte che la giustifichi, non ha troppo valore. (3) Ved. Gaudenzi, Le società delle arti in Bologna nel secolo XIII, i loro statuti e le loro matricole, in Bull. dell’Ist. Stor. II. , n. 21, Roma, 1899, p. 7 e segg. — 245 — Vi fu chi, in una sintetica monografia intorno a tutte le fratellanze operaie medioevali, pur non tralasciando di attribuire un certo valore al supposto e non provato influsso delle antiche associazioni romane attraverso a tutti i secoli anteriori al mille, conchiuse sostenendo che lo sviluppo delle unioni artigiane deve considerarsi come intimamente connesso allo sviluppo dell’ indipendenza e libertà comunali, e che questi due avvenimenti storici e sociali vengono ad essere due risultati diversi di una causa, quasi a dire due fenomeni della medesima legge e di una medesima forza (1): nel che certo un po’ di vero esiste, dacché le associazioni operaie, così come le vediamo formarsi nei loro primordi, non sarebbero assolutamente concepibili se non in quell’ atmosfera rinnovata che avvolge le città italiane dopo lo stabilimento dei comuni (2). Ma il ritenere 1’ origine delle corporazioni d’arti e mestieri un fenomeno d’associazione parallelo a quello dei comuni, è come un attribuire ad esse un’ importanza che effettivamente non ebbero e un’ antichità, almeno in germe, che i dati storici di cui possiamo disporre, e particolarmente rispetto alle nostre, vengono recisamente a negare. Ciò che in generale potrebbe trarre in inganno chi si sentisse proclive a siffatta opinione, generata anche da preconcetti dei quali si fa troppo a-buso nelle nostre sistematiche partizioni della storia italiana , sarebbe la credenza che le corporazioni abbiano la loro origine causale “ nella mutua difesa dei vinti e degli oppressi „ e che qualunque fenomeno d’associazione abbia avuto un’origine insieme politica ed economica. Nè si riterrà buon modo d’argomentare quello di riferire a tutte le città dove sorsero in tempi antichi associazioni artigiane, le stesse osservazioni che avrebbero buon posto nello studio delle turbolenze popolari di poche città, (1) Delle fratellanze artigiane in Italia, contributo alla storia giuridica ed economica d'Italia di V. E. Orlando, Firenze, Pellas, 18S4, p. 34. (2) Troppo oltre però procede il Say (Coars d’Economie politique, Bruxelles, 1840, p. 255), dicendole fondate in conseguenza del sorgere dei liberi comuni. — 246 — ad esempio di Firenze , nelle quali le corporazioni presero prestissimo il sopravvento sulle classi aristocratiche. Il fatto storico della partecipazione loro alla politica, se è un effetto innegabile del loro grande sviluppo, è però soltanto un episodio della loro vita. L’origine loro è unicamente economica , ma in modo ben diverso da quello ' che oggi noi ci aspetteremmo di scoprire; giacché mentre 'vediamo che le moderne nostre fratellanze e leghe operaie cercano soltanto un vantaggio immediato, le antiche, ove si rifletta attentamente sui loro statuti, quasi quasi • si trovano inasprire, per il vantaggio di tutta l’arte, le condizioni dei lavoratori, obbligandoli il più delle volte a dei veri sacrifici, combattendo negli scambi la concorrenza e punendo , nella fabbricazione dei prodotti industriali, la contraffazione. Ma un’altra prova che mal può riferirsi alle nostre società quest’ opinione, emerge facilmente anche da un’indagine sommaria della condizione degli operai in Genova, prima di quel secolo XIII in cui li vediamo costituirsi in corpi autonomi. La Compagna genovese dapprima abbracciava infatti tutti quanti, colpiva tutti allo stesso modo, obbligava tutti agli stessi o-neri, fossero o non fossero artigiani (1). Ma, poiché anche con il cattivo esercizio delle arti si poteva danneggiarla nella sua compagine, ecco che essa, prevedendo il caso, imponeva per giuramento che nessun sarto commettesse fraudolenza nei suoi lavori, che nessun maestro d’ascia o noleggiatore o appaltatore costruisse o facesse costruire navi in danno dei commerci e della politica patria, che nessuno dei fabbricanti di materiali da costruzione preparasse merce di scarto, che nessuno di tutti costoro infine si unisse con altri in congiura contro lo Stato (2); e gli artigiani qui nominati sono quelli più ne- (1) Lastig, op. cit., p. 29. (2) Nel Breve pubblicato dall’Olivieri , in Atti d. Soc. Liq. di St. P., voi. I, p. 191 e segg : « Ego parmentarius non faciam nec fieri permittam ullam fraudem vel lesionem in opere alicuius cui operari debeam. Ego non faciam neque facere faciam galeam neque sagittam.....nisi pro communi utilitate.... Ego non aborrabo neque aborrare faciam pannum — 247 - cessari e sotto ai quali potevano comprendersi gli altri affini. Come si vede essi sono messi alla pari con tutti i genovesi appartenenti ad altre classi sociali; e qui sta appunto una delle ragioni per le quali nè in Genova nè nella Liguria, dove le disposizioni della Compagna emigravano identiche (1), si sentisse il bisogno di speciali corporazioni operaie. E circostanze consimili vediamo manifestarsi ancora più tardi, nel secolo XIII, in Sardedegna, dove ugualmente il u Breve Kallaretanum „ doveva giurarsi, oltreché dai mercanti, anche dai custori o tagliatori di panno (2), e a Savona, dove gli “ Statuta antiquissima „ riferiscono speciali giuramenti imposti dal Comune ai muratori (3). Non solo , ma nella vita industriale più antica di Genova si trovano, sebben raramente, esempi di società contratte da lavoratori con capitalisti, questi mettendovi la maggior parte del denaro e quelli, con un minor contributo alle spese , la mano d’ opera e la propria abilità (4) ; le quali relazioni cadevano tutte infra nostram jurisdicionem et si scivero....... consulibus communis manifestabo infra duos dies..... Ego non abradorerius, stationarius , pelli- sarius..... non faciam nec fieri faciam aliquam coniurationem vel ras- sam per fidem vel juramentum alio quolibet inde super mercibus..... a- liquarum januensium et si feci bona fide destruam vel cassabo eam ». Ved. anclie il giuramento dei Calcinarolii, del 1130, (Liber lurium Reip• Gen., in M. Id. P., to. I, coi. 36): « Ab hac die in antea in omnibus cal- cinariis quas facebo (sic)..... in calcina illa quam dabo..... aquam uUam non ponam..... eam dabo et vendam sine aqua sicut exierit de fornello». (1) Il giuramento dei calcinarolii vien pronunciato anche a Venti-miglia nel 1131 (ved. Poch, Miscellanea di Storia Ligure, Ms. della Bibl. civica di Genova, Dbis 1-2-20, voi. IV, reg. VII, p. 43). Per la partecipazione di questa città alla Compagna genovese, Dbsdioni, Sul frammento di Breve genovese scoperto a Nizza, in Atti della Soc. Lig. di St. 1., voi. I, p. 138; e Caro, Die Verfassung ecc., pagg. 11, 13, 73,77, e note relative. (2) Cfr. Amat di San Filippo, Indagini e studi sulla storia economica della Sardegna, in Miscellanea di Stor. Ital., to. VIII, XXXIX della racc., Torino 1903, p. 360. (3) « De Sacramento muratorum. Item faciam iurare omnes muratores Saone et omnes alios muratores qui murare voluerint in Saona,.... quod non adstringent nec deteriorabunt vias aliquas etc..... » (A. Bruno, Capitoli dell’Arte dei muratori, in Atti e Memorie della Soc. Stor. Savonese, voi. II, Savona, 1889-90, p. 380). (4) Uno di questi esempi offre il cit. notulario di Giovanni Scriba ; ivi (col 459) si trova che un « iterius magister de antelamo et guido ma- - 248 - sotto le norme emanate poi dal Consolato dei Placiti. Gli artigiani possono dirsi dunque, nel secolo XI e nel XII, compresi tutti nello stesso sistema d’organizzazione politico-sociale che vigeva in Genova per le classi diverse dalla loro. Per la qual cosa, se è davvero troppo ardita in tesi generale, ossia riguardo a tutte le città italiche, l’ipotesi suggestiva che vorrebbe sollevare l’origine delle corporazioni artigiane fino a quella dei comuni e farle entrambe dipendere da quel principio d’associazione che trionfa dalle Alpi allo Ionio, in virtù di quelle leggi imperscrutabili che accomunano gli uomini d’ una data età e d’ un dato territorio in una sola corrente di pensiero, d’aspirazione e d’azione, tanto più tale dovrà essa parere a noi, per il caso nostro , dal momento che nessun indizio può raccogliersi di una qualunque separazione della vita industriale da quella degli altri cittadini. Ultimamente il Gaudenzi, studiando un’importantissima raccolta di statuti e matricole d’arti bolognesi, tutta del secolo XIII, affermò che le varie unioni d’arti e mestieri s’eran formate a somiglianza delle società dei cambiatori o banchieri e dei mercanti, le quali le avean di buon tratto precedute. Riguardo poi alla comparsa di queste, toglieva ogni difficoltà rilevando la necessità che parecchie persone si riunissero a speculare sul cambio delle monete mentre forti somme di danaro affluivano in Italia, e si volgessero compatti ai traffici dei panni che mancavano e bisognava trasportare di lontano (1). La quistione per l’illustre scrittore riusciva cosi chiaramente risolta e e convalidata altresì dall’ efficace concorso degli scolari in una città debitrice agli stranieri di gran parte della sua ricchezza. Invece tali argomenti vengono purtroppo a mancarci riguardo a Genova, per la ben semplice ra- gister de antelamo contraxerunt societatem in quam iterius libras decem et guido contulit libras triginta: ex his usque quinque annos debet facere predictus guido calcinarias bona fide sine fraude et de profiquo quod in eis Deus dederit quartam habere debet iterius et tres partes prefatus guido ». (1) Le società ecc., p. 12 e segg. - 249 — gione che quivi non esistettero mai vere corporazioni di banchieri e di mercanti, sulle quali sarebbe poi stato ovvio credere modellate le altre. Non è già che pure in Genova difettassero quelle forti somme di denaro che affluivano altrove, come ad esempio a Bologna, a Firenze, a Siena, a Venezia, a Piacenza. Se Firenze, che più è glorificata per questo rispetto, muoveva denaro in tutti i mercati del mondo, Genova aveva le sue fiorentissime colonie: se Firenze ebbe 1’ amministrazione e 1’ appalto dei beni della Chiesa romana, Genova ebbe attivissime relazioni di denaro con Luigi IX, per la spedizione delle Crociate ; e un dotto straniero non si peritò d’ affermare, dopo di aver diligentemente enumerato le gravi somme impiegate in cotest’ affare di San Luigi ed evocato le illustri e benemerite famiglie venutegli in soccorso, che i Genovesi si mostrassero di gran lunga più operosi e arditi (1). A Genova ancora spetta il vanto di aver per la prima coniato monete d’oro sul cadere del secolo XII (2), e di aver usato la lettera di cambio , che alcuni vollero attribuire ai Fiorentini guelfi esulati da Firenze nel du-gento (3). Ma i numerosi banchieri della città che avevano dimora in “ palacio Malocellorum „, e quelli che in numero di quattro sappiamo essere stati inviati nelle singole colonie, a Tiro, a Costantinopoli, nella Palestina, come anche in Francia ed in Ispagna, rivestono tutti carattere di pubblici ufficiali ed esercitano il loro ufficio per conto del Comune (4) ; fin dal 1172 son chiamati pro- (1) A. Sciiaube, Die Wechselbriefe Konigt Ludwigs des Heiligen von sei-nem ersten Kreuzzuge und ihre Rolle auf dem Geldmarkte von Genua, Ab-druclc aus den Iahrbiichern far nationaliilconomie , und Statistik , fondato da B. Hildebrand e pubbl. da J. Oonrad, Serie III, voi. XV, LXX della racc.; ved. specialmente a pag. 733 e segg. Cfr. pure, per 1’ argomento, Rendiconti, in Atti della Soc. Lig. di St. P., voi. III, p.. LXXVIII. (2) Cfr. Ruggeko, Sull’antichità del genovino d’oro, in Riv. Numismatica Italiana, VIII, p. 183 e segg., dove si dimostrano vere le asserzioni del Desimoni. (3) Cfr. L. T. Belguano , L'interesse del denaro e le cambiali appo i Genovesi, estr. dall’ib-c^. Stor. It., 1886, serie III, to. III, P. I, p. 7. (4) Cfr. A. Lattes , Il diritto commerciale nella legislazione statutaria delle città italiane, Milano, 1884, p. 203. Notizie relative agli uffici di — 250 — prio “ campsores comunis Ianue „ e incaricati di decidere delle controversie circa la qualità dei metalli impiegati nei pagamenti fatti allo Stato (1). E nemmeno, come ho detto, esisteva una vera corporazione di mercanti. Di questa mancanza, già notata da parecchi, si volle trovare la causa nella scarsa partecipazione dei mercanti alla vita pubblica (2) : idea tanto erronea che non vai la pena di confutarla. Più verisimilmente si può credere che, avendo tutti i Genovesi partecipato al commercio senza alcuna distinzione sociale, non occorresse una corporazione di mercanti. Il Comune stesso era la riunione di essi; i consoli del comune potevano considerarsi appunto consoli di una società la cui principale attività s’esplicava con la mercatura: le leggi civili tener luogo di quelle peculiari ad una società di mercanti. Tutto ciò vediamo infatti avvenire. Testimonianze antichissime, o almeno coetanee a quelle d’altre città, di consoli dei mercanti, in Genova, non ci occorrono assolutamente: la più antica risale ai primi del secolo XIII (3). Quando nel secolo XII i “ consules mercatorum et marinariorum „ di Roma devono stipulare un trattato commerciale, si rivolgono ai consoli del comune, nè si accenna all inter-tervento di qualche diversa autorità che rappresenti più direttamente i mercanti genovesi (4). Le leggi commerciali di Genova non si trovano quindi mai a parte, costituenti corpo a sè, ma devono appunto ricercarsi negli statuti civili, emanati dai consoli del comune (5), e la giurisdizione commerciale e marittima appartiene esclu- questi banchieri e alla loro approvazione dal governo, si potranno vedere in Serra, Storia cit. to. IV, p. 97 e segg.; in Cuneo, Memorie sopra l’antico debito pubblico, mutui, compere e banca di S- Giorgio in Genova, Genova, s. a., p. 52; e in Doneatjd, Il commercio e la navigazione dei Genovesi nel medioevo, Oneglia, 1883, p. 80 e segg. (1) Liber Iurinm, t. I, n. 292. (2) Lastig, op. cit., p. 149, 171 e 232. (3) I consules mercatorum Ianue, ma con un limitatissimo potere legislativo, compaiono in un atto del 1202 (Liber Iuriuni, voi. I, col. 482 A). (4) Ved. in Chartarum to. II, col. 99&, n. 1517. (5) Cfr. Lastig, Entw., pp. 148, 158, 220; e Lattes, op. cit., p. 72. % » a — 251 - sivamente ai tribunali dello Stato (1). Inoltre, diversamente dalle altre città italiane, le quali mandavano nelle proprie colonie e anche in Genova stessa consoli e rettori di mercanti, perchè mercanti erano quasi tutti coloro che popolavano le colonie, Genova, che certo pur di mercanti sapeva costituite le sue , v’ inviava dei magistrati col semplice titolo di “ consules „ o di w rectores „ senza la denominazione specifica di u mercatorum „ (2). E ciò perchè nelle colonie genovesi si riflettevano sempre gli ordinamenti della madre patria. I capi infatti hanno sempre ugual nome ed uguali attribuzioni ; tutt’al più vengono poi a dirsi u consules-vicecomites „, per meglio chiarire le proprie funzioni amministrative: e dopo che in Genova ai “ consules „ succedono i podestà, anche nelle colonie, più tardi, si hanno i podestà, denominati poi alla loro volta, prima della fine del dugento, “ potestates-vicecomites „ (3). Questo coincidere della generale comunità dei mercanti con la Compagna od associazione politica giurata, trasse anzi in errore tutti quelli che, non trovando traccia di vera organizzazione mercantile nel nostro comune, vollero scoprirla nella Compagna stessa, cui attribuirono il carattere originario di una gilda (4). Si stimò allora di aver chiarito definitivamente lo scopo recondito di un’ associazione che era palesemente intesa, per affermazione concorde degli storici, alla conservazione, all’ordine e alla sicurezza degli (1) Neppure i consoli del mare (Manfroni, Storia della marina italiana dalle invasioni barbariche al trattato di Ninfeo, Livorno, 1899, p. 490) ebbero mai attribuzioni giudiziarie. (2) Anche in Sicilia, nel 1292, mandava per concessione del re, « consules et rectores sicut hactenus habere (i Genovesi) consueverunt », Annales, in Pertz, M. G. H., voi. XVIII, p. 347. ~ (3) Cfr. Desimoni , Notes et observations sur les actes du notaire génois Lamberto di Sambuceto, estr. dalla Bevue de VOrient Latin, to. II, 1904, Paris, p. V e segg. (4) Cihrario, op. cit., voi. I, p. 53; Lombroso, Della storia dei Genovesi avanti il MO, Torino, 1872, p. 80; G-oldschjiidt , Universalgeschichte der Handelsreclite, Berlin, 1895, p. 160; Heyd , Untersucliungcr iiber die Yer-fassungsgeschiclite Genuas bis zur Einfuhrung des Podestats , in Zeitsclirift f. deut. gesch. Staatswissensch., 1854, p. 33 e segg. — 252 - abitanti. Altri poi, su questa via, non mancò di riconoscervi persino una società di capitalisti (1). Tutti però avean buon giuoco nel loro argomentare, non essendo diffìcile trovare ordinamenti mercantili e finanziari entro a brevi che regolavano la condotta di mercanti soltanto. Veramente nessuna delle tendenze rilevabili nel prezioso Breve e in altri documenti congeneri, accenna ad un qualsiasi incentivo commerciale della Compagna, dove solo si stabiliscono norme mercatorie in base a ben altri scopi sociali e politici, e dove s’ uniformano tutt’ al più, obbligatoriamente, le iniziative commerciali dei vari consoci. In realtà è provato oramai che la Compagna “ era un’alleanza giurata di Genovesi atti a portar armi „ (2), ossia di tutti quelli la cui età correva tra i dieciotto e i settantanni (3). Mancando dunque un’unica grande corporazione, un’ università di mercanti, si stipulavano infinite piccole società di capitalisti o si stendevano contratti in accomandita: motivo principale, questo, della grandezza e della ricchezza raggiunta dalla Repubblica, avendo cosi i commercianti libero fin da principio l’esercizio dei mercati in altri paesi e riuscendo essi a favolosi guadagni per il continuo acuire della loro naturale perspicacia. Per comprendere ora come siano sorte le corporazioni delle arti in Genova — giacché s’é visto che non si possono studiare fenomeni di tal fatta se non proprio nel mezzo in cui si sono manifestati — conviene addentrarci ancor più nella vita sociale e politica del popolo nostro, che notevolmente si distingue da quella degli altri. Le corporazioni d’arti emanano senza dubbio dal popolo, ma la parte popolare dell’ antica cittadinanza genovese non riesce molto facile stabilirla nei suoi limiti precisi e se- ti) Doneaud, Sulle origini del Comune e degli antichi partiti in Genova e nella Liguria, Genova, 1878, p. 6. (2) Sieweking, Genueser Finanzioesen vom 12. bis 14. Ialirliundert, voi. I, Friburgo, 1898, p. 16 e segg. (3) Cfr. Canestrini, Della milizia italiana dal secolo XIII al XVI, in Arch. Stor, It., to. XIV, Firenze, 1851, p. XIV del discorso proemiale. — 253 - paraiia dall’ aristocratica. Laddove in altre repubbliche rimane sempre traccia di signori feudali o di titolati proprietari di castelli, contro i quali lottano tutte le arti, comprese quelle molteplici della mercanzia che poi prendono il sopravvento senza togliersi dal loro ambiente o-riginario, questi signori vennero invece ben presto esclusi dalla vita genovese, dove si formò un’ aristocrazia indigena tutta mercantile, divenuta ricchissima per l’impiego del denaro in ripetute e vaste speculazioni. Un fatto che la caratterizza è che essa acquista a sua volta una vera giurisdizione feudale, appropriandosi tutto il territorio di Genova e dei dintorni, mentre proprio la scarsa importanza della proprietà territoriale l’aveva dapprincipio volta alle imprese commerciali. Sul cadere del sec. XII, dopo che già è dileguato il concetto di generale uguaglianza offerto dalla Compagna primitiva, essa ha già una parte ben definita nella vita pubblica: non manca ai suoi componenti il titolo di u nobiles ,,, oltreché quello di “ meliores o sapientes „ usato per 1’ addietro (1) : le spetta sempre la preferenza nelle cariche e negli onori: ha piena voce in parlamento di fronte al popolo che è soltanto rappresentato, ma effimeramente, da un ufficiale pubblico, il cintraco. E la Repubblica non fa che amicarsi sempre questi potenti suoi figli, come pure gli e-sterni signori, concedendo loro di commerciare con spedizioni marittime fino a certe somme e ascrivendo nella cittadinanza chi aveva investito di tal facoltà, Che cosa sia poi il popolo , in questo nuovo ambiente, ossia chi passasse per “ ignobilis „, non si può dire in tutto e per tutto. Certo è soltanto che, presso agii “ ignobiles „, i documenti del tempo collocano una classe di persone che c’interessa direttamente e che non patisce dubbio per il significato: gli “ artificiati „ (2). E per vero, anche se i (1) Caiio, Die Verfassung, p. '20 e 123, n. 21. (2) Cfr. nel Frammento di Breve genovese del Consolato dei placiti, e-dito dal Datta in Atti della Soc. Lig. di St. P., voi. I, p. 83: « si pecuniam quam.... acceperit in societate.... vastaverit.... tunc si ipse cuius pecunia fuerit, personam illius postulaverit, eum ipsi deliberabo si fuerit - 254 — documenti non si fossero espressi con una chiarezza così confortante, conosciuto su quali basi s’era stabilito nella Repubblica il ceto degli ottimati, noi saremmo stati subito indotti a porre gli artigiani, i lavoratori, fuori di esso, fra i veri popolari,. Non vediamo comparire quasi mai fra gl’industriali alcuni dei personaggi appartenenti a quelle doviziosissime famiglie che in traccia di sempre nuove fortune scorrevano i mari, come gli Spinola, i Di Negro, i De Mari, i Camilla, i Grillo, i Grimaldi e via dicendo. L’artigiano restava in una condizione fatalmente inferiore, giacché non era possibile a lui, per lavoro che facesse, guadagnare in tutta la vita ciò che da un contratto solo ricavavano quegli stessi u negotiatores „ che, prima d’essere addivenuti accomandanti, eran magari stati accomandatari. La professione stessa contribuiva a staccare ancor più l’una classe, la mercantile, dalle altre, che lavoravano con lunghi stenti in servigio di quella, la cui sontuosità, anziché ragion d’invidia, finiva per essere fonte di lucro e di benessere. L’indirizzo poi dato all’attività della maggior parte dei cittadini, impediva da ultimo ogni possibile incremento delle arti, non pensandosi mai ad impiegare, come in secoli posteriori, le radunate sostanze in imprese terrestri, e tanto meno nelle industrie, in fabbriche e negozi (1). Del resto il lento lavorio delle ricche famiglie dei mercanti, inteso ad accentrare in loro mano la parte più ambita del reggimento della Repubblica e ad escludere da esso quelle di un ceto considerato più umile, traspare anche dall’immutato criterio secondo il quale continua ad aver vigore politico la divisione della città in quartieri. Eran questi chiamati ancora compagne, perchè riflettevano singolarmente la veneranda Compagna primitiva, la quale aveva dovuto smembrarsi col crescere della popolazio- artificiatus aut ignobilis; si vero fuerit nobilis sospendam eum ab omni officio et beneficio civitatis et insuper eum forestabo » ; ved. pure Dk-simojìi, Sul frammento di Breve genovese scoperto a Nizza ecc. nello stesso voi. degli Atti cit, p. 97. (1) Cfr. Lattes, op. cit., p. 166. — 255 — ne (1). I consolati dei placiti, distribuiti per le compagne, eran semplicemente tante braccia di uno stesso organismo, create per una più sollecita applicazione della giustizia in qualunque punto della città; gli uomini però che, “ more solito venivan chiamati da questi quartieri in numero oscillante da quattro a dodici, a prender viva parte alla cosa pubblica e specialmente alle deliberazioni del parlamento, erano appunto scelti fra gli ottimati (2). Tutto ciò, si noti bene, quando già in altre città, come a Bologna e a Firenze, troviamo che compaiono nelle deliberazioni del comune i capi delle arti insieme con il Podestà e il Consiglio di Credenza e che vi hanno libera discussione e libero voto (3), e quando sappiamo che dappertutto si procede già ad una sistematica ed artificiale partizione del popolo in tanti gruppi corrispondenti alle varie arti e ai vari mestieri (4). Ma intanto, sebbene la compagine politica della città si mantenesse cosi poco favorevole all’ emancipazione della classe popolare e specialmente della lavoratrice, questa per altre cause veniva a cementarsi in gruppi sparsi qua e là da mare a monte e racchiudenti ciascuno i cultori d’una data arte. E in breve le contrade da essi occupate presero il nome dell’arte (5). Data infatti la co- (1) Ved. le loro denominazioni in A. Olivieri , Serie dei consoli del Comune di Genova, in Atti della Soc. Lig. di St. Pt. , voi. I, pagg. 209 e 246. (2) Cabo, Dia Verfassung cit.. p. 22 e segg. (3) Cfr. Gaudenzi, Le Società, delle Arti cit., p. 16. (4) Cfr. Orlando, op. cit., p. 85. (5) Nella prima metà del secolo esistevano il campetus Fabrorum, presso la Chiesa di S. Matteo (Foliatium Notariorum, Ms. della Bibl. Civica di Genova D. bis 2-6-1, voi. II, f. 7 r.), la contrata Scutariorum, ante forum Sancti Laurentii (ib., f. 2 r.), la contrata Barilariorum (ib., f. 33 v.), la contrata Corrigiariorum, seu Rueleclute [Raveca?] (ib.. f. 35 v.), il carrubeo Pelipariorum (ib., f. 78 v.) e il carrubeus Ferrariorum (Bel-orano, Il secondo registro della Curia arciv., in Alti cit., voi. cit., p. 3fe4, n. 348). Altre numerosissime contrade, denominate similmente, negli anni di mezzo, possono trovarsi in Ferretto, Codice diplomatico delle relazioni fra la Liguria, la Toscana e la Lunigiana ai tempi di Dante, p. II, in Atti della Soc. Lig. di St. P., voi. XXXII, pagg. 202, 213, 219, 221, 329, 314, 378, 402. — 256 - struzione capricciosissima della città, non tutti potevano attendere alle proprie occupazioni in un luogo qualunque: i lanaiuoli stesero i loro panni lungi dalle vie frequenti , presso le foci del Bisagno, là dove larghi prati permettevano e assecondavano l’opera loro ; i costruttori navali lavoravano lungo il porto ; i pittori si raccolsero nel centro della città, presso le maggiori chiese ; i sensali bazzicarono accanto alle logge dei mercanti ; e allo stesso modo si comportarono gli altri. La qual consuetudine, originata spontaneamente dall’esercizio delle varie arti, offriva il vantaggio, che certo dovè subito esser rilevato dagli interessati, di poter più facilmente far fiorire una qualunque industria, essendo facilissimo rintracciarla in un tempo nel quale mancavano le denominazioni delle strade e si ricorreva, per indicarle, all’accenno di qualche angolo di casa patrizia, di qualche noto porticato, di qualche oratorio. E tanto essa invalse che nella seconda metà del secolo XIII l’Anonimo genovese non può tenersi dall’ esclamare : e corno per le contrae sun le buteglie ordenae, che queli che sun d’un’arte stan quaxi inseme de tate parte (1) ! Certamente la vicinanza in cui venivano a trovarsi tutti i Genovesi d’ un dato mestiere, doveva suggerire e facilitare la costituzione di speciali corporazioni, atte a prevenire quei malanni che non prevenivano punto le leggi civili. È impossibile supporre che continue liti inerenti all’ arte non sorgessero nella contrada, e di carattere tale che non era il caso di sottoporle alla giustizia ufficiale, la quale alla fin fine si regolava secondo consuetudini e non poteva essere in grado di conciliare tanti nuovi piati relativi a quistioni tecniche. Si doveva insomma sentire il bisogno di un’ autorità che presiedesse (1) Rima genovesi della fine dal secolo XIII e del principio dal XIV, e-dite da N. Lagomaggioke, in Arch. Gioii. It., voi. II, punt. II, 1883, p. 311, n. CXXXVIII, v. 143 e segg. — 257 — all’ arie e di convenzioni che impedissero il rinnovarsi delle contese. Nè questa sola doveva essere le causa del formarsi di queste corporazioni in Genova. Noi le sappiamo tarde, non perchè i pochi documenti che possiamo offrire su di esse, abbiano una data che c’induca a crederle tali, bensì perchè facilmente ci si può accertare che in quei tardi documenti si tratta di corporazioni nascenti, composte di poche persone e raccolte piuttosto a stabilire un punto controverso della loro particolare legislazione che a formulare dei veri e propri statuti, quali posson vantare nello stesso torno Bologna e Firenze. Prima di quegli unici statuti dei battifogli e dei fabbri orefici ed argentieri , che si conoscevano fino ad oggi, per tutto il secolo XIII, grazie alla erudita pubblicazione del Varai, non potrei citare se non un ricordo dei consoli dei u muliones mulattieri o vetturali che si voglia, datato del 1212 (1), e uno della corporazione degli scudai, risalente al 1235. Che sorgesse numerosa e prima d’ ogni altra la categoria dei mulattieri in Genova, luogo di transito terrestre per le merci che dalla Lombardia o dall’Italia cen trale si dovean far someggiare a dorso di mulo fino in Francia, è ovvio a chiunque, chiarendosi quella un’ arte subordinata al grande sviluppo della mercatura. Indispensabili quindi alla maggior parte della popolazione, cercavano essi, con un criterio non ismesso anche oggi dai loro degni nepoti, di trarre il maggior profitto possibile dalle loro fatiche, sebbene il governo, cui nulla sfuggiva di ciò che riguardasse il benessere reale dei mercanti, imponesse tariffe determinate. I loro consoli, in questo caso eletti proprio per rappresentare una tutela del lavoro di fronte al capitale, dovevano salvaguardare gl’interessi degli associati e rappresentare questi in ogni occasione. Noi troviamo infatti che nel 1243 sorge una controversia fra parecchi cittadini e i consoli dei “ mu- (1) Cfr. Ferretto , op. cit., P. I, in voi. XXXI degli Atti cit., p. ‘267, n. 1. Giorn. St. e Leti, della Liguria. 18 — 208 - liones „ rispetto alla maggior retribuzione richiesta pol- ii trasporto di alcune merci di peso eccessivo. Sottoposta la questione al Comune, non forse sotto il suo vero a-spetto, ma con l’ingegnoso cavillo da parte dei mercanti che gl’ incaricati del governo, piuttosto che quelli dei “ muliones „, dovean rendersi garanti del vero peso delle merci, la corporazione ebbe la peggio (1). Con tutto ciò questi lavoratori, meglio degli altri, seppero sempre — mi si passi 1’ espressione dell’ oggi — reagire compatti contro ogni tentativo di sfruttamento , poiché anche più tardi, già nei primi del secolo XIV, di essi vanno occupandosi gli statuti di altre città, nelle quali poi sappiamo essersi sempre impedite le società loro, per non danneggiare quella dei mercanti (2). Il documento ^he ricorda l’esistenza della società degli scudai, riguarda una vendita di stagno fatta loro da due o tre battifogli; artefici questi, che non v’appaiono ancora riuniti in corporazione. E nemmeno per gli scudai ci farà maraviglia sapere così antica la corporazione, se si pensi al largo uso che do-veasi fare a Genova dei prodotti usciti dai loro laboratori. E qui è tutto; le altre corporazioni, ripeto, ci fanno scendere fino alla metà del secolo o più giù ancora. Orbene è da ricordarsi che in Genova stessa s’ erano già da molto tempo stabilite delle società composte di forestieri e che riflettevano nella loro organizzazione quelle rispettive della terra patria. Veramente esse vanno sotto il nome di società di mercanti e i loro capi si chiamano unicamente u consules mercatorum „ nè v’ha esempio di società straniere proprie d'artigiani come a Bologna; ma non si dimentichi anche che sotto la denominazione di mercanti il più delle volte si comprendevano gl’ industriali e che d’altronde le società dei mercanti erano quelle dotate di uno dei più completi sistemi d’ amministrazione e fornite di statuti elaboratissimi. Noi incon- (1) Liber Iurium, voi. I, col. 1083 e 10&J. (•2) Lattes, op. cit., p. 285 e segg. Anche a Bologna s’ ebbe una società di vetturali , ma fiorentina (Gacpenzi , Le società delle Arti ecc., pag. 23). — 259 — triamo in Genova i mercanti fiorentini con i loro due consoli fin dai primi anni del dugento ; e a questi loro consoli vediamo attribuita una perfetta autorità “ giurisdizionale „, tanto da rivolgersi essi nel 1282 al Consiglio delle sette Arti maggiori di Firenze per ottenere 1’ approvazione dei propri statuti e delle proprie riforma-gioni (1). Uguale antichità documentabile hanno i mercanti lucchesi che per mezzo del console loro e di un patrio ambasciatore rinnovano con i Genovesi, nel 1239, il trattato di navigazione e di commercio conchiuso nel 1217, col quale si stabiliva fra l’altro dovere i Lucchesi u habitare in una contrata cum Ianuensibus (2) E a-vean essi convegno successivamente nelle logge dei Ma-loculo e degli Stangoni, nominavano annualmente il loro rettore e trovavano sepolcro al Borgo Incrociati, come ricorda una lapide ivi murata dal 1255 (3). Così pure s’e-l’-an stabiliti a Genova, e in tempi non posteriori, i mercanti pavesi e piacentini, per espressa disposizione dei rispettivi statuti patrii (4), con dei consoli eletti fra i mercanti residenti nella colonia, talvolta da essi medesimi , talvolta dai consoli della società d’ origine, e insigniti di piene attribuzioni giudiziarie sia in materia civile che in criminale (5). A somiglianza dunque di questi è lecito supporre che sorgessero i consoli dei mercanti genovesi che vengon ricordati nelle carte del secolo XIII, arbitri soltanto di questioni relative all’arte della mercatura, come anche quelli che in Francia, nella seconda metà dello stesso secolo, vediamo far parte della grande università dei mercanti lombardi, risultante dalle colonie (1) Cfr. Ar ias, I trattali commerciali della repubblica fiorentina, Firenze, 1901, pp. 115-6. (2) Ferretto, op. cit., P. I, p. 81. (3) Giui.io de’ Conti di S. Quintino, Cenni intorno al commercio dei Lucchesi coi. Genovesi nel XII c XIII secolo, in Atti della R. Accademia Lucchese di se. lett. ed art., voi. X, Lucca, 1810, p. 113, n. 16 ; e Ferretto, op. cit., P. I, p. 248; cfr. anche Noris, Memorie del Borgo degli Incrociati, Genova, tip. della Gioventù, 1879, p. 16 e 23. (4) Cfr. Lattes, op. cit., p. 55, n. 19. (5) Cfr. ib., p. 51. — 260 — dei Romani, Lucchesi, Piacentini, Bolognesi, Pistoiesi, A-stensi, Fiorentini, Senesi e Milanesi: colonie sottoposte tutte ad un capitano supremo dimorante in Montpellier fino al 1276, poi, per concessione di Filippo l’Ardito, trasferito a Nimes (1). L’efficacia che questi vivi e continui contatti doveano esercitare sulla formazione di consimili società, è tanto più ammissibile quanto più si pensi al vantaggio reale che dall’ istituzione sarebbe venuto ai mercanti e agli artigiani nostri. In ogni modo è notorio che la maggior parte della legislazione statutaria particolare delle corporazioni venne suggerita dalle città che anteriormente 1’ avevano fondata e perfezionata (2). Basterà accennare al caso tipico degli orefici di Brescia che nel 1262 chiedono ai propri magistrati civili “ statuere et ordinare quod praedicti aurifices possint exercere artem suam eo modo et forma quo et qua fatiunt et exercent aurifices de Mediolano, de Venetiis et de aliqua civitate Lombardie (3) „. Per tali ragioni nel decennio che precorre il più grande avvenimento interno della vita comunale genovese, ossia l’avvento del capitano del popolo, parecchie arti vennero raggruppandosi in proprie corporazioni. I documenti nostri però non alludono ad alcuna loro iniziativa politica. Quasi tutte le unioni sorgono per motivi economici : i consoli, scelti fra gli stessi artigiani, chiamano a raccolta i nuovi associati, discutono qualche punto controverso dell’arte, s’ accordano coi presenti e fanno regolarmente redigere delle nuove convenzioni un atto notarile. Talvolta nella corporazione il notaio che compila l’atto, è in nome del comune incaricato di riscuotere le multe pecuniarie che al comune stesso vengono devolute: ed è questo il caso dei battifogli (4). Solo i macellai una volta trattano nella (1) Ved. l’atto riportato dal Muratori, Antiq. ital., to. I, diss. XVII, p. 177, e riassunto dal Pxton, Les Lombards en Franca et à Paris, Paris, 1892, p. 221. (2) Cfr. Orlando, op. cit., p. 83. (3) Ved. in Arch. Stor. It., n. 5, XI, p. 96. (4) Ved. il documento edito già dal Varni, op. cit., p. 127. loro società di un fatto che non ha più carattere economico. Verso il 1251, quando già esisteva una fiorente u-nione “ omnium macellariorum civitatis Ianue un tal Guglielmino Peloso di Sestri, figlio del u quondam „ Guidone , macellaio, era stato catturato dai corsari pisani presso Capodimonte, venendo a Genova , e relegato subito nelle carceri cittadine come preda di guerra. I macellai genovesi si rivolgevano umilmente “ viris providis et discretis Consulibus macellariorum ac universis macellariis civitatis Pisarum, amicis tamquam fratribus Ilarissime diligendis „, impetrando che essi s’interessassero del fatto doloroso e ottenessero dallo Stato la liberazione del genovese consocio: in cambio avrebbero ind’innanzi tutelato, sotto ipoteca dei loro beni, la sicurezza dei colleglli pisani nel territorio ligure. L’istrumento fu redatto il 17 luglio , “ in presencia domini Menabovis de Turri-cella, Ianuensis potestatis „, nella curia stessa di quel supremo magistrato (1). Come si vede, il Podestà aveva preferito ricorrere a questo mezzo amichevole, anziché iniziare delle ostilità diplomatiche che la politica del tempo riconosceva forse dannose all intera comunità dei cittadini, tendendosi allora a stringere con Pisa quell’accordo che poi aborti per le pretese dei Genovesi sul ca- ci) L’istrumento fu. pubblicato , come preziosa primizia , dal Boxaini, Statuti inediti della città di Pisa dal XII al XIV secolo, voi. I, Firenze, 1854, p. 312. Sulla corporazione non avrò occasione di parlare più avanti, giacché nessun’ altra memoria che quella dei consoli loro nel 1250, ho potuto rintracciare. Però i macellai, verso il mezzo del secolo, doveano esser già numerosi e potenti, e aver volto a proprio vantaggio 1’ esercizio dell’arte loro. Il provento dei macelli costituiva ab antiquo un diritto eminentemente signorile e spettava in alcuni luoghi all’Arcivescovo (cfr. Belgrano, Illustrazione al registro della Curia arcivescovile , in Atti della Soc. Lig. di St. P., voi. II, p. 485). Nel 1152 venne fatto un regolamento su di essi, stabilendo che non si dovessero più vendere le carni se non in determinati giorni, nè si mutassero più di luogo i macelli stessi, stabiliti così definitivamente al Molo, in Soziglia, a Sant’Andrea e nel Borgo di Prè (Cuneo , op. cit., p. 255 ; e Lobero , Memorie storiche della Banca di S. Giorgio, Genova, 1832, p. 12, in n.) . Nella prima metà del secolo, i macelli si davano in appalto al macellaio più offerente: la qual consuetudiae dovè forse scomparire per opera dei macellai stessi, e affrettare la loro coalizione. Esiste nell’Archivio di Stato genovese — 262 — stello di Lerici (1). Che poi al famoso rivolgimento del 1257 prendessero parte le nuove associazioni popolari, è cosa che ognuno può legittimamente pensare; ma io credo doversi escludere che il movimento s’iniziasse da esse, come nelle altre repubbliche. Il capitano del popolo era già stato eletto a Milano nel 1240, a Firenze e a Perugia nel '50, a Bologna nel ’55, a Pisa nel ’54 : il nuovo capitanato del popolo genovese ebbe le sue origini e le sue attribuzioni “ more aliorum capitaneorum „ ; e chi ne fu investito, si nominò semplicemente “ capitanus populi „, non, come altrove, “ capitanus artium et populi Del resto anche negli Annali, fatto il debito riguardo alla prudenza con cui s’esprimevano gli scrittori ufficiali del Comune, vediamo riferir l’iniziativa di quell’ avvenimento ai principali cittadini: “ plures de potentioribus civitatis clamaverunt ad arma dicentes quod volebant habere Capitaneuin Populi, quod quidem popularibus placuit Solo nel fervore dell’ azione pare che i popolari, ingrossatisi più che mai, e compresi dell’ importanza di questa nuova lotta per i loro vitali interessi, prendessero il trotto sì da far sembrare come opera loro tutto quanto s’andava svolgendo. Si gridò “ fiat populus „ e popolari si dissero t: hii qui rectores fuerunt in sedicionibus, inter quos erant „ — si noti il mutar dell’ espressione — “ de potencioribus civitatis „ (2). In realtà la trasformazione un lungo atto datato- del 1136, 1 di marzo (Not. De Sexto Palodino, Filza I, P. I, f. 3 v.), in cui Guglielmo Embriaco, uno degli otto nobili di Genova , vende in Ventimiglia , per incarico del Comune , 1’ appalto delle carni al macellaio Guglielmo Marnelio. Con tale vendita, nessuno poteva, senza autorizzazione o commissione dell’ appaltatore , produrre carni da macello e venderle: eran fatte solo alcune concessioni per le carni del maiale che ciascuno aveva diritto d’ingrassare in casa propria ed era altresì permessa la vendita delle carni d’altri animali, come a dire vaccine ed ovine, nel caso che fossero morte per eventuali cadute o in seguito a reiterati assalti dei lupi. Il numero delle bestie e la specie che ognuno poteva allevare in un anno, eran regolarmente fissati: trascorso il termine, dovean esse condursi al macello e vendersi alle condizioni imposte dall’appaltatore. (1) Cfr. Manfkoni, op. cit., p. 424. (2) Ed. cit., p. 236. — 263 — politica era dovuta, piuttosto che ai partiti popolari, alla nobiltà guelfa che si era sostenuta felicemente contro Federico II, avea vinto le potenti fazioni dei Grimaldi e dei Fieschi, aveva scacciato il podestà milanese Filippo della Torre, trascinato il popolo (u quod quidem popularibus placuit „), all’elevamento del capitano, e chiamato infine per podestà il Malavolta, originario di quella Bologna, dove da due anni appena si era appunto stabilito il nuovo magistrato. Infatti, dopo l’elezione del capitano, avvenuta per 1’ esempio della politica rinnovata in tutte le città italiane con le quali correvano incessanti rapporti commerciali, resta in Genova la sociale preponderanza della nobiltà sopra basi sicure (1). Continuavano le ricche famiglie a tenere in loro monopolio la parte più proficua del commercio, a presidiare le grosse navi, a godere delle grandi proprietà territoriali, conquistate di mano in mano nel passato. I popolari che non erano stati indotti a quella che il Giustiniani chiama “ pessima sedizione „ da un odio particolare della loro classe verso i potenti, e che perciò non s’eran punto abbandonati ad atti vandalici nè avean proceduto ad espropriazioni e confische, ebbero, unicamente, quasi per ricompensa della loro cooperazione, quando non anche per semplice imitazione" di ciò che s’ era effettuato altrove in simili circostanze, la partecipazione alle cariche pubbliche e l’ammissione ufficiale al solenne parlamento generale, indetto da tanti anni nella maggior chiesa della città. Nel 1259 il patto stretto con re Manfredi nel 1257, viene confermato “ ex decreto, voluntate et auctoritate consilii generalis more solito congregati per cornu et campanam, et vocem preconis, necnon consilio, decreto, voluntate et auctoritate ancianorum populi Ianue et consulum ministeriorum ac capitudinum arcium in eodem consilio exi-stencium „ (2). Ma poco dopo, quando nel 1261 si conferma in Genova il noto trattato di Ninfeo, nel consiglio (1) Cfr. Caro, Qemta cit., voi. I, p. 10. (2) Liber lurium, voi. I, col. 1293. - 264 — compaiono gli otto nobili anziani, consiglieri del popolo, i “ consules misteriorum „ e con questi u quatuordecim viri de nobilioribus, melioribus et diccioribus comunis Ianue per compagnam ad hoc specialiter ad brevia vocati (1) : segno evidente che i consoli dei mestieri non avevano acquistato, rispetto ai vari quartieri della ciltà, nessuna ingerenza politica, ma comparivano semplice-mente come rappresentanti delle loro società, a tutelare gli interessi della professione. La loro importanza sotto altri riguardi si manifesta invece chiaramente più tardi, nel 1276, allorché Guidone de’ Pontori, abate del popolo, il podestà e i due capitani, Oberto D’Oria e Oberto Spinola, chiamano i consoli vecchi e nuovi delle arti per sentenziare che veniva annullata la tolta di dodici denari su ciascuna metreta di vino e ripristinata l’antica (2). Tuttavia per 1’ ammissione dei consoli delle arti, dal 1257 in poi, alle sedute del consiglio comunale, non si può a meno di pensare a qualche mezzo di riconoscimento delle arti e dei mestieri da parte dello Stato , a qualche immatricolazione pubblica dei loro rappresentanti negli albo del Municipio, come sappiamo essere in quell’epoca avvenuto per i notai, a qualche formale deliberazione infine che regolasse appunto quei rapporti delle corporazioni con il governo, di cui ci restano tracce visibili nel Liber Iurium , tanto più che gli artefici eran venuti crescendo in modo da far dire al nostro poeta contemporaneo : tanti e tal son li menestrai che pusor arte san far che ogni cosa che tu voi encontenente aver la poi (3). (1) Cfr. il trattato nell’edizione critica datane dal Manfroni nelle sue Relazioni fra Genova e l'impero Bizantino e i Turchi, in Alti della Soc. Lig. di St. P., voi. XXVIII, p. 666. (2) Cfr. in Ferretto, op. cit., P. IT, p. 46, n. 1. (3) Op. cit., 1. cit., v. 159. Per la data di questa poesia , cfr. il mio cit. lavoro, L’Anonimo ecc., a p. 27. - 2G5 - Sarà dunque questo il momento opportuno per- chiederci quante e quali potevano essere le società delle arti. Riguardo al loro numero troviamo fortunatamente dei dati importanti in quello stesso trattato di Ninfeo cui accennammo or ora, giacché in fondo alla carta sono riprodotti alla rinfusa i nomi di tutti i consoli delle arti e dei quattordici nobiluomini che ogni Compagna doveva mandare in consiglio. In tutto sono dugentosei : toltine centododici della Compagne , resterebbe il numero ragguardevole di novantaquattro consoli delle arti. Orbene, se si stabilisca che i consoli erano normalmente due e che solo eccezionalmente nel citato documento dei macellai ne troviamo quattro, forse perchè i macellai formavano la corporazione più numerosa come quella più necessaria alla città, dobbiamo ritenere che almeno una quarantina di società d’ arti vigessero in quel tempo a Genova. Va notato altresi che alcune arti, prima del 1257, non avevano consoli propri, ma nel 1256 compaiono con i propri rappresentanti, come avvenne dei porporai, di cui ci restano un atto del 1255, ove si nominano solo tredici artigiani senza indicazione o accenno a capi, riuniti per fissare alcune norme da usarsi nel loro ministero allo scopo d’evitare le fraudolenze dei concorrenti, e uno del 1257, dove troviamo ricordati con la carica di consoli due di quei tredici dell’atto precedente. Per la qual cosa è ovvio supporre che alcune arti della città, non appena fatta la concessione dal Boccanegra di poter inviare i rispettivi rappresentanti alle sedute del Consiglio, s’affrettassero ad eleggere i propri, per non essere da meno delle altre. Più difficile riesce stabilire la loro qualità. Gli statuti e le convenzioni che pubblico in calce a queste pagine, stanno per la massima parte fra il 1248 e il 1300, ma è chiaro , quantunque la corporazione vi si delinei nascente e lo statuto non sia molto elaborato, che si deve riportare a poco prima del 1257 , e in ogni modo non più tardi, la prima formazione delle società, giacché queste hanno già dei consoli e l’elezione dei consoli precede sempre la redazione degli statuti che - 2G6 — appunto da essi consoli vengono suggeriti, proposti ed emendati. L’elenco che in base ai nostri dati possiamo ora presentare, è il seguente: A n telami, Balestrieri, Barbieri, Barilai, Battifogli, Coltellinai, Drappieri, Fabbri d’oro e d’argento Lanaiuoli, Sono in tutto diciassette arti, delle quali si ha notizia sicura: nemmeno la metà di quelle che risulterebbero dal trattato di Ninfeo (1). Torna però acconcio per noi un documento del 1272 , in cui si narra che un tal Nicolò Botario , figlio del quondam Lanfranco , cittadino genovese, saputo che il Comune desiderava in quel tempo popolare un luogo d’Aiaccio chiamato “ Castrum Lombar-dum „, si profferse e ottenne di recarsi con molti altri concittadini. Fu allora stabilito che v’ andassero cento uomini “ inter quos, continua il documento, sunt et esse debent homines diversarum artium lanue ut infra: scilicet Ferrarie, Callegarie, Axie, Antelami, Sartorie, Scutarie, Spaerie, Tornatone, Medicarie, Speciarie, Pelipa-riae , Marinariae , Artes Gariborum et Lignorum , Modo-norum, Ruptorum Lapidum et Clavonariorum „ (2). Come (1) Mentre correggo le bozze di questo lavoro, trovo nell’Arohivio di Stato un atto contenente i capitoli d’un’altra società, di quella degli spadai, datato dall’11 Novembre 1289. È importantissimo e ne parleremo in altra occasione. (2) Cfr. Poch, Ms. cit., voi. IV, reg. VII, p. 36. Questo castello fu ben presto distrutto. « E l’anno di mille due cento settantaquattro Genovesi, il Marchese di Monferrato, Astigiani e Pavesi fecero collegazione contro il re Carlo. Ed il re mandò di Provenza alquante galere in Corsica, ed in le parti di Aiaccio presero un castello denominato Lombardo, che Genovesi avevano edificato e tenevano ». (Giustiniani, Castigatissimi Annali della Repubblica di Genova, ed. Spotorno, voi. I, Genova, 1854, p. 449. Macellai, Monetieri, Mulattieri, ' Porporai, Sarti, Scudai, Sensali, Tessitori in seta. — 267 — si vede, togliendo qui gli antelami, i sarti e gli scudai, abbiamo l’elenco di dodici o tredici altre arti che indubbiamente formavano in Genova corporazione; e si può in tal modo raggiungere il numero di trenta società, approssimativo certo, perchè molti di quelli che appartenevano ad un’arte potevano separarsi a seconda di speciali lavori o anche molte arti fondersi con altre di genere affine. Non oserei però mettere fra le società d arti, sebbene cosi avvenga in altre città, quelle dei procuratori , dei grammatici e dei notai. Anzitutto costoro non formavano vere e proprie corporazioni, bensì delle università e dei collegi, i quali si distinguevano presumibilmente per il ceto più colto assai delle persone associate. Veramente di un collegio di procuratori che il Bei-grano vorrebbe far risalire fino alla metà del secolo de-cimotcrzo (1), non si ha prova veruna. Il documento dove lo si ricorderebbe, parla solo di una specie d accademia tenuta in casa di Pietro Di Negro fra causidici e procuratori, per sentire da Albertano da Brescia, venuto veiso quel torno in Genova, la lettura d’uno dei suoi dotti sermoni (2). Il collegio dei Giudici poi risale certo al secolo XIII, sebbene il primo documento che v’accenni sia del 1307 (3), ma tanto meno riguardo a questo si possono fare ravvicinamenti con le unioni d’ arti del tempo. Ebbero anche i grammatici e mantennero sicuramente a un livello superiore a tali unioni, un università composta di tutti gl’insegnanti di Genova e del suburbio, con a capo due consoli e forse già con propri statuti (4). Dei notai finalmente esisteva il collegio dal 1267 se non da prima ancora, e risultava di dugento cittadini esercitanti il maneggio delle carte legali: tuttavia, piuttosto che una corporazione come quella di Bologna costituita da ben duemila membri (5), era una sede ufficiale dell arte, alla (1) Cfr. Illustrazione al registro ecc. cit., p. 332, n. 6. (2) Cfr. il cenno nel mio L’Anonimo ecc., a p. 46. (3) Cfr. ib., p. 47, n. 3. (4) Cfr. ancora la mia operetta La cronaca di laccpo da Voragine, Ge nova, a cura del Municipio, (Tip. Pagano), 1904, p. 7. (5) Cfr. Gaudenzi, Le società delle Arti cit., p. 39. - 2G8 - quale non si poteva accedere che con regolare nomina da parte del podestà e previo formale giuramento di fedeltà al rettore del collegio (1). Il numero loro era fisso e l’elezione avveniva solo nel caso che si facesse vacante un posto. Ivi venne a concentrarsi il monopolio delle cariche pubbliche, specialmente dopo il 1257, tanto per quelle da rivestirsi in patria quanto nelle colonie, non potendosi, sotto pena di gravi condanne, eleggere gabel-latore, cancelliere, tesoriere e in genere scriba di qualunque magistrato della Repubblica, se non chi fosse no-taro e del numero dei notari collegiati di Genova e inscritti nella matricola loro (2). Ad essi era persino concessa talvolta l’esenzione dagli obblighi militari, in grazia della loro professione (3). Che se noi cerchiamo poi di addentrarci nella natura delle altre arti genovesi di quel tempo, non sarà raro il caso di scoprire ancora qualche segno di questo carattere ufficiale in alcuna: e ciò specialmente sia detto per i sensali, “ censarii „. A giudicare dall’ antichità goduta nelle carte medioevali da coloro che esercitavano l'arte della mezzeria, si dovrebbe credere questa antica almeno quanto quella dei mulattieri, poiché la loro presenza era necessaria in qualunque operazione mercantile. Corrispondevano ai moderni mediatori e con questo titolo compaiono anche negli Statuti di Pera (4) : avean l’ufficio di custodire i carichi -dei mercanti “ bona fide „, di facilitare i contratti e sopratutto di denunziare qualunque cambio al collettore delle gabelle, nel termine di giorni quattro, dopo una diligente confermazione di esso in atto notarile e opportuna registrazione in speciali cartolari (5). (1) Cfr. Alessandro Morrona, Pisa illustrata nelle arti del disegno , II ediz., to. I, Livorno, 1812, p. 493; e Ferretto, op. cit., P. I, p. 74, e Sestri Antico, in Aiti della Soc. Lig. di St. P., voi. XXXIV, (1904), p. 178. (2) Cfr. Canale, Nuova Storia della Rep. di Genova, voi. II, Firenze, 1850, p. 419; e Statuti della colonia genovese di Pera, pubbl. da V. Projiis, Torino 1871, p. 50. (3) Cfr. Canestrini, op. cit., p. XXII. (4) Ed. cit., lib. IV, p. 246. (5) Cfr. Lattes, op. cit., p. 106; e Belgrano, L’interesse del denaro ecc., pag. 10. - 269 - Ebbero quindi importanza grandissima per l’incremento dato al commercio dall’opera loro, ma il Comune fissava le loro tariffe per mano degli emendatori fin dai primi anni del secolo XIII (1), e dichiarava obbligatoria nelle colonie la loro presenza, di cui si fa cenno nel primo e secondo trattato (1261-75) del Paleologo. Un lungo atto del 30 novembre 1258 ci presenta questi sensali in numero di quarantadue, radunati in Genova nella Chiesa di Santa Maria delle Vigne, per promettere ai loro due consoli di osservare in tutto e per tutto tanto gli statuti già esistenti dell’ arte quanto quelli che i consoli medesimi o altri futuri saranno per fare. Della sostanza di tali statuti non è menzione; ma non credo d’errare pensando che la corporazione loro, come quella dei mulattieri , fosse tra le poche istituite per combattere le vessazioni e le restrizioni continuamente imposte da uno Stato tutto intento al benessere unico dei ricchi mercanti. Notevole il trovare fra i vari sensali anche un frate, « frater Iacobus de Ast. „ : circostanza, questa, che vieppiù avvalora quanto già ebbi occasione di scrivere circa la condizione degli ecclesiastici nell’antica vita genovese. Importantissima invece, proprio come corporazione d’ arte, e forse altrettanto antica, è la società dei lanaiuoli , che perciò merita tutta la nostra attenzione. Senza dubbio lavoratori di lana doveano esistere fin dal secolo XII in Genova, ma la vera origine di quell’arte è da attribuirsi allo stabilirvisi dei frati Umiliati, devota società costituita molto tempo addietro fra esuli lombardi. Questi religiosi s’ eran dati alla lavorazione della lana, perchè, come dichiara lo storico del loro ordine, “ de labore manuum suarum vivere debuerunt „ (2), e, ovunque si diffondevano, recavano.in quell’arte la perfezione raggiunta per la lunga esperienza. Gli Umiliati genovesi (1) Liber Iurium, voi I, col. 520. (2) Tiraboschi, Vetera Humiliatorum Monumenta, Mediolani, MDCCLXVI, I, p. 156. Cfr. pure Umbertus de Romanis , De eruditione praedicatorum, lib. II, tract. I, cap. XXXVIII, in Bibl. PP., voi. XXV, p. 474 dell' e-diz. di Lione, 1677. - 270 - eran venuti dal Piemonte, e propriamente da Alessandria. Esiste ancora un atto del 1228 con cui 1’ abate Daniele insieme con i monaci del monastero di S. Siro concede un oratorio presso le adiacenze di quell’ edificio al Preposto della chiesa di S. Michele della Misericordia degli Umiliati d’Alessandria, per lo stabilimento definitivo della laboriosa colonia (1). Ivi sorsero il monastero e la chiesa di San Germano, poi detta di Santa Marta all’Acquasola, con annesse le officine dell’ arte, cui attendevano si gli uomini che le donne appartenenti all’ ordine (2). E ben presto i cittadini s’associarono iielle imprese industriali e affidarono in accomenda il loro denaro (3); molti anzi passarono nell’ordine stesso e s’inscrissero fra i terziari, il quale stato , mentre non li obbligava a rigorosa soggezione rituale, li comprendeva sotto un’amministrazione regolarmente costituita e contribuì forse per un certo tempo a distoglierli daU’unirsi in società laiche. Ma queste non tardarono a sorgere con l’incremento che di giorno in giorno andava acquistando la lavorazione delle lane, di cui si spedivano centinaia di rotoli nella stessa Firenze (4). Certo nel 1250 la corporazione doveva esser già formata, giacché come mostra uno dei nostri documenti, un u Americus de Laude „ e un u Wilielmus de Strupa, ministri sive rectores laneriorum Ianue con altri, per la maggior parte lanaiuoli, protestano abbastanza vibratamente per far ritirare lo sfratto imposto (li Tiraiioschi, op. cit., to IT, p. 62; cfr. pnre Mrzio, La Religione degli Umiliati, Ms. D bis, 3-3-2 della Bibl. Civica di Genova, senza num. di pag., al principio. (2; Muzio, op. cit., 1. cit. Gli Umiliati non erano i soli religiosi esercitanti quest’arte: molti altri ordini vi s’eran dedicati, specialmente in Inghilterra (Boxai, Della mercatura degli antichi lucchesi, Lacca, 1858, p. ;»i. Del resto anche in Italia la maggior parte degli opifìci di lana si trovavano nei monasteri i Villari , I primi due secoli della storia di Firenze, voi. I, Firenze, 1898, p. 27!», e anche Moxtk'olo, La tede dell'arte della lana a Venezia, nei sec■ XIII e XIV, Spigolature (F Archivio, in Nuovo Arrh. Veneto, to. Ili, P. I, Venezia, 18!>2, p. 857). (Hi Fol. Not, II, f. 82 v.; Mczio, op. cit.; Canale, op. cit., II, (523, e Storia del commercio, dei viaggi ecc., Genova, p. 178. ( li Casale, Nuota istoria, 1. cit. — 271 — dal priore della Chiesa e Ospedale di Santa Maria dei Cruciferi, a frate Andrea, converso di quella chiesa. I termini coi quali la protesta è redatta, inducono a supporre una certa autorità della corporazione, i cui membri non tralasciano di rilevare che 1’ operato del Priore, oltreché essere “ ad dampnum et lesionem diete ecclesie et hospitalis anche u factum fuit et est contra voluntatem nostram „, ossia dei firmatari, u et omnium aliorum laneriorum Ianue „. La chiesa di Santa Maria dei Cruciferi s’elevava appunto presso il Bisagno, là dove i lanaiuoli avevano il loro borgo. Nel 1274 parecchi lanaiuoli , voleudo accrescere 1’ onore dell’ arte della lana ed osservare gli statuti eh’ eran stati composti dai consoli loro, Gennario Mazolo e Stefano di Sado, si riuniscono u in clapa comunis ubi venduntur panni „, ossia presso le lastre marmoree che servivano allo spaccio delle merci lavorate, e promettono che non acquisteranno più, nè direttamente nè indirettamente, u lanam longam sucidam neque boldronos sucidos neque lavatos neque carzaturam aliquam „, nè in Genova o suburbio, nè nel porto della città, nè dal Corvo sino a Monaco, si per terra che per mare (1). Evidentemente si voleva cosi imporre che la lavorazione procedesse sempre sopra pelli ben ac-concie, nuove e 11011 deteriorate, a costo anche di scapi- ' tarile nel guadagno. Un avvenimento importante riguardo a quest’arte, s'effettuava più tardi, nel novembre del 1283, per opera dei due capitani del popolo Oberto D’ Oria e Oberto Spinola. In unione col podestà Michele de’ Salvatici , essi concedevano rilevanti privilegi ai Lucchesi, allo scopo di favorire l’introduzione in Genova e nel distretto delle lane, panni e boldroni delle fabbriche loro (2). Così anche presso di noi lo Stato volgeva finalmente lo sguardo alle industrie e trovava mezzo di farle progredire. Chi fossero poi propriamente i lanaiuoli, non (1) I boldroni erano (Bongi, op. cit., p. 879) « pelli secche di Montone colla lana attaccata, le quali si ponevano in commercio al doppio effetto di cavarne la lana e valersi della pelle ». (2) S. Quintino, op. cit., p. 110. è difficile precisare: erano tra loro compresi tutti quelli che col taglio , la lavatura e la preparazione in genere della lana contribuivano alla fabbricazione dei panni. Ma appunto perchè varie erano le operazioni occorrenti pei 1’ elaborazione del vello e per la fabbricazione dei pan-nilanij che pur ritengo attribuzione dell aite dei lanaiuoli, presto questi si divisero in parecchie arti, le quali rimasero anche dopo aggregate alla primitiva come più ricca e numerosa, quantunque, verso la fine del secolo, alcuna, ad esempio quella dei “ Macarolii cercasse con ogni mezzo, e sollevando persino la questione dinanzi ai giudici del governo, di potersene staccare (1). Quando la materia prima era preparata, veniva acquistata dai drappieri che procedevano a tutte le altre o-perazioni necessarie per metterla in vendita: anzitutto alla misura e al taglio delle pezze. Fin dalla prima metà del secolo, sappiamo che in Genova si fabbricavano panni non solo di lana, ma anche di lino e canovacci, fustagni e bombagine (2) ; i nostri drappieri, oltreché di questi, (1) Ecco una memoria del 1307, che in parte si riferisce ad avvenimenti anteriori; « 1307, 7 marcii, Dominus Opecinus Spinola de Luculo et D. Bernabos de Auria Capitanei Communis et Populi Ianuensis et D. Iacobus de Gropallo, abbas dicti Populi, rexerunt consilium cone-stabulorum quid placet fieri super infrascriptis Postis prius 9xaminatis per D. Abbatem et suos conestabulos..... super ordinatione facta per certos Sapientes in questione inter homines Artis Laneriorum et homines artis Macaroliorum ; ibi dicitur quod Sapientes constituti per D. Capitaneum, Abbatem, et Connestabiles super id quod Consules Ha-charoliorum habuerunt capitula eisdem concessa et firmata per D. W. De Urbis tunc Abbatem Populi, que vero Capitula dicunt Consules et Mercatores Laneriorum esse facta in lesionem Capitulorum dictae artis laneriorum maxime quia dicti Macharolii qui faciunt artem lan..... (in originali est hec delineatio) iuraverunt omni anno sub Consules Laneriorum observare Capitula et Ordinamenta Artis Laneriorum..... Consules vero Macharoliorum nolebant esse sub Consules Laneriorum et dicti Sapientes..... ordinant quod omnes Macharolii qui exercent seu facient de cetero pannos lane , seu artem Lane, iurare teneantur sub consules Artis Laneriorum in his quo ad dictum ministerium Lane pertinebit..... et quod dicti Macharolii habeant vocem ad electionem Consulum Laneriorum sicut alii Lanerii » (Da un libro di Oberto Folietta, trascritto in Pocn, Ms. cit., voi. IV, reg. II, p. 23). (2) Canale, Nuova Ist., voi. e 1. cit. — 273 — procuravano altresì la vendita dei fustagni di Lombardia, fatti arrivare in balle da Milano, Piacenza e Pavia. È certo in ogni modo che quest’ arte presentava sui suoi banchi dei drappi finissimi. Infatti lo statuto finora ignorato del 1280, e molto più complesso ed elaborato del- 1 altro dei lanaiuoli, ancorché mutilo disgraziatamente alla fine, racchiude delle imposizioni fatte ai soci solo per mantenere l’arte a un ragguardevole livello. Corrisponderebbero quindi non tanto agli omonimi rivenditori di Bologna e di Firenze , la cui operosità si limitava ai panni ordinari (1), quanto piuttosto ai mercanti di pan-nilani, smembrati già in numerose arti con propri ordinamenti e statuti. Senza indugiarci sopra alcune norme degli statuti emanati dai nostri, e riguardanti 1’ obbligo di prestare, occorrendo, man forte al governo, di prender parte alle fazioni e alle cavalcate, di osservare il riposo domenicale, di festeggiare parecchie solennità religiose e cosi via, rileveremo che era loro proibito anzitutto, sotto pena di gravi multe , acquistar panni per sé e per altri presso tintori che tingessero drappi bianchi, massime quando questi fossero stati denunziati, certo perchè i drappieri avrebbero avuto gran convenienza dall’ acquisto di tali drappi, assai meno costosi degli altri, tessuti invece con materia prima già colorata. Molti periodi trattano ancora della maggiore o minor proibizione del credito , secondo il genere dei drappi e la solvibilità delle persone che acquistavano, astrazion fatta sempre dei due capitani del popolo, dei loro nunzi e del podestà, ai quali era permessa qualunque concessione. Non si poteva far mercato u ad proficuum „ con alcuno “ huius mundi „, se non ad un certo prezzo fissato dalla corporazione, specie per qualche genere, di mercanzia. Tutto ciò che' si vendeva, veniva poi gravato della u tolta „ o gabella comunale, che bisognava sempre contemplare nel prezzo: nè era lecito a chicchessia, salvo in caso di esenzione da parte dello Stato, vendere merce u expedita de tolta „. (1) Gaudenzi, Le società d’arti cit., p. 81. Giorn. St. e Lett. della Liguria. 19 - 274 - Vi si nominano infine diverse qualità di drappi genovesi (1) e si danno indicazioni speciali per le misure da adottarsi nella vendita. È questo , ripeto , il più importante statuto d’arte del tempo. Tutto il rigore profusovi dovè condurre 1’ arte dei drappi genovesi a quella rinomanza goduta anche presso repubbliche , dove industrie consimili non difettavano. Negli statuti civili di Lucca del 1308, ma proprio in quella loro parte dove si ripetono gli ordinamenti del 1261, si parla di coloro che “ in civitate lucana, burgis et suburgis artem exercent de drappis aureis et sete , qui secundum artem Ianuensium facere debeant, et in ipsa longitudine que lanue consuetum fieri „ (2). Nè contraffazioni di tal fatta possono sussistere se non causate dalla bontà delle produzioni originali. Affini ai drappieri e lanaiuoli erano i porporai, i fabbricatori e venditori di panni scarlatti e contesti d’oro, i quali hanno consoli per la prima volta nel 1257 , e si riuniscono per promettere ancor essi 1’ osservanza scrupolosa degli statuti da emanare, essendoché da più anni nell’arte loro si fossero scoperte delle frodi, sia nelle diminuite dimensioni dei panni dorati e porporini, sia nella qualità del tessuto, dove si mette u et apponi consuevit bumbecium, filum et lanam, quod esse non debet Negli atti nostri si ritrova quel porporaio Giovanni, che il Serra dice reputatissimo in quei preparati (3). Del resto innumerevoli menzioni di “ panni de Ianua, o Ianuenses, o panni de Genua, o deauratos può ognuno trovare nei documenti del Belgrano (4) e nell’ opera del Heyd, (1) Fra gli altri i drappi frasatos, tessuti di filo e lana, che divennero produzione speciale dei Genovesi, e che, anche posteriormente, presso i mercati frequentati da loro , sono denominati Jlassade de Genua. Cfr. Amat di San Filippo, op. cit, p. 402. (2) Cfr. la rubrica CXXXVIII, a p. 220 degli Statuti del Comune di Lucca, pubbl. in Memorie e Documenti per servire alla storia di Lucca, to. Ili, P. Ili, Lucca, Giusti, 1867. Cfr. pure Bongi, Arte della seta, in Inventario del R. Archivio di Stato in Lucca, voi. II, Lucca 1876, p. 245. (3) Op. cit., 1. cit., p. 92. (4ì Citati, ricordati e trascritti, almeno in parte, nella sua Vita privata dei Genovesi, Genova, 1875. - 275 - che afferma anche , senza ragguagli in proposito , 1’ esistenza a Genova di una vera e propria corporazione di tessitori in seta o setaiuoli , durante il secolo XIII (1), dove propenderei a vedere una branca di quella dei por-porai (2), se non la società stessa. La lavorazione dei metalli preziosi era affidata ai fabbri d’ oro e d’ argento, ai battifogli e ai monetieri od operai della moneta. Dei primi abbiamo gli statuti editi d_al Varni, detti pregevolissimi dal Monticolo (3). V’appare l’intento precipuo di radunare sotto il giuramento dell' arte tutti i suoi cultori, escludendo da qualunque credito, per l’oro, 1’ argento e le pietre preziose, quell’o-retice che non vi sottostasse. E non solo essi lavoravano ma anche vendevano le loro ricche mercanzie al minuto, stabilendo di ricevere in cambio soltanto moneta coniata, u valentem rem venditam „, e registrata al banco di qualcuno dei banchieri del comune. Tenevano quindi fin dal secolo XII il posto di quei cambiatori e mercanti bolognesi che si occupavano, come oggi alcuni moderni cambiavalute, del cambio delle gemme e dei metalli preziosi , in mancanza degli orefici, sorti ivi più tardi e a-scritti semplicemente all’arte dei fabbri. Ai membri della società era permesso sempre far credito sotto determinate condizioni, come pure a quei frati predicatori e minori, cui occorressero i loro servigi. I battifogli poi, che preparavano, insieme con le stagnole e le lastre di ferro battuto, anche i fili e le lamine d’argento e d’oro secondo stabilite misure, avevano impedita dagli statuti loro la lavorazione notturna, non tanto perchè ne sarebbe venuto disturbo alla quiete altrui, quanto piuttosto perchè di notte si solevano commettere impunemente le frodi che (1) Histoire du Commerce dti Levant an moyen àge , éd. frane;., par F. Raynàud, voi. II, Leipsig, 1886, p 708. (2) È bene però ritenere che nel 1801 fosse già la società costituita, giacché in un atto (Not. Angelino de Sigfstro, I, 2 v.) si trovan nominati il « clavarius », i consoli e i consiglieri dell’arte dei tessitori. (3) Studi e ricerche per I’ edizione dei capitolari antichissimi delle arti veneziane, in Bullett. dell’Ist. Stor. It., n. 13, p. 81. — 276 - nelle opere compiute, anche alla luce del sole, sarebbe stato difficile riconoscere. Dei raonetieri, cui spettavano in segreto la partizione, il saggio e la coniazione della moneta genovese, altro non saprei aggiungere alle notizie datene dal Serra e dal Desimoni (1). Tra le corporazioni d’arti che allestivano le armi, possiamo ora citare con sicurezza i coltellinai, i balestrieri e gli scudai. La grande fabbricazione dei coltelli in Genova risale fino al secolo precedente; numerosissimi peiò coloro che portavano il cognome di u cultellerius „. Gli statuti e i documenti di varie città fanno spesso menzione dei “ cultelli ianuenses „ e i trattati, come ad e-sempio quello del Paleologo, li annoverano fra gli oggetti destinati a maggior esportazione (2). Anticamente, anzi, tutti coloro che appartenevano alle fazioni (u rassae „) erano sempre muniti di un coltello (“ cultellus rassae „) che li distingueva e di cui restano tuttora, per quanto scriveva l’Angelucei al Belgrano, esemplari nel museo di Piacenza: u erano riferisce quest’ ultimo, “ a lama a-guzza e sporgente presso l’impugnatura a mo’ di becco, per appoggiarvi il pollice e colpire con veemenza „ (•>). La corporazione loro emana il suo statuto verso il 1262 e promettono d’osservarlo una trentina d’interessati, raccolti all’uopo nella chiesa di Sant’Ambrogio. Riguardo ai balestrieri, ossia fabbricanti di balestre, neppur fa meraviglia che ben presto sia sorta una loro società. I Milanesi, prima di guerreggiare coi Comaschi, nel secolo XII, s’indirizzano ai Genovesi per macchine e balestre: Inde procellosam Ianuam, satis ingeniosam Urbem, confestim repetunt, per nomina quaerunt Artifices notos, qui sunt liac arte peritos, Lignea componant, aptas, castella, balistas (4). (1) Desimoni, Tavole descrittive delle monete della Zecca di Genova dal 1139 al 1814, voi. XXII degli Atti della Soc. Lig. di St. P., prefazione, p. XXVI. (2) Cfr. anche per questo rispetto Desimoni , Notes et observ. citate, p. XXVI. (3) Cfr. Belgrano, Il secondo registro della curia cit., p. 538. (4) Anonymi Novocomensis Cumanus sive Poema de Bello et excidio Urbis Comensis, in Muratosi, R 1. S., voi. V, p. 452, v. 1822. — 277 - I consoli stabiliscono il 18 febbraio 1275, e ribadiscono con altro istrumento il mese appresso, che le materie prime per la fabbricazione di quel genere d’ armi siano sottoposte a sindacato di quattro dei balestrieri nominati negli statuti, sotto minaccia di non soccorrere mai in alcun modo i trasgressori, e impediscono la vendita delle balestre oltre il Corvo e Monaco, e specialmente in Toscana e Lombardia. Di altre disposizioni concernenti 1’ arte loro, avrò occasione di toccare fra breve. Ed eccoci agli scudai. Questi, lo si è già detto, s’uniscono nel 1235 per presenziare un’atto d’acquisto d’una certa quantità di stagno “ batutum et preparatum ad opus „ da tre battifogli, i quali affermano di attenersi per le misure delle lastre ai modelli depositati presso i consoli dell’arte scutaria. Quanto tempo la corporazione vivesse da sola, non abbiamo dati per sapere. Sicuramente non a lungo, giacché con essi dovevano, nella preparazione degli scudi e in genere delle armature, lavorare i pittori; ond’è che gli uni e gli altri finirono per fondersi in una società sola. Le armi, come è noto, erano colorate con fregi e tinte diversi a seconda del rione della città e delle ple-banie che in tempo di guerra doveano offrir soccorso. Tra i numerosi atti pubblicati dal Varni e comprovanti l’esistenza della ragguardevole quantità di pittori che vivevano a Genova, uno dei più interessanti ci fa noto che Girardo pittore nel 1248 era stato incaricato di dipingere per gli uomini di Parodi cento paia d’armi u de ialmo et vermilio minii sicut constitutum est prò comuni Ianue „ (1). La matricola poi dell’arte dei pittori e degli scudai, scoperta con gli statuti dallo Spotorno e ripubblicata per esteso dall’Alizeri (2), non può certo essere tutta riportata al 1281, come vorrebbe il Canale (3); peraltro essa, che giustamente vien collocata dall’Alizeri nella seconda metà del secolo XIV (4), non è che la ri- (1) Varni, op. cit., p. Ili, doc. XXV. (2) Ai.izeri, Notizie dei professori del disegno in Liguria , dalle origini al secolo XVI, Genova, Sambolino, lb‘73, voi. II, p, 7, e segg. (8) Nuova istoria, voi. I, p. 395. (4) Op. cit., voi. I, p. 165. - 278 - petizione o l’ampliazione di un altro istrumento anteriore, formato dalle due società al tempo della loro fusione o poco dopo. Infatti il documento ch’io reco di questa duplice arte, ci avverte che nel 1302 la fusione era già un fatto compiuto da un pezzo e che la società risultatane godeva di una floridissima vita, comprendendosi sotto il nome di “ vicinia Scutariorum Ianue „, d’onde l’odierna contrada Scuderia, anche l’arte dei sellai, eoi quali i pittori avean continue relazioni di lavoro (1). Eran tutti retti da due consoli, scelti fra gli scudai, forse perchè questi s’ eran da più tempo corporati e forse anche perchè e-rano più numerosi degli altri artefici, e coadiuvati da due connestabili. In quell’ anno li vediamo riunirsi, non per redigere degli statuti, dei quali non si può a meno di suppor già 1’ esistenza, ma sì per ottenere, come verbosamente s’ esprime il notaio, u restauracionem , solucio-nem , pagamentum et reliquatus restitucionis et summarium et expeditum iusticie complementum de damno et damnis et occasione damni seu damnorum factorum seu illatorum, et illatis predictis de dictis artibus et cuilibet eorum in persona vel rebus tempore rumorum qui in Ianua fuerunt per rebelles populis Ianuensis et per partem guelfam et per quascumque alias personas pubblice et occulte et sive in jDecunia sive in rebus, tempore dictorum preliorum seu l'umorum sive brigue „. La loro vicinia infatti era presso la chiesa di S. Lorenzo, nel centi o della città, e proprio dove s’ era svolto tutto quel tramestio dal 1290 in poi (2). Dei barilai non possiamo dare che la testimonianza della loro corporazione regolarmente costituita sotto i due (1) Cfr. dell’8 Giugno 1248 un contratto di società fra Rollando sellaio e Giovanni Rosso pittore, pel quale « promittunt inter se ad invicem nomine societatis bona fide sine fraude tenere inter se bonam societatem et dividere per medium totum lucrum sive totum id quod ipsi ambo vel alter eorum lucrabuntur seu lucrati fuerint voi alter eorum de cofFanis tam novis quam veteribus faciendis et laborandis etc. » (Varni, op. cit., p. 110). (2; Su di che puoi vedere L'Anonimo cit., p. 174 e segg. - 279 — consoli. Così dei barbier i (1), i quali erano anche flebo-tomi, come si rileva dagli atti testamentari loro, nei quali tra gli arnesi pertinenti al loro mestiere, sono mentovate le lancette (2); e dei muratori, chiamati u magistri antelami o de antelamo „, “ qui magistri antelami erant fabri murarii „, e assoldati di volta in volta dagli “ operarii „ nelle costruzioni delle chiese del tempo (3). Ed ora poche parole sulle consuetudini degli artefici e sull’ordinamento interno delle società. La maggior parte degli artefici, qualunque fosse l’arte coltivata, spacciava i prodotti della propria industria a Genova e fuori. Nella convenzione del Paleologo, con cui questi si dichiarava debitore di tutte le sostanze rubate alle navi genovesi dai corsari orientali, vediamo comparire, quali proprietari di alcuni legni, dei consoli delle nostre arti (4)]: e un atto, quello dei drappieri, è stipulato dal notaro in u clapa comunis ubi venduntur panni „ (5). Le officine dove si lavorava si chiamavano u apotheche „ perchè vi si mettevano anche in mostra i prodotti industriali (6). Riguardo al vocabolo “ operarius „, è noto che esso aveva un si- (1) Cfr. in Ferretto, Codice cit., P. II, p, 393, n. 1. (2) Per notizie generali sull’arte dei barbieri in quel tempo, ved. Bonaini, Statuti cit., voi. I, pp. 338 e 696. (3) Accenni a consoli dei muratori, per 1’ anno 1279, stanno anche in un atto del notaio Antonino da Quarto, Reg. I, f. 126 v. (4) È pubbl. dal Manfroni in Atti della Soc. Lig. di St. P., voi XXVIII; ved. a p. 511 e segg. (5) « Clapa » era (Du Cange) la lastra marmorea su cui si - distendevano le mercanzie. A Boma eran dette lapides e il mercato colà veniva indetto « infra lapides mercantiae » (Gatti, Statuti dei mercanti di Roma, in Bibl. dell’Accad. Storico-giuridica, Boma 1885, p. XLVIII). Un atto del 1124 si dice compilato in Genova, « in vacuo mercati civitatis prope lapides piscium » (M. H.P., Chartarum, to.II, coi. 916). Riguardo agli antichi mercati di Genova e alle disposizioni dello Stato circa le loro estensioni fin dal 1186, ved. Liber Iurium, voi. I, col. 328. (6) Che vi si lavorasse, oltreché esporre, lo dimostrano i documenti; ad es., nell’atto della compera fatto dagli scudai, i battifogli promettono di dare « tantum stagnum battutum et preparatum ad opus vestrum (degli scudai) quantum cuilibet vestrum potest oportere in apothecis vestris lanue per vos et vestros laboratores », e negli statuti dei fabbri d’oro e d’argento, giurano questi « non laborari nec permitti in apothecis...... alicuius...... laborare in diebus dominicis..... » etc. - 280 - gnifìcato ben diverso di quello che ha oggidì nella lingua nostra : si chiamavano “ operarii „ solo gli architetti sopraintendenti alle grandi fabbriche, incaricati non solo della parte tecnica ma anche dell’amministrativa (1). Gli artigiani invece si dividevano in “ magistri, labora-tores „ e u discipuli o famuli o serviciales „ (2). Maestri e-ran coloro che nell’ esercizio dell’ arte possedevano una tale perizia da essere in grado da impartirne l’insegnamento agli altri; “ discipuli „ si dicevano i giovinetti che stavano percorrendo il tirocinio loro sotto la guida dell’insegnante; e con la parola “ laboratores „ si solevano indicare i “ discipuli „ stessi o altri operai più umili, non destinati a diventar maestri. Innumerevoli posson dirsi gli atti notarili genovesi che sanzionano i contratti cosidetti di maestranza o di garzonato. Colui che imparava l’arte, come minorenne veniva affidato dai genitori o dai tutori ad un artista; e, giacché la natura dell’arte implicava quasi sempre la convivenza dell’ apprendista col ì maestro, questi, in cambio dei servigi che si faceva prestare, s’obbligava a mantenerlo, ad alloggiarlo, a vestirlo, a curarlo in caso di malattia, ed a fornirgli, al termine del garzonato, tutti quegli arnesi che occorrevano ad un maestro dell’ arte (3). Nello statuto nostro dei balestrieri (1) Cfr. Banchero, Genova e le due riviere, Genova, Pellas , 1846 , pagina 686. (2) Altrove detto anche garzone, fante, gìgnore (Orlando , op. cit., pagina 101). (3) Nelle altre parti d’Italia (cfr. Orlando, op. cit., p. 102) i laboratores costituivano un grado intermedio fra i maestri e gli apprendisti. In Genova tutti i patti di maestranza ci dichiarano che, trascorso il tempo, l’alunno diveniva maestro senz’altro. Cfr., per es., quello del Sambuceto riportato per esteso dal Desimoni, dove un maestro d’ascia accoglie al suo servizio (2 giugno 1274) tal Giovannino da Montanea e promette di dargli « in capite dicti termini (cioè quattro anni)..... vestimenta et cal- ciamenta bona et convenientia, et ultra dare..... omnia ferramenta, sicut magister asie habere debet » (Archives de l’Orient Latin , to. I, Paris, 1881, p. 487;. Il Ferretto dà nei suoi regesti buone indicazioni per rintracciare moltissimi altri atti consimili. Talvolta questi lavoratori apprendisti erano anche rimunerati dagli appaltatori che assumevano in contratto i rispettivi loro maestri. Un documento del 1222 , 31 ottobre, comincia: « Ego Opizo Guercius, massarius operis Sancti Laurentii — - - 281 — si fa cenno di questi lavoranti, per mala ventura proprio là dove il documento è mal conservato, e s’impone, per quel che risulta dagli squarci non abrasi, che nessuno dei soci dia loro ricetto quando si assentassero dai propri principali, se prima non si riconoscesse, da parte dei consoli e dei loro coadiutori, che ciò era stato fatto per colpa altrui. Quando un “ famulus „ balestriere usciva da maestro, era però tenuto all’osservanza dei capitoli. Le società si formano dunque assai tardi ed emanano non dei veri e propri statuti, ma delle norme da osservarsi nelL’esercizio dell’arte, le quali sono da considerare come la parte essenziale delle disposizioni raccolte negli statuti posteriori, facilmente rintracciabili negli Archivi e nelle biblioteche della nostra città (1). Sono società volontarie, non costringendo nessuna di esse i vari artigiani ad affigliarvisi ; è notevole tuttavia che, sebbene formate di pochi, tendano, direttamente o indirettamente , quelle almeno che conosciamo adesso , a danneggiare i ritrosi al giuramento in tal modo da obbligarli, presto o tardi, alla ragione. Per le loro relazioni con lo Stato , poco si ricava: dato però il loro carattere perfettamente economico , non potevano sembrar pericolose. Del resto nel giuramento 1’ artigiano o il mercante non tralascia mai d’immettere la clausola sacramentale: u salvis semper mandatis domini potestatis et capitanei „, e di devolvere Ianue, nomine ipsius operis, promitto et convenio tibi magistro Oberto dare et solvere tibi solidos duos Ianue pro qualibet die quo laborabis ad faciendum Griphum unum de brundio in dicto opere pro tua mercede et labore et dare tibi in festivis diebus pro te et tuo serviente » ecc. (Dal libro di Mastro Salomone, in Varni, Ricordi di alcuni fonditori in bronzo, Genova 1879, p. 68). A questi patti fra maestri e servi si dava importanza grandissima e a Venezia se ne conservano tuttora, nell’Archivio dell’Arte, dei grossi volumi (cfr. Monticolo, Studi e ricerche cit., p. 66). Ricordi in proposito si potranno anche trovare nell’ opera di Mons. Telesfoko Bini, Sui Lucchesi a Venezia, in Memorie dei sec. XIII e XIV, pubbl. in Atti della I. e R. Accad. Lucchese di se., lett. ed arti, voi. XV', p. 39, 59 e 60. Per le disposizioni posteriori, Bensa, op. cit., p. 12 e segg. ; e Varni, Appunti, doc. XIX, p. 103. (1) Una buona rassegna ne fa il Gonetta nella sua utilissima Bibliografia statutaria delle corporazioni d'arti e mestieri, Roma, Eorzani, 1891. - 283 - al comune, una buona parte delle multe riscosse in ogni infrazione seguita da condanna (1). Le “ tolte „ poi, e s’ è visto, erano sempre osservate (2). Non ci è dato sapere se dopo il 1257 — certo in ogni modo non prima — avessero personalità giuridica ed esplicita concessione di acquistare e possedere beni mobili ed immobili, come si sa delle confraternite del tempo (3): nessun atto, ch’io mi sappia, è venuto alla luce, che ricordi lasciti testamentari o compere o intimazione di comparire in giudizio con attiva e passiva autorità. L’associazione artigiana portava il nome di “ societas „ o “ comunitas „ o “ vicinia „ (4). Non aveva luogo fisso di riunione, ma per lo più lo trovava nelle chiese di Nostra Signora delle Vigne, di S. Lorenzo, di Sant’Ambrogio e di S. Matteo. Solo nel 1476 i fabbri procedettero all’ acquisto di una casa per la corporazione (5). I capi si chiamarono consoli, come quelli del comune al tempo del suo primo ordinamento: talvolta anche “ ministri seu rectores „ e, per 1’ esempio di Firenze, anche “ capitudi-nes „, ma solo nei documenti politici, redatti per lo più (1) Già sui primi del secolo XIV la consuetudine divenne obbligo e tutti i consoli dovettero versare una parte delle multe a mani dei conservatori del porto e del molo. Ved. in Bensa, op. cit., p. 10. (2) Per il significato di questa parola cfr. il Du Cange. Oltre tutte queste forme di sottomissione all’autorità vigente, i drappieri imponevano nel loro statuto di portare le armi imposte dai capi del governo. Lo stesso obbligo legava i membri dell’antica Compagna (cfr. a p. 193 del Breve pubblio. dall’OLiviERi). (3) Cfr. L’Anonimo cit. p. 53. (4) La parola « vicinia » è qui sinonimo di collegio, anziché di quartiere, come in altre città settentrionali (cfr. Astegiano , C'odex diploma-ticus Cremonae, in H. P. M., serie II, voi. XII, 1898. p. 348) usandosi ancora, per significare i quartieri, il vocabolo « compagna ». La ragione sarà manifesta quando si pensi che la vicinia, istituita fin dal tempo d’Augusto, racchiudeva dei cittadini, « vicini », organizzati già allora in Collegio, con erario proprio e, in tempi relativamente prossimi, con proprie chiesuole. (5) Varni, Appunti, p 59 e segg., doc. II. L’ atto è stipulato in « capella..... dominorum de fabris sita in ecclesia sancte Marie de Vineis, in quo loco [ancora nel 1476!] ........ fabri pariter erant congregati ». L’uso di radunarsi nelle chiese era generale; ved anche Bini, op. cit., pp. 75, 90, 91 e 94. — 283 - da notai non genovesi. Avean essi specialmente l’incarico d’indire 1’ adunanza dei membri (1), di proporre le norme da osservarsi in avvenire (2), di vigilare sulla e-satta osservanza di esse, di stabilire le pene e di deliberare nelle controversie (3) : la quale ultima attribuzione, in un interessante documento del 1186, cioè del tempo in cui non esistevano ancora corporazioni, vediamo deferita dai maestri antelami a due loro colleghi, eletti arbitri in una questione di precedenza circa alcuni lavori (4). Erano naturalmente scelti fra i più idonei a quell’ufficio, e per perizia tecnica e per senno di mente. Li coadiuvavano i t£ connestabili „, altrimenti detti L consiliaiii „ e i massari o “ clavarii ossia i tesorieri della società, talora in numero di due , talora di quattro. I consoli e forse anche gli altri ufficiali erano temporanei. Presso (1) Nello statuto dei drappieri: « Infrascripti draperii de ripa Ianue coadhunati in simul..... ad requisicionem consulum ipsorum drape- riorum ». . (2) Nell’istrumento dei sensali: « Nos..... omnes censarii et de officio sive arte censarie quisque nostrum in solidum convenimus et promiti-mus vobis Pascali Candelieri et Dominico Bertari, consulibus nostris...... quod nos et quilibet nostrum per se attendemus et observa,- bimus..... quidquid vos..... ordinaveritis...., et ordinamenta que circa i- psam artem sive officium ordinaveritis et facietis..... » etc. (3) Ibidem: « observabimus penitus et in totum et penas impositas et imponendas in ipsis ordinamentis seu statutis factis et faciendis et que fient de cetero ». Nell’atto dei barilai: « Ego..... promitto et convenio vobis..... consulibus artis barrilariorum dare et solvere vobis usque in quantitatem librarum quinque lanue si usque in dicta quantitate me condempnabitis, occasione verborum etc..... ». Nello statuto dei balestrieri: « et si aliquis nostrum dixerit aliquam villaniam dictis Consulibus vel aliqui ipsorum, quod condempnari posse per Consules de con-scilio suorum consciliariorum ». Nello statuto dei coltellinai: « et penas stabilitas et ordinatas in ipsis statutis seu ordinamentis solvemus et dabimus secundum quod per vos vel successores vestros in dicto consulatu ordinata et precepta fuerit ». E così via. (4) « Ambrosius magister et oto, magistri antelami, arbitri electi..... laudaverunt ut Uprandus , magister antelami et Laurentius , magister antelami, habeant et laborent totam operam corporis Ecclesie Monasterii Sanctae Thomae sine contradictione Dominici, magistri antelami, et hoc quia probaverunt dictus Uprandus et Laurentius quod opera predicte ecclesie eis ab Abbatissa et conventu Monasterii fuerunt data antequam Dominico.... ». (Da una copia dei docum. mss. lasciati dall’A-lizeri, esistente presso la Società Lig. di St. P., fase. II, c. 52). - 284 — di loro si custodivano i pesi e le misure esemplari, stabiliti riguardo alla fabbricazione dei varii prodotti industriali (1). I loro statuti sono rudimentali : semplici atti notarili, di cui si facevano, per espressa dichiarazione del notaio, tante copie quanti erano gl’ intervenuti alle adunanze. Temporanei anch’essi, duravano da uno a quattro o cinque anni, come i brevi dell’antica Compagna (2). Le norme contenutevi potevano essere compilate, oltreché dai consoli, anche dai consiglieri o da persone, sempre però dell’arte, di ciò incaricate. Quello dei drappieri che, come s’è detto, è il più completo per que’ tempi, parla di u o-mnia et singula infrascripta statuta sive ordinamenta et omnia que in ipsis continentur Ma per lo più, negli altri, le varie deliberazioni collegiali non traspaiono che dalle formule u statuimus „ o u statutum est „ alle quali si fa seguire un gruppo di periodi principianti con “ I-tem „. Propriamente, piuttosto che statuti, dovremo chiamare questi ultimi “ brevi di giuramento „, osservati da coloro che si radunano per compilarli. In complesso si può dire esser state quelle di Genova, durante il secolo XIII, vere e proprie unioni d’arti, risultanti di persone intese al retto, onesto e proficuo esercizio d’ un mestiere, e prescriventi quindi la lealtà dei commerci, l’abolizione delle dannose concorrenze, il perfezionamento in genere delle varie industrie. Alcune norme, come quella di non ingiuriarsi 1’ un l’altro (3), di rispettare i precetti della religione, di non portare che le armi (1) Consuetudine adottata anche in altre città; cfr. Lattes , op. cit., p. 139. (2) Stat. dei Balestrieri: « predicta omnia et singula..... promisserunt inter se ad invicem attendere, compiere et observare bt contra non venire usque ad annos duos proxime venturos ». Convenzione dei por-porai: « promiserunt inter se...... usque ad annos duos proxime completos ». Però, nello stat. dei coltellinai: € usque ad mensem unum predicta quisvis attendere et observare »; e in quello dei lanaiuoli: « Et predicta omnia et singula statuerunt et ordinaverunt predicti omnes nomine dicte artis observari debere perpetuo et omni anno per consules dicte artis refirmari et confirmari ». (3) Cfr. stat, dei balestrieri. imposte dal governo, ci rivelano sempre più le nobili, tranquille tendenze del nostro fenomeno d’associazione operaia, nel primo periodo del suo germoglio. E tutti in queste unioni furono accolti, anche i forestieri, a parecchi dei quali si deve forse 1’ introduzione di qualche arte nuova (1). È ben noto invece che in altre città s’inscrissero in società siffatte anche molti che non operavano l’arte, ma, per mire politiche o per vantaggio personale, s’ affrettavano a parteciparvi. Solo sul principio del secolo XIV, cominciarono a prender parte in Genova gli artigiani alla vita politica e il Governo slesso dovè provvedere ad alcune riforme che prelusero a quella radicale e generale del 1379 (2). Francesco Luigi Mannucci. DOCUMENTI. I. I lanaiuoli protestano per i danni derivanti all’arte loro dallo sfratto imposto a frate Andrea, converso della chiesa di Santa Maria de’ Cruciferi. (Notaro De Predono Matteo, Filza I, Parte II, f. Ili v., R. Archivio di Stato ìq Genova). 20 Giugno 1255. — In nomine domini amen. In presencia testium infrascriptorum Nos Americus de Laude Wilielmus de Strupa (1) I nomi comparenti negli atti nostri ci rivelano stranieri numerosi operai del tempo: ho creduto opportuno di non tralasciarli nella pubblicazione. (2) Come si è visto in una nota precedente, le società delle arti già nei primi anni del secolo XIV dovettero presentare i loro statuti al governo, per ottenerne l’approvazione. Questa disposizione, secondo me, doveva già essere adottata prima della fine del dugento. A Savona, negli Statuto antiquissima, e proprio in una rubrica datata del 1312, lo si ordinava esplicitamente, ma non in modo che si possa credere ciò avvenuto per la prima volta (Cfr. Statuta ant. Saone, ed. da A. Bruno , in Atti della Soc. Stor. Savonese, voi. II, p. 93). Nel 1379 (Bensa, op. cit., p. 9) la riforma fu generale e tutti gli statuti in quel torno rifatti, con la sacramentale formula a capo: cupientes reprimere ecc., sono raccolti in tre grossi volumi in foglio dell’Archivio municipale di Genova, e intestati Capitula Artium. L’ autorità dei consoli fu poi talmente limitata che persino il loro potere giudiziario, quello che la consuetudine pareva dovesse aver ratificato per sempre, fu sottoposto (cfr. in Leges, M. 11. n l(Ki, col. 1-11) all’arbitrato dei conservatori, cui spettava far osservare i propri capitoli, anche contro le sentenze della corporazione. - 286 — ministri seu rectores laneriorum Ianue atque Albertus Rampegollus Iacobus de Monleono tabernarius Iacobus Buti Lanfrancus Muius Enrico de Solario Ioliannes Dracus Bergondius Muzus Iacobus de Lixono Wilielmus Marinus Bergamus lanerius Wilielmus pelliparms Blasius lanerius. Anseìmus Overgnatius. Ottobonus de Bergamo. R.i-vera lanerius. Symon de Papia. Magnerrus. Marfcinus ilo Glav.iio, Iohannes de Loerio, Mozasco Picaminus et Martinus de Rapallo Io-hanne Mazacocius Bertinus Xoenius et Ioliannes de Laude nomine nostro et aliorum laneriorum dicimus et protestamur quod remocio-nem seu licentiam datam pre priorem ecclesie seu hospitalis sancte Marie Crucifferorum de Bissanne fratri Andree redito et comeiso eiusdem ecclesie seu hospitalis esse ad dampnum et lesionem diete ecclesie et liospitalis et factam fuit et est contra voluntatem nostram et omnium aliorum laneriorum Ianue prout dicimus et ita cognoscimus esse rei veritas, quare mittimus supplicando dictum ministrum ecclesiarum Crucifferorum quod debeat dictum fratrem Audream re-fermare in dicto hospitale seu iu predicta ecclesia Sancte Marie Crucifferorum de Bissanne. Actum in rivoturbido Ianue ante domum Iacobi de Monleono tabernarii, Testes Nicolosus Engurdus Ugolinus de Sigestro anno dominice nativitatis MCCLY Indictione XII die XX Iunii pulsanto tercia. II. I lanaiuoli, per incremento c d utilità dell’arte loro, ratificano e promettono di osservare « tractatus et ordina/menta infraseripta ». (Notaro Vataccio Simone, reg. I, an. 1274 in 1320, f. 177 v., R. Archivio di Stato in Genova). 8 Luglio 1274. In nomine Domini amen. Ad honorem Dei et Beatissime sempei Virginis Marie et beatorum appostolorum Sanctorum Simonis et Iude, et ad honorem et statum dominorum capitancorum et domini potestatis, et comunis et populi Ianuensis, Nos infrascripti homines cupientes augere sive augmentare honorem et utilitatem et bonum statum tocius artis lanerie Ianue, et volentes adimplere et observare tractatus et ordinamenta facta per Vos Ianuarium Mazolam et Stephanum de Sado lanerios consules liominum dicte artis et per consiliarios ellectos per nos et alios homines lanerios super ministerio dicte artis, promittimus et convenimus vobis dictis Ianuario et Stephano consulibus dicte artibus recipientibus et stipulantibus pro vobis et universis consulibus qui nunc sunt vel pro tempore fuerint consules dicte artis quod ab hodie in antea nos nec aliquis nostrum non ememus nec acquiremus nec emet nec acquiret nec emi neque acquiri faciemus, per nos nec submissam personam lanam longa sucidam vel lavatam nec bodronos succidos nec lavatos nec carzaturam aliquam in lanua nec in suburbiis, nec in portu Ia- — 287 — nue nec a Corvo usque Mouacum in terra vel in mari modo ali quo qui dici vel excogitari possit, ab aliqua persona que ipsam lanam vel bodronos seu carzaturam emisset causa revendendi intra predicta confinia. Item ratifficamus et approbamus per solempnem sti-pulactionem tractatus et ordinamenta infrascripta. facta per vos pre-dictos coDsules de consilio consiliariorum ellectorum super liomines diete artis. qui tractatus et ordinamenta infrascripta et omnia ea que in eis continentur promittimus vobis dictis consulibus nominibus recipientibus solempniter rata et firma habere et tenere perpetuo et ipsa atendere complere et observare perpetuo et in nullo contravenire modo aliquo, tenor quorum tractatuum et ordinamentorum talis est...... In nomine Domini amen. Ad honorem Dei et beatissime semper virginis Marie et Beatorum appostolorUm Sanctorum Simonis et lude, et ad honorem et statum dominorum capitaneorum et domini potestatis, et comunis et populi Ianuensis et ad utilitatem artis laneriorum civitatis lanue $ MCCLXXJIIJ die VI Julii. Ia-nuarius Mazola et Steplianus de Sado consules artis laneriorum civitatis lanue Octavianus Donatus Bergondius Mussus Ricobouus de Rapallo Guillielmus de Marchis Beltramis Eugenius Guillielmus de Paulo Guillielmus Gruisca Iacobus de Martexana Grimaldus de Mon-leone Ianuinus Rampegollus. Ianonus de Ascarena Martinus de Quarto. Uguczonus Caraspesa et Bertholinus de Egidio consiliarii ellecti inter liomines dicte artis, pro bono statu et utilitate dicte artis statuerunt voluerunt et ordinaverunt de comuni consensu et voluntate eorum quod aliqua persona que pannos faciat seu fieri faciat in Ianua vel suburbiis vel que faciat seu fieri faciat stamen vel que faciat seu fieri faciat lanam de bodronis vel que bodronos tondi faciat de cetero non emat nec acquirat lanam longam sucidam nec lavatam nec bodronos sucidos nec lavatos nec carzaturam aliquam in Ianua nec in suburbiis nec in portu lanue , nec a Corvo usque Monacum in terra nec in mari, per se nec submissam perso-uam modo aliquo qui dici vel excogitari possit ab aliqua persona que ipsam lanam vel bodronos vel carzaturas emisset intra predicta confinia causa revendendi, et si quis inventus fuerit contra predicta facere solvat ot solvere teneatur et debeat consulibus dicte artis soldos viginti pro quilibet saco. et balla et faxe et pro qualibet vice, quorum soldorum viginti quarta pars sit comunis et quarta accusatoris, et qui accusator habeatur privatus et medietas sit hominum dicte artis et per eandem racionem qui in minori quantitate lanam vel stamen emerit condempnetur. Item statuerunt et ordinaverunt pro bono et utilitate dicte artis quod si illi qui lanam faciunt de bodronis ad vendendum seu tondi- faciunt bodronos in Ianua vel suburbiis et qui faciunt seu fieri faciunt stamen in Ianua vel suburbiis. Nolluerint stare in predictis omnibus taciti et contenti et si predicti omnia noluerint observare in omnibus et per o-mnia vel si in aliquo predictorum contrafeceriut quod aliquis lane- - 288 — rius vel qui pannos faciat seu fieri faciat in lamia vel districtu lanam vel stamen ab ipsis qui tondi faciunt bodronos vel stamen fieri faciunt non emat nec emi faciat nec acquirat vel acquiri faciat modo sive ingenio aliquo per se vel submissam personam , sub pena soldorum viginti pro quolibet cantario et qualibet vice et que pena e-xigatur et distribuatur ut supra dictum est. Et predicta omnia et singula statuerunt et ordinaverunt predicti omnes nomine dicte artis observari debere perpetuo et omni anno per consules dicte artis refirmari et confirmari, et quod predicta omnia promittantur et observentur et confirmentur per homines universos et singulos dicte artis Ianue et suburbiorum et inde fiat pubblicum instrumentum. Salvis in predictis omnibus mandatis voluntatibus et ordinamentis dominorum capitaneorum et domini potestatis, et quod in predictis possit addi et minui ad voluntatem dominorum capitaneorum et domini potestatis. Que predicta omnia et singula nos et quilibet nostrum promittimus et convenimus vobis dicti Ianuario et Stephano dictis nominibus recipientibus atendere complere et observare et in nullo contravenire, nec contrafacere sed ipsa omnia et singula vobis dictis nominibus inviolabiliter observare, et si in aliquo prodictorum contrafieret. promittimus et convenimus quilibet nostrum qui contrafaceret dare et solvere vobis dictis nominibus, soldos viginti pro quolibet et qualibet vice sub pena de solidis quadraginta pro quolibet con trafaci ente et qualibet vice et sub ypotlieca bonorum nostrorum et cuiuslibet uestrum. Et eodem modo nos dicti consules promittimus et convenimus vobis infrascriptis hominibus predicta omnia .atendere compiere et observare vobis eodem modo et forma quo et qua vos nobis promisistis et sub predicta pena et sub ypotheca bonorum nostrorum et cuiuslibet nostrum, et volunt et voluerunt predicti et infrascripti omnes predicta omnia et singula locum habere et atendi et observari debere inter eos ab hodie ili antea perpetuo, tam per ipsos homines quam per homines dicte artis. Nomina vero predictorum hominum qui predicta omnia et singula promisserunt dictis Ianuario et Stephano sunt ista, et primo nomina consiliariorum hominum diete artis qui sunt numerum quatuordecim Octavianus Donatus. Bergondius Mussus. Ricobonus de Rapallo. Guillielmus de Marchisiis. Beltramis Eugenius. Guillielmus de Paulo, Guillielmus Guisca. Iacobus de Martexana. Grimaldus de Monleone. Ianuinus Rampegollus. Ianonus de Ascarena. Martinus de Quarto. Iguezonus Caraspesa et Bertholinus de Egidio, omnes consciliarii dicte artis Dominicus de Castro lanerius, Bonacius de Domoculta, Miranus de Albiate, Iacobus Gobbns. Iohannes Rampegollus, Petrus de Nave. Iacobus Gazanus Iohannes Bereterius Guillielmus de Mon-tobio. Guillielmus Crispus. Girardus de Pignono. Niger de Francisco. Enricus de Vivalda, Iohannes de Cara, Rollandus de Prato, Bo-navita de Monterubeo. Manginus de Ponzono, Manoel de Cremona, Beltramis Eugenius pro se et Nazario lanerio pro quo promisit di- — 289 - ctis consulibus de rato habendo. Uguezonus Caraspese prò se et preposito Sancte Marie pro quo promisit solemniter de rato habendo. Ianonus de Castro prò se et fratre Fulchono pro quo promisit so-lempniter de rato habendo. Benesea de Framura, Martinus de Cla-varo, Rollandus de Strupa. Albertinus Mussus de Clavaro , Guizar-dus de Calignano, Obertus de Cravaricia. Guillielmus Baraterius Trencherius Merius. Beneveni Florentinus, Obertus de Pesino Ia-cobus de Pinu. Beltramis de Sado. Iobanninus de Enrico. Ambrosius Cristianus, Guido de Rocheta. Stephanus Bazanus lanerius Gan-dinus Bovis lanerius. Guillielmus de Sancto Stephano lanerius. Salvus de Violeto Beni Florentinus. Segnorinus de Garibaldo, Guido-tus de Sigemboldo, September de domocnlta. Gandulfus de Garibaldo, Iohannes de Novaria. Arditus Marcliisius. Niger Turricella. Baldus Osmerius fìlius Salvi. Guido de Monleone. Iobannes Dentutus. Gal-locius lanerius , Egidius Falaca , Girardus Bissacia, Albertus Caza-nus. Pascalis balneator et Albertus de Clavaro, qui predictus Beltramis Eugenius promisit et convenit dictis nominibus stipulantibus ita facere et curare eis quod dictus Nazarius et dictus Ugiiezonus ita facere et curare similiter promisit dictis consulibus quod dictus dominus prepositus, et dictus Ianonus ita tacere et curare similiter promisit dicti consulibus quod dictus Frater Fulcho et dictus Con-tinus similiter promisit et convenit dictis consulibus ita tacere et curare quod dictus Obertus Rapalliuus atendent complebunt et observabunt et rata et firma habebunt et tenebunt perpetuo omnia ea et singula que continentur in presenti instrumento et contra ea modo aliquo non venient ipsi nec alter eorum. Alioquin promisse-runt dare et solvere pro quolibet et qualibet vice dictis consulibus dictos soldos viginti ut supra de aliis scriptum est. sub predicta pena et sub ypotheca bonorum suorum. Renunciantes iuri de principali et omni iuri. Actum lanue in clapa comunis lanue ubi venduntur panni. Testes Sozobonus tornator de Ripa, et Martinus Ru beus de Verona. Anno dominice nativitatis MCCLXXIV Indicione prima die VIII iulii ante terciam. m. I drappieri di Ripa, adunatisi a richiesta dei loro consoli, dichiarano d’attenersi in tutto e per tutto agli statuti e ordinamenti dell’arte che ripetono e riconfermano. (Notaro Antonino De Quarto, reg. I., an. 1254 in 1280, f. 159, R. Archivio di Stato Genovese). Ottobre 12S0. Infrascripti draperii de Ripa lamie cohadunati in simili in apotheca quam tenet Gandulphus Capharinus ad requisicionem consulum ipsorum draperiorum et eorum propriis voluntatibus unanimi ter fecerunt inter se et ordinaverunt infrascripta statuta, et ordina- Giorn. St. e Lett. della Liguria. 20 - 2‘JO - menta, et promis serunt ipsi et quilibet ipsorum inter eos, unus alteri vicissim et eciam jnfrascriptis consulibus ipsorum draperiotum recipientibus pro se ipsis et nomine omnium et singulorum, et pro comunitate draperiorum ripe .attendere complere et observare omnia et singula infrascripta statuta, sive ordinamenta, et omnia que in ipsis continentur et attendi et observari facere nec contra ipsa statuta seu ordinamenta vel aliquid quod contineatur in ipsis facere vel venire et imo ipsa ordinamenta et statuta in omnibus ei per omnia usque ad annum unum proximum inviolabiliter observare et contra non facere vel venire sub pena et penis in dictis ordinamen-tis, sive statutis contentis et quam penam sive penas promiserunt supradictis consulibus et stipulaverunt per ipsos consules exigi debere semper a quolibet contrafaciente prout in dictis statutis sive ordinamentis continetur. Que quidem statuta sive ordinamenta. fecerunt ipsi draperii semper ad honorem Dei et Beato Virginis Marie èt Beatorum appostolorum Simonis et lude, ad honorem et e-xellenciam domini potestatis Ianue dominorum capitaneorum coni unis et populi Ianue domini abbatis conestabulorum fellicis societatis et tocius populi Ianue et salvis semper mandatis ipsorum dominorum potestatis et capitaneorum, Que quidem statuta et ordinamenta sunt liec. Primo statuunt et ordinant omnes predicti draperii quod ipsi et quilibet ipsorum teneatur habere arma eis ordinata, et que ordinabuntur et cum ipsis armis semper ire et reddire ad mandatum dominorum capitaneorum et abbatis conestabulorum fellicis societatis populi Ianue ad servicium et defensionem et manuteni-mentum ipsorum et se opponere toto posse contra quamcumvue personam, volentem ipsos vel aliquem ipsorum offendere, vel minuere, de statu et honore ipsorum vel alicuius eorum. Item quod quolibet ipsorum teneatur et debeat celebrare et testare festa infrascripta, et dies infrascriptos videlicet omnes dies dominicas, festa Beate Ma rie. Sancte Crucis, duodecim appostolorum, quatuor evangelistarum sancti Marci, sancti Georgii, sancti Laurencii, sancte Margarite, sancti Ioliannis Batiste, sancti Michaelis. sancti luce, sancti Martini, festum omnium Sanctorum. Epiphanie. sancti Antonii, Conversionis Sancti Pauli. Sancte Cathaline. festum decollacionis Sancti Ioliannis. Sancti Syri Ianue. Sancti Francischi. Sancti Dominici, Sancti Nicolai. Sancti .......... et Sancte Marie Magdalene. Item teneantur omnes draperii et quilibet ipsorum teneatur non emere per se nec per aliam submissam personam aliquem d rapum alicuius tinctorie nec ab aliquo tinctore qui emat sive emerit drapos blan-cos pro tingendo, et qui vendat eos in clapa. vel in alia parte postquam eidem draperio sive draperiis fuerit denunciatum per consules vel alterum ex eis sub pena de soldis decem pro qualibet pecia. et quod aliquis draperius non debeat dare nec dari facere alicui ex dictis tinctoribus qui fecerint ut supra aliquos pannos, ad tingendum sub pena de soldis decem , pro qualibet pecia tincta. Item te- — 291 - netur non credere nec credenciam facere dicti draperii ad minutum, sive in grosum alicui persone quo ........... vel alii pro ea sive eius occasione, a ponte de Sancta Agata ultra, versus levantem nec ab ecclesia sancti Lazari ultra versus ponentem nec alicui persone que emat pro supradictis personis vel earum occasione aliquid quod pertineat ad artem draparie in grosum sive ad minutum sub pena de soldis duobus per quamlibet libram precii cuiuslibet rei vendite. Item teneantur omnes draperii et quilibet ipsorum nec credere nec credenciam facere aliqui persone que emat pannos frasatas seu aliquid quod pertineat ad artem draparie exceptis canabaciis et tei 1 i s a soldis centum infra. Salvo dominis capitaneis et eorum nunciis salvo si venditor poterit liabere banchum in quo scribatur pecunia pignus vel monetam cuuiatam possit tunc facere credenciam illi de eo quod sibi vendiderit, nec eciam possit seu debeat credere aliquid sub aliquo ingenio exceptis predictis nisi primum habuerit monetam cuniatam in pignore vel pignus que sive quod valeat debitum sine precium rei vendite, nec debeant permittere extrahi raubam de sua virtute nisi primo habuerit pecuniam sive pignus, vel banchum sub pena de soldis decem pro quolibet et qualibet vice. Item teneantur emere illi qui emere voluerint arbaxios et agninos ad precium factum et certum et non ad proficuum, nullo modo in Ianua, nec facere mercatum cum aliquo huius mundi ad proficuum nisi ad certum precium sub pena de soldis (?) per libram salvos quod unus draperius possit vendere alii ad proficuum vel sicut voluerit. Item teneantur omnes draperii et quilibet ipsorum per se et eorum nun-cios accipere de tota rauba quam vendiderint denarios quatuor per libram pro tolta et alicui persone non vendat drapum fustaneum nec aliquid quod pertineat ad artem draparie expeditum de tolta, salvo illis qui habent convencionem et hec sub pena de soldo uno pro qualibet vice et quolibet contrataciente. Item teneatur quilibet draperiorum per se nec aliquam aliam personam pro eo vel eius occasione non incantare sive incallogare aliquam domum sive apothecam aliqui draperio sub pena librarum viginti quinque pro quolibet contrafaciente. Item teneatur quilibet draperius non vendere pannum fustaneum telas cauabacias ad retagium brachiorum quinque alique persone cui detur presam ad duo brachia nisi voluere in cana sicut factum est draperiis quando emuut et hec observentur sub pena de soldis quinque pro qualibet vice, et pro quolibet contrafaciente. quam penam semper dicti consules a contrataciente exigere teneantur. Item teneantur omnes draperii et quilibet ipsorum teneatur, quando emerint aliquos fustaneos. canare de qualibet balla fusta-neorum de Mediolano et de Placencia et de Papia, et. omnibus locis pecias duas usque................... (Manca il seguito. — L'atto antecedente ha la data, del 1280, 7 ottobre). — 292 - IV. Alcuni porporai, riunitisi, stabiliscono « facere bene et legaliter purpuras et pannos deauratos ». (Notari ignoti. — Agosto, 1255, ad an., R. Archivio di Stato Genovese). Cuni iu ministerio purpurarie quandoque fraudes reperiantur et reperiri soliti sint in eo quod panni deaurati et purpuie lepoiiun-tur de minori longitudiue palmorum duodecim et latitudine palmo-ram sex, sicut esse debent de predictis mensuris et eciam in dictis purpuris et panis apponatur et apponi consuevit bumbecium filum et lanam quod esso 11011 debet. Ideoque Iohannes purpurerius de Castro. Ansaldus purpurerius do Sancto Matheo , Eaymundus purpurerius de Sancta Agnete. Nicolaus purpurerius de Sancto Matheo. Iohannes ferrarius purpurerius. Iohannes Botellus purpurerius. I-senbardus purpurerius. Iaqobus de Sancto Donatus purpurerius, Euricus purpurerius. Vassallus de Predi. Guillielmus purpurerius do Sancto Matheo. Iacobus purpurerius de Predi e^Obertus de Sancto Ambrosio purpurerius, ad honorem Dei et ad refonnacionom ministerii ipsorum taliter inter se convenerunt et pacti sunt et tran-sigerunt videlicet quia promiserunt inter se ad invicem solempni stipulacione, unus alteri de cetero usque ad annos duos proximo completos facere bene et legaliter purpuras et pannos deauratos et de predictis mensuris et aliquam fraudem in eis 11011 committere seu committi facere per se vel aliquem laboratorem suum ipsorum seu aliquam personam pro eis vel habentem causam ab eis. nec filum neque bumbecium seu lanam in eis apponere seu apponi facere aliquo modo qui dici vel excogitari possit. Item convenerunt salvo quod propter filum quod est in auropello de Lucha. aliquis propte-rea non possit nec debeat................ (Manca il seguito. — L’atto antecedente è stipulato in Genova, nella casa di Enrico di Serrino, nell’anno 1255, all’ indizione duodecima, il giorno 23 d’Agosto). V. Costituitasi la società dei porporai con due consoli, questi ricevono promessa formale che gli statuti da emanarsi prossimamente saranno osservati. (Nof Angelino de Sigestro , Reg. 1 , an. 1257 in 1258, f. 185 v., R. Archivio di Stato Genovese). 15 Novembre 1257. Nos Iohannes purpurerius de Castro, lohanninus eius filius. Iacobus purpurerius de Sancto Donato. Iohannes Borellus purpurerius de Sancto Donato. Salietus purpurerius do Castro. Iohannes — 298 - Ferrus purpurerius (le Sancto Donato, Enricus purpurerius de Sancto Ambrosio. Wilielminus filius Petri boni draperii. Ansaldus pur-piirerius de Sancto Matlieo. Nicolaus purpurerius de Sancto Matheo. Iacobinus filius quondam Isenbardi purpurerii. Guillilmus purpurerius de Sancto Matlieo. Itayniondus purpurerius de Sancta Agnete. Yassallus purpurerius de Prodi, lohanninus filius quondam Isenbardi purpurerii, convenimus et promittimus vobis Iacobo de Predi pur-purerio et Oberto de Sancto Ambrosio purpurerio consulibus nostris recipientibus liane confessionem et promissionem tam nomine nostro quam nomine aliorum consulum, qui pro futuro tempore erunt, in arte nostra purpurarie, attendere complere et observare quidquid vos dicti consules una cum Ansaldo de Sancto Matlieo Iacobo de Sancto Donato et Ioliannino de Castello, et consilio eorum vel maioris partis eorum ordinaveritis statueritis circa artem nostram predictam et ordinamenta que circa ipsam artem feceritis et ordinaveritis consilio predictorum vel maioris partis eorum observabimus in omnibus et per singula secundum quod ordinata fuerint modo predicto et in aliquo contra non veniemus, et penas statutas ot ordinatas inipsis statutis seu ordinamentis solvemus et dabimus secundum quod per vos vel successores vestros in dicto consulatu, ordinata et precepta fuerint, predicta omnia et singula promittimus vobis attendere complere et observare et in aliquo predictorum contra non venire alio quando penam librarum vigiliti quinque lanue pro quolibet nostrum contrafaciente. si in aliquo predictorum fuerit eontrafactùm et. quociens vobis stipulantibus promittimus que pena tociens comitatur et exigi possit cum effectu a quolibet contrafa-ciente quociens in aliquo de hiis ordinamentis consilio predictorum vel maioris partis eorum fuerit contrafactnni ratis semper manentibus omnibus ot singulis supradictis et ordinatis per vos et predi-ctos, pro pena vero et predictis omnibus observandis universa bona nostra habita et habenda vobis pignore obligamus, et confitetur dictus lohanninus quondam Isenbardi verbotenus se maiorem esse annis viginti quinque. Versa vice nos predicti Iacobus et Obertus convenimus vobis predictis attendere et observare quicquid ordinatum fuerit per nos consilio predictorum vel maioris partis eorum in futuris consulatibus sub pena predicta et bonorum nostrorum obli-gacione, Testes Iacobinus exeeutor capitauei, et Wilielmus Fontana candellerius. Actum lanue in Ecclesia Sancte Marie de Vineis anno dominice nativitatis MCCLVII Indieione XV die XV Novembris inter terciam et nonam. — 294 — VI. Alcuni coltellinai promettono di osservare gli statuti che i consoli dell'arte insieme con altri sono per {stabilire ad utilità, profitto e o-nore comune. (Not. Matteo de Predono, reg. II, anno 1259 in 1268, f. 51 r., R. Archivio di Stato Genovese). 24 Febbraio 1262. «J* In nomine domini amen. Infrascripti cui tolleri i promiserunt Anseimo cultellerio et Septembri cnltellerio Consulibus dicti misterii et recipientibus infrascripta officio consulatus et comunitatis dicti misterii attendere et observare quidquid per Biantnm cultellerium Angellinum cultellerium Iohannem Basorerium lacobum Placentinum de ripa Iobannem Rubeum de Siria, Iohannem de Clapeto Symonem Tesurerium de Susilia et Ivanum de Susilia ordinatum et statutum fuerit super ministerio eorum vel per maiorem partem ipsorum scilicet ad utilitatem proficuum et honorem ministerii cultelleriorum hinc usque ad mensem unum predicta quisvis attendere et observare sub pena soldorum decem lanue dictis Consulibus recipientibus officio Consulatus in quam penam incidat ille qui contratecerit firmis manentibus predictis. et quorum soldorum decem pene medietas sit operis et alia medietas comunitatis dicti ministerii et sub obliga-cione bonorum suorum predicta omnia et singula promiserunt attendere et observare salvis semper mandatis et preceptis potestatis lanue et domini capitanei. Actum lanue in Ecclesia Sancti Ambrosii, Testes Iohannes de Acorvali ferrarius Amicus Turgius ferrarius et Beni ardus calderarius Anno dominico nativitatis MCCLXII Indizione quarta die XXII1I februariis inter terciam ot nonam Nomina quorum cultelleriorum sunt hec: lohanninus Cesererius de Monelia, Girardus de Rosereria Petrinus de Valestafora Piconus cultellerius lohanninus de Castello Obertinus de Cinestredo Iohannes Frescura Brignonus Wiiielmus de Pernego Uguetus de Rosereria Stephaninus de Brabelo lohanninus de Monleone Ivaninus de Bargalio Obertus de Savignono Iohannes Ermirius \\ ilielmus de Messana Obertanus Iacobus de Monterego Iohannes Placentinus Rollandus Iohannes Brondus Saladinus Bernardus de Hipa Aleguerins Martin us Calamai' Schabia Guibertus. Doncellus Iohannes Grossus Paschalis de Rapallo Bertliolinus lohanninus Cesorerius Mussus Iohannes Bellus Si-monetus de ripa Simon Grossus. — 295 — VII. Capitoli della Corporazione dei balestrieri. (Not. Vassallo ni! Porta, reg. I, an. 1275 in 1286, f. 171 v., R. Archivio di Stato Genovese). 18 Febbraio 1275. In nomine domini am en. Iohannes Lungus balistarius et Obertus de Riparolio balistarius Consules balistariorum Tacobus de Petra-rubea. Guillielmus desiderius Gregorius filius Ioliannis Lungi. Lan-francus de Fondico. Iobannes de Strupa. Guillielmus de Vallescrivia Cuiotus de Montepedencio. Obertus de Petrarubea. Guillielmus de Rugamezano. Egidius de Varisio. Nicolaus de Monleone. Iohannes do Monleone. Duratus de Levanto. Guillielmus de Modulo. Iacobus barberius de porta Arduinus de Langasco. Iohanninus de Montali. Gaudulfus de Unelia. Gandulfus de-- valleavanti, et Iohannes de Can-deasco. omnes balistarii, statuerunt ordinaverunt et inter se contra-serunt ut infra, videlicet quod si ad manus alicuius predictorum venerit aliqua res seu aducta fuerit ad vendendum que credatur esse sive fuisse alicuius balistarii sive que pertineat ad artem balistarie quod ille teneatur hoc notum facere quam citius poterit Consulibus balistariorum qui sunt vel pro tempore fuerint et rem illam in se retinere. Item quod aliquis predictorum non emat neque emere debeat, aliquos fustos geritos. a quinquaginta fustibus supra nisi pre-sentes fuerint dicto vendicioni Consules balistariorum qui sunt vel pro tempore fuerint, aut quatuor homines ex supradictis. Item quod aliquis predictorum non emat neque emere debeat aliquos fustos in mari. Item quod aliquis predictorum non emat neque emere debeat aliquos fustos, qui non sint boni grossi et utiles, pro streva et pro duobus pedibus salvo quod emere possint parvos fustos cum voluntate Consulum qui sunt vel pro tempore fuerint. Item quod aliquis predictorum non portet neque portare debeat, causa vendendi a duabus balistis supra, extra districtum Ianue videlicet in Tuscia et in Lumbardia. neque a Corvo, et a Monaco citra. Item quod aliquis predictorum non faciat credenciam de aliquo debito aliqui persone nisi do dicto debito securitatem habuerit ad voluntatem suam. Item quod aliquis predictorum non emat neque emere debeat a callis centum supra nisi ibi presentes fuerunt quatuor homines ex predictis. Item quod si aliquis predictorum emerit a centanario uno cornuo- runi supra..................... aliis magistris ad voluntatem eorum. Item quod si...... ........ab ipso, sine voluntate dicti magistri sui quod aliquis predictorum..........mulum receptare nec ipsi laborerium aliquod dare nisi se absentaverit. ...... et facto opere et culpa magistri sui. quod cognosci debeat per dictos Consules suos qui pro tempore fuerint et per quatuor homines — 296 — ex predictis. Item quoti omnes predicti teneantur ponere sive poni facere in quolibet tabulerio quod do cetero facient centuretam, ferri latoni sive cornus. Item quod aliquis predictorum non comodet neque comodare debeat aliquam balistam aliqui persone, ad aliquam monstram. Item quod aliquis predictorum non debeat laborare nec laborari fecere aliqui persone aliquem fustum nisi fortune ipsius cuius erit fustus et nisi primo habuerit pro laborerio dicti fusti denarios decem et octo Ianue. Item quod si aliquis de predictis con-trafecerit seu aliquis alius balistarius qui absens esset dicto ministerio, quod aliquis predictorum non debeat ei dare aliquod labore-rium, Item quod si aliquis famulus alicuius predictorum exiet a magistro, quod de predictis omnibus et singulis teneatur, predicta o-mnia et singula supradicti promiserunt inter se ad invicem atten dere complere et observare et contra non venire usque ad annos duos proxime venturos sub pena et banno soldorum quadraginta Ianue pro quolibet et qualibet vice cuius banni et pene voluit quod sit et esse debeat torcia pars comuni et duo partes dentur et solvantur supradictis hominibus arbitrio dictorum Consulum vel aliorum consulum qui pro tempore fuerint pro qua pena et ad sic observandum omnia bona sua supradicti unus alteri pignore obligaverunt et quam penam et bannum teneantur dicti consules vel alii consules qui prò tempore fuerint exigere a contrafaciente sub pena et banno soldorum centum Ianue et predicta omnia statuerunt ordinaverunt et contraxerunt salvis semper in omnibus et per omnia mandatis dominorum potestatis et capitaneorum et ut de predictis omnibus et singulis supradictis possit fieri plena fides voluerunt et me notarium rogaverunt ut inde facerem publicum instrumentum. Actum Ianue in logia Cardinalis Ricci ante apothecam in qua laborat dictus Iohannes Lungus anno dominice nativitatis MCCLXXV inditione II, die XVIII februarii inter primam et terciam testes Rollandus magister de fondico. Lanfrancns ile Savignono censarius et Iacobinus de Fondico magister, plura instrumenta unius tenoris inde me supradicti fieri rogaverunt. VIII. 1 consoli dei balestrieri con altre persone dell’arte riconfermano lo statuto precedente e v’aggiungono nuove disposizioni. (Not. Vassallo de Porta, reg. I, an. 1275 in 1286, mezzo foglio volante fra il 171 e il 172, R. Archivio di Stato Genovese). 3 Marzo 1275. In nomine domini amen. Nos Iohannes Lungus, et Obertus de Riparolio. Consules balistariorum Iacobus de Petrarnbea. Guillielmus Desiderine. Gregorius filius Ioliannis Lungi. Lanfrancus de Fondico nomine suo proprio et nomine Oberti fratris sui, Iohannes de Strupa. Guillielmus de Vallescrivia. Guiotus de Montepodencio — 297 - Obertus do Petrarubea. Guillielmus do Rugomenzano. Egidius de Varisio. Nicolaus de Monleoue. iohannes de Monleone. Duratus de Levanto. Guillielmus de Modulo. Iacobus barberius de Porta. Ar-duinus de Langasco. lohanninus de Montali. Gandulfus de Unelia. Gandulfus de Valleavanti. Iohannes de Candeasco. Gigans de Porta et Guillielmus Lombardus omnes balistarii statuimus ordinamus et inter nos contrahimus ut infra videlicet quod si aliquis nostrum dixerit vel fecerit aliquam injuriam seu villaniam alicui alteri nostrum quod Consules supradicti vel Consules qui pro tempore fuerint possint ipsum vel ipsos qui dixerit vel fecerit iniuriam seu villaniam eondempnare a soldis quinque usque in soldos viginti in arbitrio dictorum consulum et quatuor consiliariorum quos dicti consules habuerint. et si aliquis nostrum dixerit aliquam villaniam dictis Consulibus vel alicui ipsorum quod condempuari possit per consules de conscilio suorum consciliariorum a soldis viginti usque in soldos quadraginta arbitrio ipsorum. Item quod si aliquis nostrum invenerit ad vendendum aliquam quantitatem fnstorum ipsos teneatur e-mere et inquirere bene et legaliter cum quatuor ex nobis .... .........nec cernere et de eis teneatur similiter concedere et.........ex nobis ad voluntatem nostram sine eo quod aliquod lu..........aliquis nostrum emerit a centanario uno Callorum supra quod teneatur..... ......nostrum qui do eis voluerit sine aliquo lucro. Item quod aliquis.........dare concedere sive prestare aliquod ferramentum sive aliquod.........pertineat ad artem balistarie, alicui alteri persone (pie nolit stare ad mandatum ...........Consulum balistarioruin qui sunt vel pro tempore fuerint predicta omnia et singula supradicta promittimus inter nos vicisim attendere complere et observare et contra 11011 venire usque ad annos duos proxime venturos sub pena soldorum quadraginta lanue in quam penam incidit, non observans dictis Consulibus et predicta statuimus ordinamus et inter nos contrahimus salvis semper mandatis dominorum potestatis et capita-neorum et salvis his omnibus de quibus fit mencio in instrumento scripto manu Vassalli de Porta notarii MCCLXXV die XVIII februarii et ut de predictis possit fieri plena fides vollumus inde fieri publicum instrumentum. Actum lanue in logia Cardinalis Ricii ante apothecam in qua laborat dictus Iohannes Longus anno dominice nativitatis MCCLXXV. indicione II. die tercia Marcii, inter terciam et nonam testes Iohannes quondam Ingouis Contardi notarii. Obertus Scarpa ferrarius, et Rollandus capsiarius de Fundieo. — 298 — IX. Ire fratelli batti fogli promettono di dare agli scudai tanto stagno preparato quanto occorrerà loro per i consueti lavori e secondo le misure depositate presso i consoli dell’arte scutaria. (Not. Iohannino DE Pkedono, cart. 1230, f. 270, R. Archivio di Stato Genovese). 18 Novembre 1235. In nomine Domini Amen. Nos Nicolaus batifilium, Thomainus et Detesalve fratres quilibet nostrum in solidum promitimus et convenimus vobis Villeimo de Ponte Ardoino Iacobo Moise de Laudo Iohannis Scuario de Varoxio. Hubaldo de Strata, Hainaldo de La-vania Mostino de Rapallo Iohanni Scrobaspeto Amiceto de Placentia Iohanni Vaclie et Gir ardo Episcopo Stabilino Rolando de Sambu-xeto Iohanni de Monleone et Oberto de Valdetario omnibus scuariis dare concedere et vendere vobis per nos vel nostros laboratores a Pascha proxime Resurrectionis usque ad decem annos tantum stagnum batutum et preparatala ad opus vestrum quantum cuilibet vestrum potest oportere in apothecis vestris lanue per vos et vestros laboratores tantum ita quod posta debeat esse duarum librarum et larga et longa secundnm mensuras quas inter nos concordabimus fieri et tresdecim vel duodecim filorum prout in his placuerit de quibus mensuris teneant unam Consules vestri Officii et aliam nos tali modo quod solvatis nobis quilibet pro parte sua quam accipiet denarios decem et octo pro qualibet posta dicti stagni videlicet quando stagnum sive cantarium stagni vendetur et valuerit soldos quinquaginta duos et si plus valuerit eandem rationem nobis dare et solvere debeatis et quando valuerit soldos quadraginta quinque denarios decem et septem et si minus valuerit eandem racio-nem et credere vobis et cuilibet vestrum postam unam stagni usque dies XV. Alioquin etc....... Actum lanue in palacio Fontanorum. Testes Bonusvassallus de Bargono scriba et dicti consiliatores die XVIII Novembris ante terciam...MCCXXXV. X. I pittori e gli scudai domandano insistentemente il risarcimento di tutti i danni inferii loro dai facinorosi durante i Uimulti avvenuti in città. (Not. De Rapallo Ambrogio, reg. II, f. 168, R. Archivio di Stato Genovese). 22 Maggio 1302. In nomine Domini amen. Infrascripti scutarii et pinctores atquo aliarum arcium infrascriptorum, omnes de vicinia Scutariorum lamie, nomina quorum sunt hec Iohannes Cazarex, Vivianus scutarius, Peyre de Guascho, Obertus de Sigestro pinctor , Iohannes O- - 299 — pizonis pinctor, Bertholinus batistagnum, Ioliannes Ispaueus, Simon Irenerius Brecius de Varisio scutarius, Vicecomes batistagnum, 0-bertus Bassus sellarius, Luchetus de Solario de Levi pinctor Fran-cischus qui f'acit calegas nomine heredum quondam Bertolli Borri soceri sui pro quo herede seu heredibus promissit de rato, Frede-ricus de Tonegho scutarius, Petrus de Casalino nomine Iohannine uxoris sue prò qua promissit de rato, Andriolus de Avegno, Iohan-ninus de Buzalla, Rollandus de Cembrano, Niger sellarius, Gulliel-mus de Varisio, Gabriel de Naale, Acursus Mascarellus, Gullielmus Grillus scutarius , Lanfrancus scutarius , Iordanus scutarius , Item Bartolinus batistagnum, nomine Bonaye uxoris quondam Oberti de Varisio pro qua promisit de rato. Item Kollandus de Cembrano nomine Agdeline cognate sue pro qua promisit de rato. Item Frede-ricus de Tonegho nomine Filipi sellarii pro qno promisit de rato. Paulinus scutarius, Obertus Brayda, Item dictus Paulinus nomine Gullielmi Irenerii pro quo promisit de rato. Item dictus Paulinus nomine Floriete Frexatricis uxoris quondam Mussi scutarii pro quo promisit de rato. Item Niger sellarius nomine Mibii Frenerii pro quo promisit de rato. Item dictus Paulinus nomine Oberti de Levi pro quo promisit de rato. Item Gullielmus de Yarisio nomine Iohannine cuxitricis nebiatorum pro qua promisit de rato. Petrus for-narius. Item omnes predicti de dictis artibus nomine Derose scutarii pro quo promisit de rato. Item Acursus Mascarellus. nomine Iohau-uine filie sue pro qua promisit de rato, predicti et quilibet eorum unanimiter et concorditer nemine discrepante nominibus eorum propriis et nominibus illorum pro quibus ut supra promiserunt de rato, iecerunt constituerunt et ordinaverunt eorum et cuiuslibet eorum dictis nominibus certos noncios sindicos auctores et procuratores, et loco eorum et cuiuslibet eorum pro ut melius possunt Obertum Braydam, Vivianum scutarium et Paulinum scutarium eorum consules, atque Acursum Mascarellum et Obertum Bassum eorum co-nestabulos, nec non et Gullielmum de Yarisio omnes presentes et mandatum recipientes , ad agendum defendendum requirendum petendum exigendum et recipiendum tam in iudicio quam extra pro eis et nomine eorum et cuiuslibet eorum sicut eisdem sindicis et procuratoribus et auctoribus melius videbitur a dominis potestate abbate et ancianis comunis et populi Ianuensis et a quocumque magistratu judice seu officiali super hoc constituto et constituendo emendam restauracionem solucionem pagamentum et reliquatus restitu-cionis et sumarium et expeditum iusticie complementum de damno et damnis et occasione damni seu damnorum factorum seu illatorum, et illati predictis de dictis artibus et cuilibet eorum in persona vel rebus tempore rumorum qui in lamia fuerunt per rebelles populi Ianuensis et per partem guelfam et per quascumque alias per-senas publice et occulte et sive in pecunia sive in rebus tempore dictorum preliorum seu rumorum sive briglie et demum ad agen- - 300 - duin petendum exigendum et recipiendum quicquid et quantum dictis de causis et qualibet ex ipsis, recipere debent et petere possunt et possent. dicti nominibus et quolibet ipsorum a dicto comuni et a quacumque alia persona collegio vel universitate seu corpore et ad solucionem et soluciones inde recipiendum et consequendum sicut eisdem sindicis et procuratoribus videbitur, ad se quietos et solutos vocandum et tinem quitacionis remissionis libera,cionis absolutionis iurium cassacionis pactum transactum et compromissum seu compromissum faciendum de predictis et quolibet predictorum et super predictis damnis et occasione predictorum damnorum et cuiuslibet ipsorum, et inde contrahendum confitendum et promittendum secundum quod eisdem sindicis et procuratoribus placuerit in quocumque genere contractus eciam in laudem sapientis , et predictos de dictis artibus et quemlibet eorum dictis nominibus propterea o-bligandum et ad omues causas lites questiones et controversias quas dictis de causis vel aliqua earum habent vel habere sperant cum dicto comuni et quacumque alia persona collegio vel universitate, tam in agendo quam in defendendo coram quocumque iudice et magistratu, ad libellum et libellos et titulum et titulos dandum et recipiendum litem et lites contestandum partitiones faciendum positionibus respondendum juramentum calumpnie in anima eorum et cuiuslibet eorum prestandum et cuiuslibet alterius generis juramentum subendum, testes instrumenta scripturas et cartas producendum e-xibendum et reprobandum exceptiones faciendum contradicendum Indices assignandum terminos et dilationes petendum , et recusandum , protestandum jurandum rogandum allegandum replicandum sententiam et sentencias audiendum et appellandum quotienscumque dictis procuratoribus et sindicis videbitur et appellationes si opus fuerit prosequendum, et generaliter ad omnia et singula demum faciendum in predictis omnibus et singulis que merita causarum in omnibus suis clausulis postulant et requirunt et quecumque facere possent predicti de dictis artibus si present.es essent dictis nominibus et que per vevos et legittimos procuratores fieri et tractari possunt. Dantes et concedentes dictis nominibus dictis sindicis auctoribus et procuratoribus in predictis omnibus et quolibet predictorum liberam et generalem administracionem licentiam et bayliam et. liberum et generale et speciale mandatum jta quod in liiis in quibus a jure exigitur speciale mandatum intelligantur specialiter constare, et juraverunt tactis scripturis et. promiserunt dictis nominibus mihi notario infrascripto recipienti et stipulanti nomine et vice cuius et quorum interest seu intererit, se dictis nominibus ratum et firmum perpetuo habituros, et se facturos jta et taliter quod illi pro quibus ut supra promiserunt de rato, Ratum et firmum similiter habebunt et tenebunt perpetuo et quilibet eorum, omne id quod per dictos sindicos auctores et procuratores factum fuerit gestum administratum promissum confessatum vel procuratum in pre- — 301 - dictis seu aliquo predictorum sub ypotlieca et obligacione bonorum suorum , et voleutes eciam dictos procuratores relevare ab omni ho-nere satisdacionis promiserunt dictis nominibus mihi notario pre-dicto stipulanti nominibus seu nomine quo supra iudicio Sisti dictis nominibus et indicatum solvi in omnibus suis clausulis pro dictis procuratoribus et quolibet eorum. Sub similibus ypothecis et obligacione bonorum suorum. Et qui dicti sindici auctores et procuratores aceptantes et recipientes dictum procuratorem juraverunt tactis scripturis voluerunt et promiserunt bona fide et sine fraude eorum posse facere exercere procurare et administrare in predictis omnibus et singulis ut supra sub symili ypotlieca et obligacione bonorum suorum. Actum Ianue in ecclesia Beati Laurencii anno dominice nativitatis MCCCII, indicione XIIII, die XXII madii circa nonam testes. David de Pinu executor et Grualterinus de Predono. XI. I sensali promettono la più scrupolosa osservanza degli ordinamenti che stanno per imporre i nuovi consoli dclVarte. (Not. Angelino de Sigestro e Gioachino Nepitella, reg. I, f. 342, R. Archivio di Stato Genovese). 30 Novembre 1258. -4* Nos Pascalis de Susilia. Nazarius taliator. Octo de Cremona. Iacobus Saco de Buse. Iordanus bauibaxarins , Iolianninus bamba-xarius. Obertiuus Cerveleria. Vivianus de Saucta Savina. Iohannes de Muroco frater Iacobus de Ast. Tolianniuus Berati. Gervasius de Brugna. Iohannes Malbeius. Martinus de Avosto Wilielmus de Cul-telleriis. Arnaldus Iordanus. Girardus Picenus de Milano. Girardus de Orto. Wilielmus Provincialis de Sancto Georgio. Wilielmus Da-chenus. Wilielmus de Verona. Armanus de Carexeto. Iohannes Po-licinus. Ruffus de Fondico. Obertus de Bergalio. Nicolosus de Mo-nelia. Pascalinus de Sancto Stepliano. Obertus de Cogoleto. Wilielmus Brundus. Garexius de Predi. Iohannes Burbugius. Ogerius Cre-xembonem. Iacobus de Firburgo. Wilielmus de Vercellis de Cremona. Bernardus Batigacius de Lucha. Wilielmus Mola, Fredericus Bruudus. Cremona de Cremona. Florius de Pergamo. Ianebonus de Cremona. Petrus Ferrandus. Simon de Papia omnes censarii et de oiiìcio sive arte censarie quisque nostrum in solidum convenimus et promittimus vobis Paschali candellerio Dominico Bertari consulibus nostris recipientibus liauc confessionem et promissionem tam nomine nostro quam nomino aliorum consulum qui de cetero fuerint in dicta arte sive officio censarie et hoc ex pacto adhibito inter nos et vos in presenti contractu, quod nos et quilibet nostrum per se attendemus et observabimus et in alijs contra non veniemus quidquid vos dicti consules una cum Ansaldo Brando, Oberto Placentino, Nicolao de Muroco. Iacobino Brando, Armano Placentino Enrico lio- - 302 - destropo. Clarito Fiorentino. Nicoloso Rubeo ot Montegrosso , voi raaiori parte ipsorum ordinaveritis seu per vos cum eis ordinatum fuerit super officio nostro sive arte censarie ad utilitatem dicto artis et ad providendum super dicto officio sive arte sicut vobis vel maiori parte predictorum una vobiscum placuerit quod ad utilitatem diete artis sive officii, et ordinamenta que circa ipsam artem sive officium ordinaveritis et facietis, una cum predictis vel maiori parte eorum seu facta fuerint observabimus penitus et in totum et penas impositas et imponendas in ipsis ordinamentis seu statutis factis et faciendis et que fi eri t de cetero per vos et successores vestros in dicto officio sive arte una cum predictis decem electis vel elligendis per ipsos consules, solvemus et satisfaciemus iuxta voluntatem vestram et aliorum consulum qui pro tempore fuerint in dicta arte sive officio predicta omnia et singula quisque nostrum in solidum promittimus et convenimus vobis predictis Pascali et Dominico attendere, complere et observare stipulacione solemni et in aliquo predictorum contra non venire sub pena librarum decem lanue pro quolibet nostrum vobis solemniter stipulata et a nobis promissa si de predictis vel aliquo predictorum contrafactum fuerint et quociens contrafactum fuerit et obligatione bonorum nostrorum, que pena peti et exigi possit cum effectu per vos et successores vestros in dicto consulatu, a quolibet contrafaciente, ratis nicliilominus omnibus et singulis supradictis. versa vice nos predicti Pascalis. Dominicus. Ansaldus Brundus Obertus Placentinus. Nicolaus de Mnroco , Iaco-binus Brundus Armanus Placentinus. Enricus Todesclius. Claritus Florentinus. Nicolaus Rubeus. Petrus Romanus et Montegrossus quisque nostrum in solidum convenimus et promittimus vobis supradictis omnibus et singulis attendere, complere at observare quic-quid per nos vel maiorem partem nostrum ordinatum et decretum fuerit circa artem et officium censarie et penas impositas et imponendas in statutis et ordinamentis factis et que de cetero fient per nos et successores nostros in dicto consulatu de consensu nostro vel maiori parte nostrum vel aliorum successorum nostrorum cum aliis decem electis vel eligendis per eos attendemus et observabimus et in aliquo predictorum contra non veniemus, sub pena librarum decem lanue pro quolibet nostrum vobis solemniter stipulata et a nobis promissa si in aliis predictorum contrafactum fuerit et quociens et bonorum nostrorum obligacione. que pena peti et exigi possit cum effectu per partem observantem a non observanti , ratis nihilominus supradictis. Predicta omnia et singula facimus et fecisse confitemur salvis semper capitulis ordinamentis preceptis domini ca-pitanei factis et faciendis. Ita quod si per presens contractum esset contra ordinatum aliquid domini capitanei seu contra aliquod capitulum statutum vel ordinamentum comunis lanue quod habeatur pro non facto et si ex nunc nullius momenti. Testes Caxeta faber et Lambertus faber filius Oberti Grossi. Actum lanue in ecclesia - 303 — Sancte Mario in Vineis anno dominice nativitatis MCCLVIII Iudi-ciono prima, die ultima novembris inter nonam et vesperas, plurima instrumenta eiusdem tenoris de predictis fieri rogaverunt factum est pro Consulibus* XII. Compromesso in cui son ricordati i consoli dell1 arte dei Macellai. (Not. De Sexto Palodino, Filza I, f. 153 r., R. Archivio di Stato Genovese). 20 Gennaio 1250. Nos Oliverio de Prato ex una parte et Albertus de Monte Martino do Mercato grani ex alia compromittimus in te Ingoiiem Gon-tardum notarium presentem quem nostrum arbitrum et arbitrato reni et amicabilem compositorem et largam potestatem eligimus , occasione promissionis et cauptionis quam ego Albertus feci consulibus macelatorum Ianue sive in consulatu furitanorum pro Petro de Val-lestafora cognato meo occasione quartinorum sex grani seu librarum trium Ianue pro ipsorum extimatione quos a dicto Petro petebam ego Oliverius etc..........Actum Ianue ante domum quam liabitat Aymus specialius MCC quinquagesimo. Inditione septima, die vigesima Ianuarii post vesperas. Testes Iohannes Ferrarius draperius et Iohannes Bonihomiuis de Suxilia. XIII. Memoria del vice console dei mulattieri. (Not, Bartolommeo Pareto, reg. 1, an. 1274 in 1290, f. 86 r., R. Archivio di Stato Genovese). 4 Giugno 1278 «Ì» Ego Iohanna filia quondam Nigri de Raynerio da Montanexi, confiteor tibi Marchexino de Milliarino, recepisse et habuisse a te soldos vigiliti Ianue. quos michi dare promisisti occasione precii terre quam tibi vendidi et que est ubi dicitur Issulella de quo pa-recio factum fuit instrumentum manu Bartholini de Faxolo notarii MCCLXXVI, diem XV septembris et quam cartam Castellinus bar-berius procurator meus meo nomine peciit execucioni mandari coram Ambrosio de Brolio gerente vices Consulatus mulionum a qua peticione execucionis desisto etc........Actum Ianue ante ecclesiam Sancti Laurencii millesimo CCLXXVIII Indictione V, die IIII Iunii. hora none. — 304 — XIV. 1 consoli dell'arte dei muratori sono eletti arbitri in una controversia. (Atto del Not. Ugolino de Scarpa. Da una copia delle carte mss. dell’Alizeri, passata alla Soc. Lig. di St. Pat. , fase. II, (Documenti inediti : Palazzi e caseì — c. 7S5, num. a matita). 11 Ottobre 1273. In nomine Domini amen. Nos Symon Cannis magister antelami sive lapidum et Marcliisius de Sancto Donato magister antelami sive lapidum, Consules hominum artis magistrorum de petra, arbitri et arbitratores et amicabiles compositores et large potestatis electi inter Fulchinum de Caneva de Sauro ex una parte et Iacobum textorem ex altera etc.........Actum Ianue in apothec.a canonice Sancti Laurentii in qua scribit David de Sancto Ambrosio Notarius. Anno dominice nativitatis MCCLXXIII Indictione prima die 11 Octobris prope nonam. Testes Kubaldus Bissarla, Balduinus Bocatius de Predono, Nicolaus Bochonus de Porta et Laurentius de Sancto Donato scriba. XV. Giovanni barilaio promette d’attenersi al lodo dei consoli dell’arte. (Not. Giovanni de Corsio, reg. VI, an. 1277 in 1282, f. 95, R. Archivio di Stato Genovese). 21 Gennaio 1278. In nomine domini amen. Ego Iohannes barrilarius de Varoxio promito et convenio vobis Carene barrilario et Zalchino barrilario de Clavaro consulibus artis barrilariorum dare et solvere vobis u-sque in quantitatem librarum quinque Ianue si usque in dicta quantitate me condempnabitis, occasione verborum que fuerunt inter me et Iohannem Labainum barrilarium de Sigestro et eius filium , de quibus iniuriis in vobis compromissimus, et attendere et observare quidquid milii precipietis dieta occasione usque in dictis libris quinque dando vobis dictam pecuniam ad vestram voluntatem et quando vobis placuerit. Sub pena solidorum centum Ianue a me vobis stipulata et promissa et sub obligacione bonorum meorum, ratis manentibus supradictis. et pro dicto Iohanne Albertus barrilarius eius frater de predictis omnibus et singulis versus dictos consules se proprium et principalem debitorem attendere et observare constituit, sub predicta pena et obligacione bonorum suorum. Renuntians iuri de principali et omni iuri. Testes Rufinetus Picus et Stephanus de Mascarana vinaterius. Actum Ianue sub archivolto stationis que fuit quondam furnariorum anno MCCLXXV1II inditione V die XXI Ia-nuarij post vesperas. - 305 — XVI. Oberto narlorc con la sua jamiglia rinnova ai consoli dell’arte dei sarti le promesse già fatte da questi a nome suo presso il consolato dei forestieri. (Not. Angelino de Sigestro e Ciocchino Nepitella, reg. I, an. 1257 o segg., f. 45 r., R. Archivio ili Stato Genovese). 14 Marzo 1301. In nomine Domini amen. Nos Obertus Sartor de Nicia de Lombardia et Caracossa jugales et Angellinus eorum filius quisque nostrum in solidum confitemur vobis Guilliolmo do Sancto Stepliano sartori, et Petro de Riparolio sartori consulibus dicte artis sarto-riorum recipientibus nominibus vestris et nomine liominum diete artis, actum fuisse inter nos et vos dictis nominibus in fideiussiones et obligaciones et promissiones quas pro me dicto Oberto fecistis in consulatu foritanorum versus Francischum de Ruffinis hoc anno et die super hijs et occasione eorum de quibus fit mencio in actis dicti consulatus foritanorum quod nos vobis dictis nominibus recipientibus ad infrascripta obligare deberemus et quod aliter dictas confessiones promissiones et obligationes facturi non eratis etc. . . ........Actum Ianue in porticu domus heredum quondam Symonis canzellarii Iudicis anno dominice nativitatis MCCCI Indictione XIII, die XIIII marci) in sero testes Valens Nepitella de Bissanne et Fredericus sartor de Monelia et Iohannes Canzella-rius Iudex. INVENTARIO DI BENI E ROBE DELL’OPERA DI S. MARTINO IN PIETRASANTA (APRILE 1420) (Continuaziouc e firn, cf. pag. 175). 76. Capsa. Cfr. n. 40 e 41. Questa conteneva, insieme alle candele dell’ opera, certe scritture e privilegi, forse di pergamena: “ instrumenta Ugualmente nell’ Ospedale di Poggibonsi: “ Una chasaccia vechia e tutta rotta cho inscriture drentovi „ (1). 77 e 78. Capsabanca. “ Capse a banco „ perchè aveano il doppio ufficio di sedili e di casse. La u capsa os- ci) Mazzi, op. cit., n. 110. Giorn. St. e Leti, della Liguria. 21 - 306 - serva giustamente il Galli (1), era più bassa, più larga, più lunga, con piedi lavorati, mentre il “ capsabanco „ era più corto e più alto di sedile, dovendo servire “ prò sedendo ad focum „. L’esclusivamente andrà per il pavese, non per altri luoghi, dove la “ capsabanca „ si trova, come i “ capsoni accosto al letto. P. es. POspedale di Poggibonsi ha: “ Una chasabancha a due serami, (questa nostra è ugualmente a “ duobus uccellis „), dinanzi al letto, e una “ chasabancha a due serami dapiei detto letto Di più c’ è u una panca dietro al detto letto „ (2). Era comunissimo l’uso di accostare alle lettiere di cosifatti mobili. Pure presso al letto è un’altra a chasapanca a due serrami, vechia „ (3). L’ “ arcibanco „ del castello di Massa è a u tres uccellos „ (4). Oggidì la cassapanca è un mobile da anticamera. 79. Securis. In tutti i castelli e nelle case di campagna è sempre notata fra gli arnesi di lavoro. L’inventario del castello di Montebello di Bellinzona, ha “ Secure 2 da manico da Ugnarne „ insieme a u falcini 6 da bosco „ (5). 80. Padella. Cfr. n. 32. 81. Statera. Indispensabile per pesare la legna, la carne e tante altre cose. Nell’Ospedale di Poggibonsi, una sta-teretta pesa libre cinquantatre “ da’ lato grosso „ (6). Nel castello grande di Bellinzona: “ Statera 1 grande de ferro con la bonzale de pred. „ (7) Due erano anche nella casa di Vallazzana: “ Stateris duabus „. 82. Feramenta : piastrellae. Similmente nell’ Ospedale di Poggibonsi: u Più feracj di più ragioni da farne pichola stima; chose vechie, antiche, di podio utile, fra’ quagli sì v’è uno ferro da trainare legname „ (8). A Vallazzana: (1) Op. cit, pagg. 22-23. (2) Mazzi, op. cit., 23, 24, 25. (3) Op. cit., n. 131. (J) Sforza, op. cit., 102. (5) E. Motta, in Bell, della Svizzera italiana, ann. XX (1S98), pag. 6. (6) Mazzi, op. cit., n. 70. (7) E. Motta in Bull della Svizzera ital., XII, p. 7. (fe) Mazzi, op. cit., n. 159. — 307 - “ PLastrellis et bulsonis quatuor de ferro e “ feramentis veteribus circa pondus unum „ (1), 83. Mensa. Cfr. n. 37. Qui sono ricordati anche i suoi cavalletti o trepiedi: “ cura trepedibus „. Le varie case Sacco ci offrono esempi della tavola divisa e dei trespoli: a Verona: “ Septem tabulas a mensa „ e u Item trexdecim trispos „ ; a Colà: “ Unam tabulam cum duobus trispis „ ; a Castione, invece, non c’era che un desco di rovere (2). Nell’Ospedale di S. Maria della Scala di Poggibonsi c’era “ Una thavola dj noce di braccia cinqua 1[2 o cercha cho trespoli Il Mazzi cita, dalla Crusca, che trespolo è arnese di tre piedi, uno dall’ un capo e due dall’ altro, sopra ’l quale si posano le mense (3). Anche il desco avea la tavola coi trepiedi: nello stesso Ospedale: “ Uno descho da famiglia, co’ trespoli chonfitti, e di braccia 3, vecchio „. Il desco, dunque, non era smontabile come la mensa perchè, oltre essere più piccolo, qui i piedi sono notati u confitti „ (4). Anche casa Aleardi avea due tavole d’abete con due “ tripodes „ di larice per ciascuna (5). a Duas mensas cum tripodibus „ sono nella casa di Gano di Siena (6). 84. Banchetus. Da non confondersi con le banchette che il Galli registra accanto ai letti (7), e sono una specie di sgabelli, ma non rotonde, anzi di forma rettangolare. Opportuno per distinguere i varii generi di sedili è il passo che il Du Cange riferisce da Speculum Saxon., lib. 3, art. 38 , § 4 : “ Mensam ornabit mensali, et bancum seu scannimi, pulvinari, ac sedile cussino da cui è chiarita anche la diversa attribuzione di “ pulvinare più grande, pel banco, onde il nome di u ban- (1) L. Staffetti, op. cit., n. 24 e 63. (2) Cipolla, Un amico di Cangrande cit., 84. (8) Op. cit., n. 7. (4) Op. cit., n. 9. (5) Op cit., d. 27. (6) Zdekauek, op. cit., p. 186. (7) Galli, La casa di abitazione a Pavia, pag. 21. Anche il 4. - 328 — A questa lettera , che porta la data di Fivizzano a’ 20 di gennaio del 1825, mandò il Frediani la responsiva seguente, che si conserva in minuta autografa, senza data, nella stessa Biblioteca Modenese; lettera tronfia di goffaggini pretensiose, che sviarono il Gerini dalla retta via delle ricerche e gli fecero prendere una cantonata: Gran piacere provai quando sentii che Ella avea ritrovato il bel quadro del Della Robbia, e maggiormente che oltre tornare tale scoperta sua ad incremento della pittura storica (!!), aggiunge lustro alla famiglia la quale ab antico ne fu di questo l’ordinatrice, voglio dii-e la Venturini ; il che luminosamente ci mostra quanto ella delle belle arti era amatrice, propensione che di raro si ha sennonché in chi dalla natura è fornito di qualche gusto. Dico poi Venturini, perchè l’arma di cui va quel quadro fregiato era di cotesta casata, e perchè esso in avanti apparteneva ad un altare posto in S. Francesco di Massa, di suo giuspatronato. L’ arma de’ Venturini di Massa porta nel campo la Fortuna nuda e bendata, sopra la ruota'; e quella descritta dal Gerini, secondo m’informa Giovanni Sforza, ò della famiglia Giandomenici. Si distrugge quindi la storiella inventata dal Frediani con palese intenzione di piaggiare, e va corretta la notizia del Gerini. Tutto il cui u amore del bello e dell’arte „ e tutta la sua u molta fatica e vigilanza „ per u mettere in sicuro „ la bell’opera d’ arte , non hanno impedito che questa, lui morto, pigliasse il volo per estranei lidi, in grazia di qualche suo erede non altrettanto amante dell’ arte e del bello. E pensare che, senza l’intervento delle cure geriniane, forse quell’ invetriato esisterebbe ancora in qualche remota chiesa del fìvizzanese, e potrebbe esser messo davvero u in sicuro „ salvandolo dalla morbosa avidità di qualche collezionista straniero! Ma si dice che bisogna tener conto delle buone intenzioni, e ci vuol pazienza! Ma quest’opera era proprio una delle due tavole del Buglioni, come mostra di credere il Càmpori ? Anzi tutto noterò che il Gerini asserisce essere stata quella scoltura, prima d’allora, nel Massese, e non precisamente in Massa; ma questo non infirmerebbe l’ipotesi, perchè si può ammettere che il Gerini non avesse più — 333 - precise indicazioni; tanto più se si considera che, quando il Frediani gli ha raccontato le frottole che sappiamo, egli le piglia per buone e stampa nelle sue Memorie che quel bassorilievo decorava un altare de’ Venturini nella chiesa di San Francesco di Massa. Ma v’è un fatto che mi pare di molta importanza, al quale non pose mente il Càmpori: il Buglioni dichiara nella sua quietanza di “ avere auto et receuto anome del magnificho signore marchese Alberigho „ il pagamento delle due tavole. Quindi bisogna inferirne che i due invetriati furono eseguili per commissione del Mala-spina; e allora come c’entrerebbe l’arme della famiglia Giandomenici ? Ma è d’altra parte necessario notare che se metà della somma fu pagata dal podestà del Marchese, 1’ altra metà il Buglioni 1’ ebbe dal procuratore dei frati di San Francesco; per cui si potrebbe congetturare che una delle due tavole fosse fatta fare per commissione de’ frati a spese di un pio donatore di quella famiglia. Il documento non è ben chiaro; e però lascia luogo al dubbio. * * * L’Antona è un grosso villaggio sull’Alpe Apuana, nella pendice meridionale della Tambura alla sinistra del torrente Frìgido, quattro miglia a greco di Massa, del cui comune è frazione. Ha una parrocchiale, con titolo di prepositura, consacrata a San Gemignano (1). In questa chiesa, all’altare della cappella in cornu Epistolae del maggiore, è un’ancona di terra cotta invetriata, che misura m. 2 per 2,50, o press’a poco. L’altare marmoreo su cui posa è opera barocca del secolo XVII, e ha nel mezzo un ciborio, che nasconde una parte dell’invetriato ; sopra una cartella del paliotto è scolpita l’iscrizione : Op[er]ffl Stincti Geminiani fecit. Il restante del muro della cappella attorno all’ancona è affrescato a figure di santi a d’angeli con la data: Anno D[omi]A7/ MDCXXII. Di (1) Cfr. Repetti, Dizionario Geografico, fisico, storico della Toscana, ad vocem. - 334 — questo tempo senza dubbio è l’altare attuale, e il restauro generale della cappella. L’ancona rappresenta nella lunetta, contornata nella centina da una cornice di foglie e frutti, un presepio con la Madonna in adorazione dinanzi al Bambino sorretto da un angelo, e San Giuseppe sedente; il tutto a smalti policromi, tranne il Bambino e l’Angelo, che son bianchi. Sotto alla lunetta è un fregio di otto cherubini, interrotti da quattro agnelli a smalto bianco su fondo turchino. Il quadro, fra due lesene con capitelli architettonici e grappoli di frutti e foglie , porta nel mezzo la Vergine assisa sopra un trono col Bambino in grembo , incoronata da due angiole: a dritta della Madonna è un santo dell’ordine di S. Francesco e San Gemignano; a sinistra San Pietro e San Giovanni Battista. Gli smalti, su fondo turchino, sono policromi, eccettuate le figure del primo santo , del Bambino e delle Angiole, che sono smaltate di bianco. La predella è divisa in tre scompartimenti a smalto bianco su fondo turchino: nei due quadretti laterali sono rappresentate storie della vita di San Gemignano; in quello di centro, nascosto dal ciborio, la Nunziata. Agli angoli inferiori sono due scudi che portano nel campo la sigla dell’Opera. Colpiscono subito chi ha qualche familiarità con l’arte robbiana alcuni motivi caratteristici di quest’ancona, che non si riscontrano in altre opere del genere : l’angiolo , che sorregge il Bambino dinanzi alla Vergine adorante, il partito di capelli della Madonna sedente, e gli agnelli che interrompono la serie dei cherubini. Questi motivi, ed altri fatti, come il tipo, 1’ atteggiamento, il panneggio di alcuni fra i santi, il tutt’ insieme della composizione a me pare che stacchino in modo evidente il nostro altare dalla maniera propria dei Robbia, e particolarmente da quella di Giovanni, al quale, secondo si legge nel catalogo posto in fondo all’ opera della Cruttwell, pare che il signor Carocci l’abbia attribuito (1). (1; Op. cit., Appendice V, IFVA-s of Giovanni della Ridibia, pag. 827. - 335 - Il primo che dette notizia di questo invetriato fu il Càmpori, in una nota del già citato suo libro degli artisti carraresi, per informazione che n’ebbe da Giovanni Sforza (1). “ Non potrebbesi „ egli chiede, “ attribuirla al Buglioni? „. Il Campori non vide la scoltura; e, se anche l’avesse veduta, non avrebbe potuto allora, allo stato della critica e della conoscenza delle opere del Buglioni, rispondere alla propria domanda. Oggi però che 1’ elenco dei lavori accertati del Buglioni va aumentando, e che perciò si possono instituire dei confronti sicuri, oggi è possibile rispondere ; e rispondere che 1’ altare dell’Antona si può con molta sicurezza assegnare a Benedetto. Il tipo dei cherubini è lo stesso che si trova nelle lunette di Pistoia e della chiesa d’Ognissanti; la quale ultima ci presenta altri ravvicinamenti caratteristici nelle varie figure de’ santi ; fra cui principalissimi quelli fra i due San Giovanni Battista, i quali, sebbene in posizione diversa nelle due tavole, sono per altro trattati nello stesso modo, sia per quello che riguarda il partito delle vesti, quanto, e specialmente, per l’età. Non è facile trovare in altre scolture del genere tale punto di ravvicinamento ; si veda in fatto, per esempio, Andrea nella tavola della cappella Medici in Santa Croce , nell’ ancona della Spezia, nel fonte di Santa Fiora, in un altare della Verna, e Giovanni nel fonte di Cerreto Guidi. Notevoli riscontri si possono anche trovare fra la nostra scoltura e la Resurrezione che Benedetto ha lasciato a Pistoia ; nella quale, per tacer del solito motivo dei cherubini che son trattati nello stesso modo, troviamo delle corrispondenze che colpiscono tra quelle angiole, e le due che nella nostra reggono la corona sul capo della Madonna: si confronti specialmente 1’ angiola di destra della nostra ancona con quella, pure di destra, ma in basso, della Risurrezione pistoiese. Io so bene quanto bisogni andar cauti prima di aflt'er- (1) Op. cit., pag. ‘288, il. 1. — 336 — mare recisamente. Un documento che venga in luce può smentire qualsiasi illazione, provare infondate le ipotesi più ingegnose. Ma nel nostro caso non mi pare avventata 1’ assegnazione dell’ altare dell’Antona a Benedetto Buglioni, perché rivela molto più della maniera di lui, che di tutti gli altri contemporanei suoi, i quali trattarono quella maniera di scolture. Ubaldo Mazzini. VARIETÀ L’ARCITESORIERE LE BRUN A GENOVA (GIUGNO 1805-GIUGNO 180G) — [DOCUMENTI INEDITI]. Carlo Francesco Le Brun , già terzo console, ed allora Arcitesoriere dell’Impero, fu mandato, coni’è noto, da Napoleone a Genova, dopoché 1' ultimo doge, Gerolamo Durazzo, ebbe fatto, volente o nolente, il « gran rifiuto ». Vi rimase dal giugno 1805 al giugno 1806, « afin de pouvoir en preparer progressivement la réunion », come gli scrisse il 30 maggio 1805 Napoleone neH’annunziargli la riunione, affidata proprio a lui, perchè « l’expérience n’a appris queje ne puis me fier pour des affaires aussi importantes qu’à une personne qui, cornine vous, ait la connaissance intime de mes affaires et un attachement aussi vrai pour ma personne » (1). La Correspondance offìcielle de Napoléon I contiene parecchie delle lettere che durante quest’anno Napoleone inviò al suo rappresentante in Genova, che, se si mostrava assai imparziale e sollecito e si dilettava, letterato non mediocre egli stesso, di circondarsi di letterati e di esser loro mecenate, non pareva assecondare sempre col voluto rigore gli ordini e le intenzioni dell’ Imperatore. Onde, mentre alcune di queste lettere sono improntate a sensi di alta stima e suonano approvazione della condotta del Le Brnn, altre non risparmiano a chi pure era uno dei più alti dignitari dell’impero, rimproveri poco riguardosi, se non addirittura d’estrema vio- (li Cor. off. de Napoléon I, ediz. gran formato, tomo X, p. 566, n. 8811, Da Milano, 10 prairial, ann. XIII, (30 maggio 1805). - 337 - lenza. Così avvenne, allorché, insistendo Napoleone perchè si procedesse subito subito alla leva di mare, e rispondendogli il Le Brun coll’esporgli le misere condizioni in cui rimarrebbero le famiglie dei marinai più vecchi, ove la leva si applicasse severamente, e coll’ esprimergli timori di rivolte, Napoleone gli scagliò addosso la famosa lettera dell’11 a-gosto 1805. « Suis-je donc assez décrépit », chiude la lunga epistola, « pour qu’on pùt me taire peur du peuple de Gènes? La seule réponse à cette dépèche est des matelots, des ma-telots ». Marinai infatti ci volevano per lui che stava per tentare il gigantesco disegno dello sbarco in Inghilterra e doveva tener fronte in tanti mari alle potenti flotte inglesi, ma Genova immiserita non gliene poteva fornire a sufficienza. Così diverse volte si manifesta il malumore di Napoleone, perchè Le Brun ha fatto allontanare da Genova ufficiali riformati francesi, o per altre ragioni consimili, ma il malumore si accentua in occasione della repressione dei moti dell’alto Piacentino sui confini del dipartimento di Genova. La relazione, insertane nel Journal de Gcnes, fa uscire dai gangheri Napoleone. A Cambacères , arcicancelliere dell’ impero, domanda in confidenza, nella sua lettera del 24 gennaio 1806, se al Le Brun è dato di volta il cervello, « je commence à le croire », aggiunge, « Bon Dieu! que les hommes de lettres sont bètes. Tel qui est propre à traduire un poème n’est pas propre à conduire quinze hommes ». E come epifonema con nna di quelle iperboli che gli fioriscono sotto la penna, quando vuole schiacciare addirittura un contraddittore od un subordinato: « Rien ne m’a etonné depuis que je suis né, cornine la conduite de M. Le Brun depuis qu’il est à Gènes » (1). E scrivendo al Le Brun stesso qualifica il suo bollettino sul-l’insurrezione del Piacentino di « aussi ridicule que de-placé » (2), mentre al Fouché si dice « convaincu de l’inca-pacité d’un homme » che pure ha « de si beaux talents et une si belle piume » (3). La biografìa del Le Brun scritta dal primogenito di lui e premessa al volume Opinions, rapports et clioix d'écrits po-litiques de Charles Francois Le Brun due de Plaisance re-cueillis et mis en ordre par son fds alné (Paris, Bessange, (1) Con-, cit., XI, p. 665, n. 9699, 24 gennaio 1806. (2) Corr. cit., XI, p. 675, n. 9700, id. (3) Corr. cit., XI, p. 675, n. 9702, id. — 338 — 1829), sorvola su questi episodi poco piacevoli del soggiorno dell’ arcitesoriere a Genova, senza però tacerli del tutto. Vi sono pubblicate per la prima volta alcune delle lettere di Napoleone , comunicate poi dalla famiglia alla Commissione imperiale incaricata di compiere l’immane e pur incompleto lavoro della pubblicazione del carteggio napoleonico, ed anche alcune del Le Brun. Non tutte però: due di esse rinvenni tra gli autografi della Biblioteca di S. M. a Torino e mi pare interessante farle conoscere. La prima, riferentesi ai primi giorni della dimora del Le Brun a Genova, dà notizia di un fatto che potrebbe essere utilmente suffragato da documenti dell'archivio genovese: il rifiuto di cavalli, carrozze e domestici, offerti dalla deputazione genovese al rappresentante del l'imperatore. La seconda, più lunga e più importante, è notevole per il tuono umile con cui il Le Brun chiede scusa di « toutes les sottises que j’ai pu faire et de tout le bien que je n’ai pas fait », e per le altre espressioni alquanto cortigianesche, che cominciano a far capolino nel carteggio ufficiale dei primi tempi dell’impero, ma andranno sempre aumentando di numero e di servilità posteriormente. Le dimissioni offerte dal Le Brun in febbraio 1806 non furono accettate, anzi l’imperatore, avvedutosi di essere andato trop-p’oltre, mitigò la violenza del suo stile, tanto che il 12 giugno gli scriveva ancora: « Ma confiance en vous est toujours la mème: rien ne peut 1’alterer. Je n’ai lieu que d’ètre satisfai de votre mission à Génes ». Pochi giorni dopo però era terminata davvero e il Le Brun lasciava, certo non senza rimpianto, la metropoli ligure. Giuseppe Roberti. I. Sire, Là députation de Génes m’envoye deux domestiques et un eo-clier tout habillés, un carrosse et deux clievaux. Je les refuse. Cela est daus l’intention do Votre Majesté et dans mes principes. Si elle m’impose une dépense que je ne puisse pas supporter, elle est justo et grande. Je ne puis recevoir que d’elle. Je suis avec le plus profond respect De Votre Majesté Sire, le plus soumis et le plus fulèle sujet Le Brun. Gènes le lcr Messidor 13. (20 Juin 1805). — 339 - II. Sire, Je remercie Votre Majesté de m’avoir délivré d’un fardeau qui me pesait déja depuis Iongtomps. Je lui domande pardon de toutes les sottises que j’ai pu faire et de tout le bien que je n’ai j>as fait. Elle daigne me donner un témoignage de bonté qui doviondroit un témoignage de sa colere si olle ne me pennettait pas d’aller souvent lui faire ma cour. Je la supplie surtout de vouloir bien permettre que j’aille incessammenfc mett.ro à ses pieds le compte que je lui dois du pouvoir qu’elle m’a confìé. Je suis avec lo plus profond respect De Votre Majestè, Sire, le plus soumis et le plus fidòle sujet Le Brun. Gènes, le 20 février 1806. BOLLETTINO BIBLIOG-RAFICO. F. Petrarca e la Lombardia. Miscellanea di studi storici e ricerche critico-bibliografiche raccolta per cura della Società Storica Lombarda ricorrendo il sesto centenario dalla nascita del poeta. Milano , Cogliati, 1904 ; in 8° di pp. 370; con tav. — Arnaldo Della Torre. Rassegna delle pubblicazioni petrarchesche uscite nel sesto centenario dalla nascita del Petrarca. Firenze, tip. Galileiana, 1905; in 8° di pp. 88 (Estr. àzWArch. Stor. Ital.) — Attilio Rillosi. Il sentimento della pace in F. Petrarca. Conferenza. Mortara, tip. Pagliarini, 1905; in 8° di pp. 18. I centenari sogliono portare per conseguenza gran sciupio di carta, d’inchiostro, e gemiti di torchi, e stillamento di cervelli, e gonfiamento di entusiasmi a freddo; anche per il centenario petrarchesco è avvenuto così. In questo pelago destinato ad inghiottire inesorabilmente tante navicelle di specie e grandezza diverse, le quali o si sono messe in acqua senza un buon galeotto, o vennero ricomposte lì per lì cou tavole vecchie ritinte per l’occasione, pur galleggiano forti e vigorose alcune caravelle, solidamente composte, di ben equilibrata zavorra fornite, disposte a sfidare le onde e a recare in porto ottimo carico; nè mancano del sussidio e della compagnia di sufficienti palischermi, i quali concorrono per lor parte in qualche guisa ad agevolare la navigazione. Fuor di metafora; se molte delle scritture occasionali sono destinate a perire, — 340 — altre invece rimarranno, non soltanto le poche e di maggior momento, ma quelle ancora di umile mole che per qualche rispetto o in tutto o in parte possono giovare agli studi petrarcheschi. Di tutta questa numerosa produzione letteraria, di quella almeno di cui ha potuto procurarsi diretta conoscenza, si è accinto a darci una rassegna con diligenza di bibliografo e serenità di critico il Della Torre, uno di que’ giovani già assai favorevolmente noto nel campo degli studi, che insieme ad altri valenti, porterà il suo contributo alla edizione critica delle opere del Petrarca che sarà certo il più bel monumento innalzato alla memoria di quel grande. Dalle vicende appunto della proposta di questa edizione, ormai consacrata con titolo di nazionale da una legge dello Stato, muove, dopo aver toccato de’ concorsi, il D. T. nel render conto delle pubblicazioni petrarchesche ; e perchè più facile gli riesca l’opera sua, e più proficua agli studiosi, le raccoglie e raggruppa sotto diverse rubriche, che sono sette in tutto. La prima comprende quegli scritti che riguardano in modo speciale l’occasione del centenario; la seconda le bibliografie delle opere sul Petrarca, le fonti biografiche e l’iconografia; la terza le biografie e gli studi complessivi; la quarta i contributi parziali alla biografia; la quinta i soggetti vari; la sesta le opere; la settima finalmente la fortuna che ebbe da poi dando vita a quello che si chiamò petrarchismo. E tutta questa veramente numerosa produzione letteraria, comparisce qui nella sua sostanza e nelle sue conclusioni, a-vendo mostrato l’a. mente acuta e mano felice nel cogliere di ogni singolo scritto la parte rilevante, additando con tocchi più ampi ed efficaci quegli che giustamente debbonsi considerare i più utili ed i migliori. Fra questi primeggia il volume pubblicato dalla società Storica Lombarda, e che, come ben dice il D. T., « potrebbe anche chiamarsi del Novati » non solo perchè egli lo promosse e diresse, ma perchè principalmente vi concorse con la diretta opera sua. Questa miscellanea ha due parti; 1’una di studi storici e l’altra di ricerche critico-bibliografiche. Si apre con il solido e importantissimo studio del Novati, che ricerca e chiarisce quali furono e di qual natura le relazioni del Petrarca con i Visconti, argomento che potrebbe dar vita ad un libro di non piccola mole, ed al quale potrebbe accingersi con ottima riuscita l’A., che qui in sei brevi, ma sostanziosi e serrati capitoli, intende metterci innanzi il frutto - 341 — delle sue nuove ricerche, e de’ documenti da lui avventurosamente ritrovati. Ma intanto, pur mantenendosi stretto ai limiti pi opostisi, delinea tutto il periodo delle relazioni viscontee, recando nuovo contributo alla biografia del poeta; e mentre lo scagiona da accuse che la logica dei fatti non ammette, determina con precisione date ed episodi, rileva le figure -di persone con le quali ebbe relazioni il.poeta. Sopra un punto particolare della vita di questi che riguarda la giovinezza, ferma la nostra attenzione Pierre de Nolhac, rilevando 1 importanza di una nota autografa al manoscritto contenente Frontino e Vegezio, appartenuto al Petrarca e conservato nella Vaticana. La qual nota si riferisce, secondo ritiene ragionevolmente il D. N., alla battaglia di Zappolino, avvenuta il 15 novembre 1325, nel qual tempo, attesta il poeta, si trovava a Bologna, dalla qual città non può dunque ammettersi sia partito per recarsi in Avignone il 26 aprile 1325, secondo il parere d’ alcuni, ma, come ritenevasi dai più, un anno dopo. Torniamo ora a Milano, guidati da Ambrogio Annoni, il quale ci conduce col Petrarca in villa , e, ben armato di testimonianze e di prove , sfata la leggenda, consacrata anche da un’iscrizione ch’or più non esiste, della dimora di lui ad Interno , mentre rivendica siffatto onore a Garegnano in un de’ cascinali vicino alla Certosa, come il il poeta ci lasciò scritto. È vero però che riesce difficile i-dentificare, fra quelli che presentano caratteri di vetustà, quale precisamente possa essere. Dagli studi storici passando alla critica bibliografica, tiene il primo luogo un’ampia e molto importante notizia intorno al manoscritto delle epistole familiari conservato nella nazionale di Parigi al n. 8568, dovuta alla dottrina del Cochin, 1’ autore dell’ ottimo libro sul fratello del Petrarca. Egli addita la bontà di questo testo, e la grande utilità che se ne può trarre per una nuova edizione critica delle lettere, poiché olire moltissime e veramente notevoli varianti, delle quali porge qui un saggio, dimostrandone e discutendone con a-cume il valore per mezzo di alcuni esempi calzanti. Il manoscritto così pei caratteri come per gli ornamenti deve ritenersi uscito da mano francese; esso venne letto nel 1388 da un ignoto che v’appose delle note, e nell’ultima carta bianca trascrisse il celebre saluto all’ Italia : Salve cara Deo ecc. ; in coda a questi versi e alla fine dell'ultima lettera volle lasciare la propria testimonianza, notando il suo nome, qui Giorn. SI. e Leti, della Liguria. - 23 — 342 — con le parole : Io. legit complete. 1388. 2. februarii, e là: Io. M. scripsit. 1388. 4 Jan. Papie. La ricerca di questo lettore e postillatore dà argomento al Novati di uno de consueti suoi studi eruditi ed acuti, ed in ogni parte completi. Egli prova, studiando il soggetto in ogni sua parte, che in quelle brevi notazioni si deve riconoscere la mano di Giovanni Manzini della. Motta in Lunigiana, del quale raccoglie con diligenza somma le notizie, componendone una bella e compiuta biografia in relazione ai documenti che fino ad ora si hanno di lui e intorno a lui. Riporta anche in ben riuscita riproduzione una lettera autografa del Manzini sulla quale istituisce confronti paleografici, pur mantenendosi in così diffìcile materia in un prudente riserbo. Ma dopo aver letto queste pagine chi vorrà ancora dubitare che il postillatore altri sia dal nostro Lunigianese? Remigio Sabbadini rileva in una sua nota che le « Periochae Livianae » del cod. appartenuto al Barziza discendono dall’esemplare che già fu del Petrarca, e da una postilla di questi alla Per. XIII si stabilisce a quale famiglia di codici si deva assegnare il De of/icis da lui posseduto. Sid celebre Virgilio petrarchesco dell’Ambrosiana, ci richiama Achille Ratti con la descrizione accuratissima del codice, e la storia delle sue vicende; donde si viene a conoscere nell ab. Marcantonio Mafia , che fu tra’ famigliari del Card. Cusani, il possessore del ms. prima che venisse ad arricchire la biblioteca di Federigo Borromeo ; forse appartenne al card. Cusani stesso che legò al Mafia « tutte le cose manoscritte » della sua libreria. Un rotolo membranaceo della biblioteca di Lucerna di caratteri italiani della seconda metà del trecento, con miniature ed ornamentazione policroma e floreale d artista francese, contiene i salmi penitenziali del Petrarca. Lo stemma visconteo chiarisce che la copia fu eseguita per un personaggio di quella famiglia, e il Novati, a cui dobbiamo quest’altra nota piena d’interesse e d’erudizione, ritiene con persuasive ragioni, ch’essa sia un omaggio del poeta a Gian Galeazzo giovinetto. Egli poi si fa editore d’un capitolo in ternari d’ anonimo , vissuto al cadere del secolo XV o negli inizi del seguente, nel quale si riassume la contenenza del De viris illustribus. Si trova trascritto infine alla edizione mantovana del Canzoniere uscita l’anno 1477, in alcune aggiunte; incunabolo che si conserva nella ricca e preziosa biblioteca Trivulziana. La quale possiede ancora codici pe- OAO — o4o — trarcheschi dovuti alle illuminate sollecitudini degli illustri raccoglitori Teodoro , Carlo e Gian Giacomo (1694-1831), secondo ci apprende Emilio Motta nelle spigolature bibliografiche II Petrarca e la Trivulziana, e nella descrizione de’ codici stessi: oltre a’ quali sette altri ne conservava quella biblioteca, ma per divisione domestica andati in altre mani, e poi per vendita oltre i mari. Utilmente si chiude il volume, che rimarrà fra le migliori testimonianze del culto petrarchesco nella ricorrenza centenaria, con il catalogo molto ben condotto, secondo le migliori norme bibliografiche, dei codici petrarcheschi delle biblioteche milanesi pubbliche e private, salvo la nazionale di Brera eh’ ebbe a descrivere i suoi fino dal 1875; e sono l’Ambrosiana, la Melziana, la Trivulziana, l'Archivio Visconti di Modrone, l’Archivio Capitolare Arcivescovile; a cui va compagno il catalogo delle opere a stampa serbato nella Melziana e nella Trivulziana. Lavoro questo al quale intesero le forze collettive di Sepulcri, Foligno, Motta e Novati. Per ciò che ha tratto in modo speciale alla nostra regione dobbiamo segnalare nella presente miscellanea lo studio del Novati intorno all’umanista lunigianese Giovanni Manzini, e il Formularium cancelleriae nell’Ambrosiana (pag. 272) che è compilazione dovuta a Nicolò (Schiaffino) de Camulio segretario di Filippo Maria Visconti. Ci giunge postuma nel fatto della stampa la conferenza di Attilio Rillosi, sebbene detta in Mortara il 30 giugno 1904, nella quale 1’ a. dimostra quale e quanto fosse nel Petrarca il sentimento della pace; pace e tranquillità ch’egli spesso invoca e si augura senza raggiungerla, mentre pur se ne fa apostolo nelle contese politiche presso principi e repubbliche, senza che l'efficacia della sua parola valga a quetare gli a-nimi e a far deporre le armi. Ed è tanto in lui il fervore u-manitario che può considerarsi, fatta ragione de’ tempi, come precursore de’ moderni pacificisti. A. N. ANNUNZI ANALITICI. A. Lorknzoxi. Il movimento letterario nel secolo decimonono. Firenze, Paravia (Prato, Vestri), 1904, in 16° di pp. 183. — L’A. in questo breve ma succoso volume manifesta una cultura non comune e delle facoltà critiche abbastanza buone. Egli conosce a fondo la - 344 - produzione letteraria dei secoli XVIII e XIX e i giudizi elio ne da non sono racimolati qua e là, ma sono frutto di lungo studio. Questo merito non si può negare al libretto. Però il L., nel giudicare il movimento letterario del secolo decimo nono , parte da un concetto etico-religioso. L’ arte ristretta alla sola natura, senza essere vivificata dalla fede « vien gettata in un’atmosfera pesante, incerta, nebulosa dove il bello è frazionato, debole, scolorito, dove il limite finitissimo tronca il volo alle fantasie anelanti alle arie luminose di uno spazio senza confini, dove la mancanza d’idee e d’ispirazione la costringe a riprodursi o a ricopiarsi » (p. 78). Ma, si potrebbe osservare in estetica la vera opera d’ arte , essendo una sintesi di materia e forma, di reale e d’ideale, di natura e di spirito, è nello stesso tempo veristica , idealistica, simbolistica , classica, romantica , ecc...... La scuola verista o naturalista (se pure sia lecito in arte questa distinzione che gli esteti a ragione rigettano) affermatasi nella seconda metà del secolo XIX lungi dal trarre dalla vita solo il fango e dalla mente l’odio a Dio e all’idea cristiana, scrutò a fondo la vita psicologica e sociale, ed i problemi die da tanto tempo torturano 1’ umanità. Ben osserva il Croce, in uno dei suoi studi che va pubblicando sulla letteratura contemporanea, elio il verismo non è « qualcosa in cui si rappresenti ad esempio l’intera natura dell’uomo e l’intera realtà, ma esso certamente contribuisce a far meglio sentire quella natura e realtà nella sua varietà e ricchezza inesauribili. È un arricchimento della coscienza umana, ed insieme del mondo dell’arte ». Il L. partendo da un preconcetto deplora die la coscienza nazionale italiana sia cominciata da uomini, i quali come l’Alfieri e il Foscolo, gettarono nelle nuove generazioni « i germi viziati della vita morale e civile, germi, che passando tra gli entusiasmi e gli sconforti, l’esagerazione e l’abbattimento nelle ore tristi della patria, doveano fecondare una generazione fiacca ». Al contrario crediamo noi che gli italiani debbano essere molto grati al Foscolo e all’Al-fieri, per avere colla loro vita e colle loro opere promossa la rigenerazione civile degli italiani, che doveva condurre alla libertà politica, all’Italia una e indipendente. E più inuauzi: il Carducci, il Rapisardi e il Cavallotti « hanno gittato il germe d’ un’ arte viziata e degradante e, per giunta, poco italiana ; qual maraviglia se il marciume che si celava agli occhi del pubblico, penetrò tanto largamente nelle anime, quando si vide che un’ arte, in cui trionfa l’eterna ripetizione de’ motivi erotici triviali e la morbosità patologica , fu acclamata e difesa anche da loro, anzi principalmente da loro, come la sola vera arte »’! Il paradosso salta subito agli occhi. Queste nostre osservazioni non menomano però la bontà dello studio del L., che ha anche il pregio di esser scritto in uno stile vivace e disinvolto. Del resto altri potrebbero convenire nelle idee con lui, tanto diverse sono le opinioni degli uomini le quali, secondo il Goethe, si mutano in tanto tinte chiaroscure quante sono lo grada- - 345 — zioni Ira il becco dell’aquila e il naso dell’Etiope (Michele Lupo Gentile). Strenna a benefizio del Pio Istituto dei Rachitici in Genova pel 1005. Anno XXII, Genova, Montorfano, 1905 , in 8° di pp. 268. — Raccolta di scritti vari in prosa e in versi, pubblicati per beneficenza. Lasciando stare le poesie, che sono parecchie, toccheremo di alcune prose le quali hanno relazione agli studi di cui si occupa il nostro giornale. Con breve ina lucida esposizione rileva Edoardo Canevello l’istituto organico della pubblica istruzione immaginato ed applicato da Napoleone I, il quale può entrare per ciò nel nu-vero dei pedagogisti. Codesta notizia è suggerita all’ a. da un libro del Leygues, ben noto ministro della pubblica istruzione, che ha giustamente osservato come quel sistema pedagogico non era volto a servire la scienza e a sviluppare l’educazione nazionale, ma piuttosto a servire un governo impersonato in un uomo. — Si riferisce agli usi della popolar tradizione la storia del ravanello, raccontata da Adele Pierrottet, costumanza primaverile per molti anni durata ed oggi perduta, fra gli abitanti di quella parte di Genova ch’ebbe nome di borgo Pila, dove esercitavano la loro industria agricola gli ortolani, il che non è cessato a’ nostri dì, sebbene la città abbia inghiottito il sobborgo. — Alla storia artistica ci richiama 1’ aneddoto di Francesco Grigi intorno a Giulio II e Michelangelo Buona-rotti, garbatamente narrato sull’andare di que’ racconti di Pietro Selvatico eh’ ebbero tanta fortuna. Dissertano invece sull’ estetica dell’arte, Mario Labò colle sue Florae ]\[irabiles, inno elevato, e certo con ragione , alle bellezze della Valsesia, terra ben disposta per o-gni rispetto a dar vita ad ingegni feraci nelle arti rappresentative, i quali da natura e dall’ambiente attingono i germi onde divengono famosi; splende fra essi per universale consenso, quel forte artista che fu Gaudenzio Ferrari; e Silvio Bellotti che discorre del nudo in arte secondo si rileva dalla dottrina dei grandi maestri applicata nei capolavori, di cui l’a. mostra profonda conoscenza ; e perciò con buona competenza così dell’ estetica come della tecnica discende ai particolari anatomici, per risalire ai complessi postulati in cui si appunta e si assomma la rappresentazione ideale del corpo umano secondo il concetto fondamentale del bello. — Facciamo una breve sosta nel medioevo, a’ tempi dell’audace apostolato d’Arnaldo, con la prefazione in cui Carlo Andrea Fabricotti ha voluto discorrere del concetto che imperila il dramma di Giorgio Cimino Abelardo ed Eloisa. In Oriente ci trasporta invece e nelle remotissime età Luigi Garello ponendoci innanzi La leggenda di Gautama-Buddha; geniale monografìa che pur essendo frutto di molteplici studi e di serie indagini, riesce a rendere assai agevole, ed accessibile ad ogni aperto intelletto il concetto morale e disciplinare donde è derivata la religione buddistica, che presenta tanti punti di contatto con le origini del cristianesimo. L’a. ha saputo con bell’arte esporre in modo piano - 34G — \ 0 piacevole la celebre leggenda, ricondotta alla sua primitiva purezza; non contaminata da infiltrazioni o sovrapposizioni che ne alterano la fisionomia originale ; con avveduta brevità ha posto a’ luoghi opportuni osservazioni di carattere esegetico e comparativo, che tornano utili alla intelligenza della leggenda, senza turbare lo svolgimento del tema , secondo il line che si era proposto. Commedie scelte di Giovanni Gii: a ih precedute dii uno studio critico di Paolo Costa. Roma, Loescher. 1903, in Su di pp. 501. — Le satire di Giovanni Giuaii», per In prima volta edite con uno studio biografico critico di Tommaso Gnoli. Roma, Loescher, 1903, in 8U di pp. 310. — Questi due volumi non possono andar disgiunti perchè costituiscono un tutto omogeneo ed organico. Gli autori si sono inessi d'accordo per trattare della vita e dell’opera del Giraud nella sua manifestazione letteraria cd artistica. Universalmente conosciuti) come scrittore di commedie era utile studiare 1’atteggiamento del suo ingegno per questo lato, determinando il posto che egli occupa nella scena italiana. Di così fatto argomento si è occupato in modo speciale il Costa, preludendo con una dissertazione critica, alla ristampa di alcune commedie , opportunamente scelte fra le molte di quel commediografo che si hanno alla stampa. E diciamo opportunamente, perche ci sembra che il C. sia riuscito assai bene a darci, secondo il suo line, un esempio della varia produzione drammatica del Giraud, il cui nome rimarrò celebrato per quel suo A io nell'im bara ::oJ e per quel line ed elegante aneddoto comico de I gelosi fortunati, che bastano di per sè soli a dar fama condegna ad uno scrittore teatrale. Con ciò non si vuol dire che manchino pregi nelle altre commedie di lui, e il C. con buon criterio è venuto divisandoli studiando tutta l’opera del suo autore, ne’ diversi aspetti onde si presenta la molteplice produzione da lui lasciata. E in vero da questo esame, condotto con ottima preparazione e line discernimento, noi possiamo assorgere ad un giudizio complessivo, rilevando qual tu l’ingegno dello scrittore, come si svolse sulla scena, quali relazioni determina con gli antecessori, le influenze dell’ambiente e suH'ambientc, come e perchè si distingua dai contemporanci. Dopo uno sguardo generale alle condizioni della letteratura teatrale allorquando si venne formando il giovane scrittore, il C. passa in rassegna con rapida e-sposizione le commedie romanzesche e poi le farse, dove in ispecie abbondano i tratti comici e certi spiritosi espedienti per destare il riso rimasti proverbiali. Ma 1' arte si manifesta più spiccatamente nel Don Desiderio, nellMi'o , nel Sospetto funesto e nel Galantuomo per transazione, commedie sulle quali ben a ragione I’a. si ferma con maggior larghezza, ne fa la storia, ne espone la tela, ne divisa 1 caratteri, con osservazioni e riscontri degni di nota: frutto di preparazione diligente, buon gusto e mente agile e acuta. Nè trascura quelle brevi scene che il Giraud ha intitolato teatro domestico , e che il C. con più moderno vocabolo chiama proverbi, poiché al- - 347 — cani di codesti brevi componimenti spiccano per finezza ed originalità; Ira essi è il bellissimo scherzo I gelosi fortunati; in generale dimostrano coni’ egli sapesse cogliere certi atteggiamenti della vita e rappresentarli con satira bonaria ed urbana. Ma la vera e la propria satira civile, secondo il-C-, si dee ricercare nella commedia venuta postuma alle scene, e cioè II galantuomo per transazione. Francesco Augusto Bon la giudicò « un vero e proprio capolavoro » e a questo giudizio si attiene il C.; non lo seguiranno in questa opinione tutti quelli che ritengono ad essa commedia assai superiore per ogni rispetto L’Aio nell1 imbarazzo. Tuttavia è osservabile 1’ intento propostosi dal commediografo nel dettarla : i tratti spiccata-niente soggettivi, i caratteri, l’andamento, tutto quanto iusomma la rende così diversa dalle altre da farla considerare a sè e d’ un genero che non trova riscontro nelle numerosa produzione teatrale del Girami. Per questa ragione ha fatto bene il 0. a trarla fuori dall’oblio e a rilevarne i pregi specialmente satirico-morali. Per il quale rispetto la commedia s’ accosta più da vicino a quelle satire di cui ha voluto occuparsi con lodevole proposito, nell’altro volume il (inoli. Argomento al tutto nuovo, e perchè le poesie di questo genere erano rimaste inedite, e nessuno, salvo che con qualche cenno fugace, aveva considerato il Giraud come poeta satirico, e studiata codesta parte della sua produzione letteraria, non meno importante e notevole dello sue commedie. 11 6. ci da la più ampia e particolareggiata monografia biografica e critica intorno al commediografo romano , giovandosi opportunamente delle satire come documento storico e personale, e considerando 1’ uomo e lo scrittore nelle vicende varie della vita, e nelle condizioni de’ tempi. Il suo lavoro è condotto cou molta diligenza sopra buone fonti, e ricco di informazioni e di riscontri ; di guisa che d’ora innanzi il valore del Girami non potrà e non dovrà rilevarsi soltanto dalle commedie universalmente conosciute, ma altresì e più compiutamente dalle satire, nello spirito e nella forma osservabilissime. Importanti gli accostamenti elio il G. metto in evidenza fra l’opera del Giraud e quella del Belli, e sopratutto degna di particolare considerazione la prova che al Giusti non solo non rimasero sconosciute le satire del poeta romano, ma che esercitarono una diretta influenza sopra la sua educazione poetica, tanto da riconoscere molti punti di contatto fra i componimenti dell’uno e dell’altro. Buon contributo dunque alla storia letteraria del secolo passato recano questi due volumi, ne’ quali tuttavia gli autori si mostrano qualche volta un po’ troppo entusiasti verso il loro scrittore, e perciò in certi giudizi la parola va forse al di là del loro pensiero. Inoltre possono notarsi alcune sovrabbondanze nella economia del lavoro, e qua e là ripetizioni che si potevano ovviare con semplici rimandi, ma scusabili, nonostante i preventivi accordi, in chi si trova alle mani la stessa mateiia. I. B. Surixo. Notizie d'arte da un diario del seicento. Firenze, — 348 — Franceschi!» , 1904, in Ili" ili pp. 8. — Il diario donilo sono (rutto queste notizie è quello di Cesare Bastiano Tingili, aiutante ili camera del Granduca di Toscana, che si conserva nella biblioteca Nazionale tra i cod. Capponi, del quale si è giovato Angelo Soler(i in un volume molto importante uscito teste, e di cui avremo occasione fra breve ili parlare. Qui si recano alcune notizie intorno ad un quadro d'Andrea del Sarto tolto dalla chiesa di S. Lucia di Settimello e regalato al Granduca nel 1618, mettendo a suo luogo una copia. Questa rimane tuttavia in quella chiesa, ina il quadro subì una riduzione, e vedesi a Pitti con due sole figure anziché quattro secondo aveva in origine, l’oi si parla della Fontana «li Palazzo Pitti con le figure di Giambologna ; alla casa del quale si reca il granduca nell'anno suddetto con il duca di Mantova a Tederò i suoi lavori, e va quindi nello studio del Bronzino. Si ricorda il dono della Venere di Tiziano tatto da Paolo Giordano Orsini, e dei regali preziosi che ne ricevette in ricambio, e infine si registra hi memoria della formazione di quella galleria di Palazzo, dove nel 1620 erano state raccolte opere di insigni pittori. Uiio Asserkto. Un censimento ilei patriziato genovese del Ili-/. — Ruma, Civelli, 1904, in 8° di pp. 11. (Est. dal Bollett. della Cons. A-raìd.) — L’ a. molto versato nella materia, espone qui i provvedimenti adottati dalla repubblica genovese per impedire le frodi nello ascrizioni al patriziato e a stabilire quali fossero coloro che avevano diritto alla qualifica di nobili patrizi genovesi. Egli addita ed illustra due manoscritti deH'Archivio di Stato, dove sono registrate le famiglie nobili antiche e i cittadini ascritti morti senza lasciare prole maschile, e quelle che ancora contano individui viventi. È « un completo censimento del patriziato genovese com’era composto alla line del 1621 » con utili e preziose indicazioni per chi voglia stabilire nei confini del diritto e della verità , le discendenze nobiliari. Questi due volumi ritiene giustamente PA. siano « P originale o la copia dello scrutinio eseguito nel 1608 e condotto a tutto il 1621 dai quattro delegati », ch’ebbero l'incarico nel 1606 di investigare quali erano le famiglie che avevano perduto, o venivano a perdere man mano il diritto di rimanere ascritte nel Liber nobilitatis. Ma non risulta che il lavoro, secondo le intenzioni ed il fine del provvedimento, fosse seguitato, donde nuove usurpazioni di titoli, e nuovo disposizioni per reprimerle. Da quei mss. l’A. riproduco P elenco delle famiglie considerate come estinte rispetto al diritto nobiliare, di quelle la cui estinzione era inevitabile od crailo andate a stabilirsi fuori del dominio , e di quelle infine le quali non contando se non un solo individuo , erano probabilmente per estinguersi in breve. Orazio Bacci. Unric <• arti magiche di Giovanni Boccaccio. Ca-stelfiorentino, Giovanelli e Carpi teli i, 1904, in 8° di pp. 11. — In line di un ms. della biblioteca nazionale di Firenze si trovano al- - 349 — cune notizie boccaccesche, scritto di mano del secolo XVI, prima metà, e non compiute, sia ciò da ascriversi al trascrittore o allo stesso autore, poiché nulla vieta di credere possano essere autografe di colui elio 11011 entrando nella vita del certaldese « scritta da altri » si e proposto di soggiungere « a corroborazione di quello che se ne dice, quanto di lui e di quello che più appartiene alla morte habbiamo possuto investigare ». Il 15. stampando le pagine curiose, vi premette una piena illustrazione, con opportuni rimandi e riscontri ai tratti più salienti, e rileva quel tanto che si riferisce, ed e, ben si vede, tradizionale e leggendario , ad alcune burle fatte dal Boccaccio ai suoi amici, ed alla nomea di mago appiccicatagli addosso, anzi su questa in ispecie si intrattiene l’erudito editore. Vittorio Gian. Un nuovo trion fo (Vamore di Gianfeaxcesco Puteolano. Pisa, Nistri, 1904, in 8° di pp. 29. — L’autore è Francesco Dal Pozzo parmigiano, umanista vissuto nella seconda metà del secolo XV, le cui notizie migliori ha lasciato l’Affò. Poeta laureato, era noto che aveva scritto versi latini, ma di volgari nessuno sapeva ; è quindi per questo rispetto una novità la pubblicazione del C. F. un poemetto in due canti derivato evidentemente dai Trionfi del Petrarca rispetto al « disegno complessivo » e a « tratti o situazioni generali » ; mentre poi vi si riscontrano « più numerosi ■e caratteristici nei particolari minuti, perfino in certi versi o in e-spressioni o vocaboli singoli, i prestiti della Commedia dantesca, senza che possa dirsi per questo o servile o plagiario ». Ma l’arte manca affatto, e l’inesperienza si rileva nella lingua e nella grammatica; oude può credersi lavoro incondito di giovinezza. L’autore dedica il poemetto a Fosco Tomeo, da identificare con Bartolommeo fratello del celebrato Niccolò Leouico, e pur egli di bella fama. Il codice donde tu esemplato si conserva a Venezia nella Marciana, ed apparisce scritto sul cadere del quattrocento. Rime giocose edite e inedite di un umorista fiorentino del sec. XVII (Pier Salvbtti) con note illustrative e cenni biografici e critici di Mario Aglietti. Firenze, Bertelli (Tip. Poggi), 1904-, in 16° di pp. 137. — Nella schiera non piccola e degna di ricordo, dei poeti giocosi toscani del seicento, merita certo particolare rilievo Pier Sal-vetti, ed ha ben fatto l’A. di questo libro a raccoglierne le poesie, a discorrere della vita e delle opere sue. A questa pubblicazione l’A. si è ben preparato, e in una accomodata prefazione ne divisa utilmente il metodo e le modalità. Porge quindi le migliori e più sicuro notizie del poeta, confuso alcuna volta con un omonimo contemporaneo della sua medesima casata, e coglie il buon destro per accennare alle accademie fiorentine di cui fece parte, non trascurando curiosi aneddoti, i quali, riferendosi al carattere dell’uomo, coloriscono l’ambiente in mezzo al quale egli visse, donde trasse argomento a’ suoi versi. 1 quali se nella forma esteriore sembrano spensierati e ridanciani, pur manifestano nella sostanza l’intento - 350 — d’una satira civile 11011 trascurabile. Di che abbiamo prove utili e concludenti nello studio che per questo rispetto premette l’A. alle rime, donde si pare il merito della produzione letteraria del Sal-vetti, e l’importanza che essa assume. Le singole poesie raccolte sono precedute da una speciale notizia intorno al componimento, e corredate di annotazioni necessarie alla intelligenza del contenuto. Rileveremo che di quel Leonardo Giraldi a cui è indirizzato il capitolo sulla civetta si era parlato molti anni or sono nel Propugnatore (Ser. I, voi. VI), articoletto forse sfuggito all'A. Ci sembra poi che l'allusione al Cicala nel Grillo (p. 79), non si debba riferire al trovatore Lanfranco, come annota l’a., ma bensì a quel Scipione Cicala che si fece turco ed è più noto sotto il nome di Sinam-pascià, secondo anche viene reso manifesto dalla tagliente ironia de’ versi susseguenti. È vero che Scipione era di Messina, ma discendente da famiglia colà trasferitasi da Genova. Amedeo Pellegrini. Il Capitano Treni acapi Ili. (J. proposito dell’arresto di Gioacchino Murai). Monteleone, La Badessa, 190-1; in 16° di pp. 32. — Il capitano Trentacapilli è noto per aver preso parte alla cattura di Gioacchino Murat. Personaggio eli poca importanza-storica, egli ebbe tuttavia un istante di notorietà in quel momento e seppe poi far valere assai i servigi resi, esagerando i propri meriti a danno d’altri. Il prof. Pellegrini, valendosi delle copie di alcuni documenti, affidatigli da un discendente del capitano, ne intesse una breve biografia narrando i servigi prestati dal T. ai Borboni, la sua provata fedeltà nella impresa di Calabria, e la parte da lui avuta nella cattura del re. Ma questa brevissima monografia può far nascere il sospetto che il P. non conosca troppo bene la storia di Napoli. Quando io leggo a pag. 6 che nel 1790 per « malviventi e facinorosi » si possono intendere coloro che erano costretti a darsi alla macchia « per ragione politica, specialmente perchè in sospetto di liberali », ho ragione di dubitare che il P. non sappia che i primi moti liberali cominciarono nel 1791; quando leggo, senza pur una nota, che nel 1809 il Trentacapilli accompagno il De Fi-lippis che si recava ad esercitare le funzioni di preside in Calabria, sono indotto a dubitare eh’ egli non ricordi che si trattata d’ una spedizione militare-brigantesca, e non sappia chi sia il De Filippis e qual parte abbia avuto nei moti calabresi degli ultimi anni. Una osservazione vorrei fare anche rispetto allo stile ed alla lingua. 11 P., che è toscano, scrive: « il T. nel 1796 passò alfiere » ; « il conte Piguatelli lo nomina Jorriere » ; « nè fu costretto limitarsi a disim-pegnare pedissequamente le sue incombenze di milite graduato » ecc. Infine anche la stampa non è molto accurata : riproducendo la relazione del Trentacapilli al duca d’Ascoli, si parla per ben due volte di iscrizioni sul Gran Libro delle Vendite, nè è possibile che nel manoscritto , quantunque molto scorretto, si confondessero le Vendite colle rendite! Della bibliografia Murattiana non si trova cenno nel- - 351 - l’opuscoletto, forse perchè il P. non ha creduto necessario occuparsene. Ma io jiosso assicurarlo che tanto nel Sassenay, come nel Lmnbroso o nel Lemmi, e più ancora nel Franceschetti, egli a-vrebbe trovato da spigolare notizie e giudizi sul Trentacapilli. (C. Manfroni). P. Francesco Zaverio Molfino. Codice diplomatico dei Cappuccini liguri, 1530-1900. Genova, tip. della Gioventù, 1904; in 8° di pjj. LXXVI-496, con fig. L’A., che è archivista provinciale dell’ordine cappuccino , aveva incominciato a mettere in atto un suo disegno; quello cioè di illustrare per mezzo di speciali monografìe i conventi liguri de’ Cappuccini. Infatti già sono alle stampe le storie particolari del convento di Pontedecimo, cui ha soggiunto una appendice notevole ; di quello di Campi e di quello di Voltaggio. Egli poi ebbe ad avvedersi, nelle indefesse ricerche a cui s’è dato, come fosse innanzi tutto necessario raccogliere e disciplinare i documenti dai quali si deve desumere la storia, e così nacque la buona idea del presente codice. Si compone di due parti. Nella prima vengono riprodotti tre manoscritti, che si conservano nell’archivio della provincia, e si possono dire una specie di diarie cronologico o cronaca ufficiale dei Capitoli; il primo muove dal 1589 e va al 1640; l’altra dal 1763 al 1838, il terzo segue senza interruzione dal 1839 al 1890. Ne esisteva uno precedente che comprendeva il periodo della istituzione dell’ordine, lino a raggiungere il 1589, ma è andato perduto; del pari si deve credere ve ne fosse un secondo per riempiere la lacuna intermedia dal 1640 al 1763. Segue quindi una diligente tavola dei Capitoli tenuti nella Provincia genovese, con le elezioni che vi si fecero, e utili notizie intorno a que’ dignitari ; giunge al-Panno 1902. Più ampia è la seconda parte, quella cioè che 1’ a. ha intitolato Spigolature d’Archivio. Il primo documento reca la data del 15 maggio 1548, e 1’ ultimo del 26 gennaio 1900; vennero raccolti da archivi diversi; e cioè: il E. Archivio di Stato in Genova, quello Generalizio di Roma, il Vaticano, quello Provinciale d’Alessandria, della Curia di Genova, dei comuni di Chiavari, Pieve di Teco, Va-razze, Sestri Ponente, il Conventuale genovese, e finalmente quello-della Provincia ligure dell’ Ordine, e di qui, come facilmente s’intende, venne tratto il materiale maggiore del codice. Il P. M. con cura sollecita ha provveduto per ufficio all’ordinamento di quest’ultimo archivio affidato alla sua custodia, ed ha raccolto con buon criterio in un volume le bolle e gli atti della S. Congregazione che erano qua e là dispersi, formando un utile supplemento al Bollario. In tal guisa gli è riuscito agevole di darci compiuto il Iìegestum Bullarii Prov. lanucnsis, traendo dal Bollario generale a stampa e dalle Analecta Ord. Capucc. le indicazioni sommarie cronologicamente disposte doi documenti editi, con la giunta a’ luoghi rispettivi di parecchi degli inediti. Scorrendo le pagine del presente volume noi assistiamo allo stabilirsi dei cappuccini in Liguria, ed allo - 352 - svolgersi della loro vita fino ad oggi; la fondazione dei conventi nei vari luoghi, l’opera prestata in opere pie, negli ospedali, nelle invasioni epidemiche, nelle missioni, le modalità del culto , le contese pubbliche e private, le vicende diverse di soppressioni , di richiami , di esodi e di ritorni, tutto ciò infine che si attiene alla storia interna ed esterna dell’ordine nell’ ambito della regione ligustica riceve lume e documento. Di questa storia desunta dai documenti produce l’a. una succosa esposizione preludendo alla raccolta, dove apparisce notevole quella parte in cui si raccontano le controversie sorte col Duca di Savoia, al che era principal cagione la ragion politica, per i confini della provincia che si distendeva in parte ne’ suoi Stati. Veda l’a. che a pp. XXXIV, XXXV, XXXVI, XXXVIII e XXXIX sarà da correggere il sec. XVI in XVII, e il XVII in XVIIT, e quivi pure nella XXXV il He di Sardegna (1656) in duca di Savoia. La cittadella di Bar zana ed il forte di Sarsanello. Ricordi storici di Enrico Rocchi. Roma, Voghera, 1904. in 8° di pp. 20 con 4 tavole. (Estr. dalla Hivista di Artigl. e Genio). — Buone notizie storiche desunte dai documenti accennati dal Milanesi nelle note e commenti alle vite del Vasari, ci dà l’a. della cittadella di Sarzana, ch’ebbe nome di Fermafede. È notevole il rilievo sul contrasto avvenuto per questa fabbrica fra gli architetti militari ch’ebbero l’incarico di ricostrurla sulla vecchia fortificazione pisana, di cui pur restano testimonianze, ed i Sangallo, che avevano proposto un nuovo modello ben accolto da Lorenzo de’ Medici e dalla Signoria, ma lasciato poi in disparte ; al qual proposito è a ricordare che vi fu a Firenze un contradditorio tra il Francione e il Sangallo, dal quale uscì la deliberazione di seguitare il lavoro , secondo il modello del primo. Tuttavia una vera e propria storia documentata di quel fortilizio è ancora da farsi. — Rispetto al forte di Sarzanello diremo questo soltanto che il R. se ne sta al vecchio libro del Promis e gli sono rimaste sconosciute le pubblicazioni seguenti : Sforza, Della signoria di Castruccio e de’’ Pisani sul borgo e forte di Sarsanello, Modena, 1870, (in Atti e Meni, delle Pili. Deput. di Stor. pat., voi. V) ; dello stesso: Castruccio Castracani in Lunigiana, 1891, (Atti e Meni. cit. , Sez. III, voi. VI), appendice I ; ed anche Neri, Il forte di Sarsanello (in Ardi. stor. ital., ser. I\, voi. XV; e Giornale Ligustico, A. XIV, p. 302). Da queste scritture risulta sfa tata la leggenda della costruzione attribuita a Castruccio , con le migliorie e gli abbellimenti dei Fregoso, ed ove I’ egregio a. ne prenda conoscenza vedrà che il Milanesi, a cui attribuisce equivoca o mala interpretazione di documenti, aveva pienamente ragione. Corredano il breve studio quattro tavole di ottima riuscita. Le prime sono riproduzione di carta e tipo conservati nell’Ardi, di Stato genovesi; interessantissima quella di Sarzana e adiacenze del 1.626, e le piante dei due forti ; le altre due presentano nell’insieme e in alcune parti cospicue il forte di Sarzanello. - 353 - Alfredo Pancini. Dizionario moderno. Supplemento ai dizionari moderni. Milano, Hoepli, 1905; in 8° ili pp. 553. — Quando si è detto che questo è un libro utile, e tutti lo riconoscono, ci sembra sia la maggiore e miglior lode. Che cosa si sia proposto 1’ autore lo chiarisce assai bene nella prefazione, la quale racchiude considerazioni notevolissime da tenersi in buon conto per dimostrare da un lato che la lingua nostra ha nel suo patrimonio una quantità di vocaboli e di modi trascurati nel moderno andazzo dello scrivere secondo la moda, che preferisce il gergo straniero, e dall’altro che si piega agevolmente ad accogliere elementi nuovi de1 quali oggi non si xiuò fare a meno. È una bella pagina che ci mette dinanzi qual sia lo stato presente della lingua italiana, e racchiude i germi d’un lavoro pensato e geniale sopra questo argomento. Ma qui basta e giova a dar ragione dell’ opera, la quale, come supplemento vero e proprio dei dizionari, registra, illustra e spiega non solo le voci della lingua scritta che in quelli non si trovano, ma eziandio quelle della lingua parlata contaminata da locuzioni e vocaboli dialettali, ibride, strane, curiose e via dicendo. Abbondano e hanno conveniente spiegazione le parole della scienza, della burocrazia, della plutocrazia, della politica , della società elegante , dei moderni divertimenti ed esercizi compresi sotto il nome di Sport, dei giornali ecc. ecc. e chi apre il libro trova il fatto suo. Or dunque se il libro serve, e risponde al fine propostosi dall’autore, vuol dire che muove da solido principio ed anche nella sua esecuzione segue retti criteri e in generale bene applicati. Ci sono dei difetti, è vero; ma agevolmente potranno esser corretti dall’ a. stesso, il quale non solo non si mostra schivo delle osservazioni critiche , anzi le domanda e si mostra disposto a farne suo prò. Così in una nuova edizione si vedranno riempite certe lacune, tolte via alcune superfluità, modificate qua e là definizioni, rilievi, giudizi, e simili concieri che il P. saprà far di buon senno tornando sull’opera sua coll’intento di renderla migliore, che il rendere perfetti codesto genere di lavori crediamo sia difficile, per non dire impossibile. Intanto auguriamo venga presto la promessa appendice, atta ad integrare e ad arricchire il presente volume già di per sè abbastanza materiato. Si jiotrebbe dire per fine che nelle locuzioni, nelle fras i, nelle sentenze vulgate s’incontra più d’ una volta col noto e fortunato libro del Fumagalli, e perciò v’ha duplicazione inutile; ma il P. si è giovato soltanto di quelle che entravano nel suo disegno, e chi ben guardi non può notarlo di copiatore pedissequo. Amedeo Pellegrini. Niccolò Piccinino per la repubblica di Lucca. Lucca, Baroni, 1904 ; in 8°, di pp. 27 (Estr. dalla Rassegna Lucchese). Del Piccinino si parla assai poco in questa breve memoria; chè nelle prime pagine si narra come la città di Pietra-santa si ribellasse ai Lucchesi nel 1436 per istigazione di Genova; e nelle rimanenti sette si narra come gli Anziani di Lucca con- — 354 — ducessero al loro stipendio il grande condottiero, allora a! servizio del Visconti, e si descrive la breve e minuscola guerra che ne seguì tra il Piccinino e lo Sforza fin al giorno in cui la ritirata di quest’ ultimo verso Venezia e il suo passaggio a parte viscontea costrinse Firenze a stipulare un accordo coi Lucchesi. Il lavoro è ricco di note erudite e fondato su documenti inediti ; ma mi sembra scritto in fretta. Cristoforo di Lavello è ora chiamato con questo nome, ed ora il D'Avello (pag. 7): il D’Anghiari è spesso detto Anghiari o Agliari : più volte si adopera assai inesattamente la parola ricatto (pag. 6). Infine nel giudicare della politica lucchese il P. adopera frasi che farebbero dubitare come egli ignori che cosa s’intenda per politica nell’Italia del XV secolo. Infatti egli dice che gli Anziani sapevano di mentire (o quando inai gii uomini politici dissero la verità ai loro nemici?); ed accennando a certi tentativi di patteggiare coi ribelli, chiama la condotta dei Lucchesi vile e vergognosa. Io vorrei che certi giudizi e certe affermazioni fossero meno recise, e che scrivendo nel XX secolo, si mostrasse di conoscere un po’ meglio le condizioni del nostro paese nei secoli precedenti. (C. Manfroni). SPIGOLATURE E NOTIZIE. *** La Rivista di Scienze storiche dedica il fascicolo IV, 30 a-prile L905 a S. Alessandro Sauli in occasione dei festeggiamenti fatti a Pavia per la sua recente canonizzazione. Apre la serie degli sci itti Monsignor Francesco Ciceri Vescovo di quella Diocesi accennando alle benemerenze del Sauli ne’ suoi uffici chiesastici. Segue Rodolio Maiocchi, il quale dà notizia di tre volumi autografi del santo con-sarvati nell’archivio episcopale, e produce da essi il sunto di sei discorsi « In festo Sanctissimi Sacramenti ». Pubblica quindi XXI documenti inediti che lo riguardano, quattro di essi si riferiscono più specialmente al padre di lui Domenico fra quali rilevante il testamento e il codicillo. Intorno a quest’ ultimo illustre personaggio genovese ci dà un’ ampia e ben condotta monografia Orazio 1 remoli, con la quale degnamente si chiude il fascicolo. *** Col titolo d’attualità: Un précurseur francais de Stoessel au seizième siècle. Un siège de deux ans, Charles de La Roncière (in Le Gorrespondanl, CCVIII, 162) narra le vicende dell’assedio posto dai genovesi al forte della Briglia, altrimenti detto di Capodifaro (Gò de fa) allorquando i francesi, cacciati nel 1512 dalla città e dal Castelletto, tennero ancora quella fortezza, dove il governatore Guglielmo de Houdatot, s’era asseragliato co’ suoi. L’assedio durò fino al 26 agosto 1514, due anni e sette giorni, e i nostri annalisti ne hanno lasciato ampie relazioni. Ma il de La Roncière ha certamente — 355 - condotto il suo racconto sopra fonti francesi autorevoli, cliè vi si leggono particolari importanti e assai più ricchi e circostanziati di quelli esposti dagli scrittori genovesi. Inoltre egli reca le date con maggiore esattezza. Notiamo che nel toccare dei fatti precedenti, accennando al supplizio sulla piazza del Molo di Demetrio Giustiniani, afferma che in questa triste opportunità « pour la première ibis, le jour de l’Ascension de l’an 1507, fonctionna la guillotine eu présence d’un roi de Franco ». Che se si dubitasse della descrizione lasciatane dal cronista Jean d’Autori, si potrebbe utilmente consultare « la miniature d’un manuscrit savoyard du quinzième siècle à son declive (Kiblioth. Nation., ms. latin 9473, fol. 13 v): le patient a la téte engagée dans la lunette, le bourreau va tirer la corde ». *** Fra gli autografi messi in vendita alla pubblica auzione dal libraio romano P. Luzzietti (cat. n. 176) abbiamo notato dodici lettere del P. Angelico Aprosio da Ventimiglia scritte negli anni 1642-1655 ; non è detto a chi indirizzate. Del pari non si rileva a chi furono scritte da Oreste Raggi , noto letterato di Carrara, le dieiasette lettere che dal 1864 vanno al 1885 ; mentre 1’ unica lettera del 16 aprile 1487 di Battista Campofregoso, uomo politico e scrittore, apparisce indirizzata ai Protettori del Banco di S. Giorgio e proviene certamente dall'archivio genovese. *** Per la coltura genovese nel secolo XVIII non è fuor di proposito il notare come il senatore Lomellini nel 1768 parlasse all’inglese Lloid con molta lode e molta stima di Alessandro Verri, esprimendo il vivo desiderio che si stampasse quel suo saggio della storia d’Italia rimasto inedito, e del quale ne andavano attorno copie manoscritte. Ciò si rileva dalla parte non ancora data in lucè del carteggio dei Verri, che si conserva presso i conti Sormani e la marchesa Faa di Bruno, e di cui ha potuto giovarsi Emanuele Greppi per la sua recente notizia di Un'opera inedita di Alessandro Verri sulla Storia d’Italia (in Ardi. Stor. lombardo, Ser. IV, voi. Ili, p. 95 segg.). Il Lomellini è quell’Agostino che fu Doge (17'ì0-62) ed ebbe fama europea per dottrina politica e filosofica ; singolarmente lodato dal Lalande. Si chiamò in Arcadia Caramicio Nemillo, e si hanno di lui notevoli poesie. A lui si deve la famosa villa di Pegli. Nella biblioteca del Capitolo di Toledo, della quale si va pubblicando il catalogo con molta competenza bibliografica, in fogli aggiunti alla importante Revista de Archìvos, bibliotecas y museos di Madrid, esiste un codice del secolo XVIII, già appartenuto al Cardinal Zelada nel quale si contiene II cattolico Aristarco di Tomaso Oderico Gentiluomo Genovese.... Dialoghi contro l’astrologia superstiziosa de’ Gentili. L’Oderico è noto per molte pubblicazioni astrologiche, fra le quali sono curiosi una specie di almanacchi con le predizioni dell’anno. Il Soprani (Scrittori Liguri) tenne nota anche delle opere lasciate manoscritte dopo la sua morte, avvertendo che egli riteneva fossero « ite a male »; questa è appunto una di esse. - 356 — *** Una importante pubblicazione è quella recentemente uscita, di Giuseppe Mazzatinti , col titolo : Per la storia della « Giovine Italia » (Firenze, Bertelli, 1905). Riguarda le note accuse calunniose contro Giuseppe Mazzini per la uccisione, avvenuta a Rhodez nel 1833 di Emiliani e Lazzaresclii. L’ a. rifa oggettivamente e con imparzialità la narrazione , per fermarsi poi in modo speciale sulla querela per diffamazione sporta dal Mazzini contro Enrico Gisquet già prefetto di polizia nel ’33 , il quale nelle Memoire» pubblicate nel 1810, riprodusse l’accusa. E qui il M. pubblica la corrispondenza passata fra l’avvocato difensore Adriano Benoit, e il padre di Mazzini. Le lettere di questi sono notevolissime perchè rivelano da quali sentimenti egli e sua moglie fossero animati verso l’esule figliuolo, e costituiscono, in tanta scarsezza, un bello ed importante documento biografico, specie in ordine alle relazioni passate e mantenute fra padre e tìglio , e sulle quali si è non esattamente novellato. Nello splendido volume, e per molti rispetti importante, pubblicato dal comm. Piero Barbera Annali bibliografici c catalogo ragionato delle edizioni di Barbera , Bianchì e Comp. e di G. Barbera con elenco di libri, opuscoli e periodici stampati per commissione 1854-1880. Firenze, Barbera, 1904, troviamo alcune poche cose, ma certo non trascurabili, che hanno relazione con la nostra Liguria. Oltre il breve ricordo intorno al noto libro del La Marmora riguardante gli avvenimenti di Genova del 1849 (Un episodio del risorgimento italiano), e la corrispondenza di Filippo Polidori che pubblicò nella Collezione Diamante le Poesie del Chiabrera; richiamano specialmente la nostra attenzione il carteggio di Gustavo Strafforello col Barbera (p. 245 segg. e 272 segg.), e quello di Giunio Carbone (p. 32 seg., 37 seg. e 53 segg.) di cui si dà anche un cenno biografico. Coni’è noto tutti e due prestarono 1’ opera propria nel curare alcune edizioni uscite dalla famosa tipografia, sia come illustratori, sia come traduttori. *** Le quistioni di precedenza fra le Corti italiane nel secolo XI V hanno dato argomento a Pietro Gribaudi di una monografia condotta sui documenti degli archivi di Modena e di Firenze. Quivi troviamo accennata per incidenza una piccola controversia sorta a Toledo nel 1560 fra gli ambasciatori di Firenze e di Genova. Contrasti per sì fatta ragione ne avvennero molti fra i rappresentanti dei due stati, e copiose notizie se ne hanno nei carteggi e nei documenti dell’archivio genovese. Nella campana dell’ orologio posta sulla torretta del palazzo del Vicario in Certaldo si legge la scritta seguente : f MCCCXLVTII. Iohannes de Pomtremulo me FECiT. Ecco un fonditore Iunigianese del secolo XIV fino a qui sconosciuto (Cioni , Le iscrizioni di Certaldo in Miscellanea storica della Valdelsa, a. XIII, p. 3). Segnaliamo con le parole di Camillo Manfroni (in Cultura 1905, n. 5) la ristampa dello studio di I. Kohler, Handalswertrage - 357 - zwischen Gcnua und Narbonne in 12 und 13 Jaharhundert (nei Jurist. Beitràge di Berlino): « L’illustre professore dell’Università di Berlino ripubblica, corredandolo di documenti, un suo studio sulle relazioni commerciali delle due città tirenoe, Genova e Narbonna, assai importante sotto 1’ aspetto storico non solo, ma più special-mente del diritto commerciale. Premessa una edizione critica di tutti i trattati, delle rinnovazioni, di alcune sentenze arbitrali ebe ad esso si riferiscono, 1’ a. prende in esame nel loro complesso e nei particolari di ciascuno i documenti stessi, con brevi illustrazioni storiche a chiarimento dei fatti; e si ferma specialmente sulla parte che riguarda 1’ abolizione reciproca dell’ infame diritto di impadro-nirsi delle spoglie dei naufraghi, sulle tariffe dell’usaticum, o diritto d’ancoraggio, sulle stipulazioni riguardanti i procedimenti giudiziari, e finalmente anche sui titoli e sull’ ufficio dei magistrati, che compaiono nelle carte da lui pubblicate ». **» Nel Bulletin italien (Tom. Y, pag. 131 segg.) G. Pelissier pubblica da un codice della biblioteca di Lione Un traile de géogra-phie politique de VItalie composto sul cadere del secolo XV, dove è un rapido cenno de La duchèe et rivière de Gennes. Parecchi errori mostrano 1’ anonimo autore poco pratico della nomenclatura esatta e della posizione di più luoghi. *** « Il 17 agosto 1678 il S. Uffizio, in seduta solenne, pronunziava sentenza contumaciale di degradazione e suprema condanna contro Paolo Girolamo Rivarola, figlio di Agostino, sacerdote di Chiavari ed arciprete di Strevi, diocesi di Acqui, d’ anni 37, stato denunziato al Santo Uffìzio d’Alessandria , fin dal 1671. Arrestato a Milano , riusciva ad evadere nella notte del 30 maggio 1671 ; si portò a Genova, « ov’ egli apostatato dalla S. Fede cattolica passò all’empia setta di Calvino e prese moglie eretica ginevrina ». Xel-l’ottobre 1675 egli trovavasi a Zurigo. Citato una prima volta il 20 agosto 1673, quindi il 17 maggio successivo a comparire davanti il Tribunale di Roma, non si presentò; perciò i giudici pronunziarono la condanna sua ». Per quante diligenze fossero fatte non risulta che venisse preso. (Cfr. Cablo Galateki di Genola, Boma papale e i martiri del libero pensiero secondo documenti ufficiali. Roma, Casa edit. « La Speranza », 1904, pag. 146). APPUNTI DI BIBLIOGRAFIA LIGURE d>. [Bologna Pietro]. Bozzetti popolari di storia lunigianese. 1. Pie-trapana. II. Grotte e Caverne. III. Gli Etruschi. IV. Luni. V-VI. Lapidicinae Lunenses. VII. Apua. VIII. Vie romane. IX. Origine (1) Daremo nel prossimo fase, la bibliografia mazziniana in occasione del centenario. — 3)8 - della Lunigiana. X. Val di Magra. XT. Avanti il Mille (in A Noi! giornale democratico costituzionale , Pontremoli, 1905. n. 10, 11, 12, 13, 14, 15, 16, 17, 18, 19, 20). Boyd Tasciier John. Christopher Columbus, bis Life, bis Work, as revealed by originai printed and manuscript records together with an Essay on Peter Martyr of Anghera and Bartliolome de las Casas, thè firs liistorians of America. New-York, et London, G. P. Putnam’s Sons, 1902-4904; in 8°, 10 parti in 6 voli., e un atl. di facs., con fig , tav. e carte. Breviari Ottone. Guida della linea ferroviaria Genova-Spezia. Milano, Touring Club ital. (tip. Capriolo e Massimino), 1905; in 8° di pp. 40, con tav. e fig. — Guida della linea ferroviaria Genova-Ventimiglia. Milano, Touring club. ital. (tip. Capriolo e Massimino), 1905; in 8° di pp. 44, con tav. e fig. BRDNAMONrr-BoNACci Maria Alinda. A Genova. — Alla Spezia (in Bicordi di viaggio, Firenze,. Barbera, 1905, p. 91 e 94). Carlini A. e Gasperoni G. La Giovine Italia. Appunti di filosofia e di storia. Iesi, tip. edit. Cooperativa, 1904. Castellini Pietro. Da Genova a Sassari. Ricordi liguri-sassaresi (in II Cittadino, 1905, n. 69). — A San Fruttuoso di Capodimonte dopo 50 anni (ivi, n. 164). Ceryetto Luigi Augusto. Monumenti genovesi. Per la traslazione del Chiostro di S. Andrea a S. Stefano (in 11 Cittadino, 1904, n. 86). Ciceri Francesco. A S. Alessandro Sauli (in Ili vista di scienze storiche, A. II, n. 241). Costa de Bastelica F. M. Sampiero Corso. Ajaccio, Peretti, 1905; in 8° di pp. 344. Danielli G. Sulla morfologia delle valli Liguri (in Bivista d’h talia, A. VIII, voi. I, p. 495-503). A proposito di Rovereto, Geomorfologia ecc., cfr. p. 120. De Amicis Giuseppe. L’abate Ambrogio Multedo (in II Cittadino, 1905, n. 57). Della patria di Cristoforo Colombo. Savona, Ricci , [1905], in 8° di pp. 15, con facs. Documenti inediti riguardanti S. Alessandro Sauli [editi per cura di Rodolfo Maiocchi] (in Bivista di scienze storiche, A. II, p. 263). Gallo Oreste. 11 paese dei fiori: guida monografica, artistica, illustrata di S. Remo. Disegni di Achille Bkltrame. Milano, Guai-doni, 1905; in 16° di pp. 70, con fig. - 359 - Gasperoxi G. La Giovine Italia. V. Carlini. Issel Arturo. Le aree di Marassi e di S. Martino. Studio geologico. Genova, tip. Papini, 1904; in 4° di pp. 8. — Osservazioni geologiche fatte nei dintorni di Torriglia. Genova, tip. Cimili ago, 1904; in 8° di pp. 4. — Osservazioni intorno alla Frana del Corso Firenze in Genova. Perugia, tip. Guerra, 1904; in 8° di pp. 10. Kokler J. Handelsvertriige zwiselien Gonna und Narbonne in 12 und 13 Jalirhuudert. Berlin , Decker, 1904. (Estr. dai Jurist. Bei-trdge). Isola Michele — Mezzana Francesco. Osservazioni esposte alla Camera di Commercio di Spezia nella seduta del 26 aprile 1905 in opposizione alla proposta per il trasloco del Tribunale da Sarzana a Spezia. Sarzana, tip. Lunense, 1905 ; in 8° di pp. 10. Per le notizie storiche cfr. Corriere della Spezia, 1905, n. 23. X La Pontière (De) Charles. Un précurseur fran<;ais de Stoessel au seizième siècle. Un siège de deux ans (in Le Correspondant, volume CCVIII, p. 162-171). Maiocciii Rodolfo. Sunto di sei discorsi sull’Eucaristia di Sant’Alessandro Sauli (in Rivista di scienze storiche, A. II, p. 250). Molfino P. Francesco Zaverio. Il Convento dei Cappuccini in Voltaggio, Genova, tip. della Gioventù, 1905; in 8° di pag. 64, con figure. — Notizie storiche di Pontedecimo. Genova, tip. della Gioventù, 1904; in 16° di pp. 12. Moresco Mattia. Le fabbricerie secondo il decreto napoleonico 30 dicembre 1809 con particolare riguardo alle Provincie Liguri e Parmensi. Milano, Soc. Ed. Libraria, 1905; in 8° di pp. 311. Oxilia Ugo Giuseppe. Una relazione letteraria di Ugo Bassi. Roma, tip. Unione Cooperativa, 1905 ; in 8° di pp. 19. (Estr. dalla Rivista d’Italia, aprile 1905). Carteggio di Ugo Bassi con Giuseppe Gazzino Genovese. Petrarca e Genova (in Corriere mercantile, 15 aprile 1904). Reca le iniziale E. S. A. Podestà Ferdinando. Il Papa Nicolò V e il Risorgimento delle lettere e delle arti nel sec. XV (in Antologia Periodica di Letteratura e d’Arte, 1905, febbraio). Podestà Francesco. La villa Cainpoia a Beiro (Rossiglione Ligure). Genova, tip. della Gioventù, 1905; in 16° di pp. 14, con tav. — 360 - Portolano delle carte d’Italia. Da Yentimiglia a Monte Circeo incluse le isole dell' arcipelago Toscano e Pontine. Genova, Sordomuti, 1904; in 8° di pp. 339, con fig. e cart. Premoli Ohazio. Domenico Sauli (in Bivista di Scienze storiche, A. II, p. 292). Rapallo: past and present; walks and excursions. London, Philip et Son, 1904; in 16, di pp. XI-158, con ine. e cart. Reca le iniziali dell’ autrice P. I. A. Rocchi Enrico. La cittadella di Sarzana ed il Forte di Sarzanello. Ricordi storici (in Bivista di artiglieria e genio, voi. II, 1904, pp. 137-154, con 4 tav.). Rodriguez Villa Antonio. Ambrosio Spinola, primer Marqués de los Balbases. Ensayo biografico. Madrid, Fortanet, 1905; in 8° di pp. 770 con rit. e fig. Rossi Girolamo. Avanzi di sepolcri dell’ antica Albium Intemelium (in Atti d. B. Accademia d. Lincei, Ser. V. Notizie d. scavi di antichità, 1904, voi. I, p. 221). Schiappacasse Nicolò. S. Brigida e Alfonso Pecha. Memorie storico-agiografiche. Operetta postuma. Genova, Gioventù, 1904 ; in 8° di pp. 21. — Passaggio a Genova, relazioni con genovesi e fondazione del monastero di Quarto. — Il Monastero di Quarto, origini e storia. Operetta postuma. Pavia, Rossetti, 19C4; in 8° di pp. 43. Sauli Alessandro. Sunto di sei discorsi ecc. Cfr. Maiocciii Rodolfo. Torresini Aldo. Un umanista moderno: Angelo Sommariva (in Fanfulla della Domenica, 1905, n. 18). Vinciguerra Mauco. Risonanze. Terra di Luni (in A Noi! giornale democratico costituzionale, Pontremoli, 1905, n. 10). Giovanni Da Pozzo amministratore responsabile. PUBBLICAZIONI RICEVUTE E. Maddalena. Moratin e Goldoni. Capodistria, Cobol e Priora, 1905. Giovanni Dolcetti. La profumeria dei Veneziani. Cenni storici. Venezia, Tip. Compositori, 1898. — Le bische e il giuoco d’azzardo a Venezia 1172-1807. Venezia, Calle-gari e Salvagno, 1903. — La fuga di Giacomo Casanova dai Piombi di Venezia. Venezia, Fantini, 1905. E. T. Moneta. Le guerre, le insurrezioni e la pace nel secolo decimonono. Milano, Tip. Ed. popolare, 1904-5, voi. 2. A. Della Torre. Rassegna delle pubblicazioni petrarchesche uscite nel sesto centen. dalla nascita del Petrarca. Firenze, Galileiana 1905. Attilio Rillosi. Il sentimento della pace in F. Petrarca. Conferenza. Mortara, Pagliaroni, 1904. Due episodi del poema i Lusiadi di Camoes ecl altre poesie straniere colla traduzione in verso italiano per Prospero Peragallo. Genova, Papini, 1905. Per la storia della Giovane Italia. Un episodio del 1833 narrato e illu-strato con documenti inediti da Giuseppe Mazzatinti. Firenze, Bertelli, 1905. Lettere inedite di Gustavo Modena (1840-41-42-48-49) con note illustrative di Giuseppe Baccini, Mario Aglietti, e Luigi Rasi. Firenze, Bertelli, 1903. Lime giocose edite e inedie di un umorista fiorentino del secolo XVII (Pier Salvetti) con note illustrative e cenni biografici e critici di Mario Aglietti. Firenze, Bertelli, 1904. Angelo Solerti. Musica, ballo e drammatica alla Corte Medicea dal 1600 al 1637. Notizie tratte da un Diario con appendice di testi inediti e rari. Firenze, Demporad, 1905, fig. Etudes critique sur la vie de Colomb avant ses decouvertes par Henry Vignaud. Paris, Welter, 1905. Giuseppe Ugo Oxilia. Una relazione letteraria di Ugo Bassi. Roma, Cooperativa, 1905. Nicolò Schiappacasse. S. Brigida e Alfonso Pecha. Memorie storico-agio-grafiche. Genova, Gioventù, 1904. — Il Monastero di Quarto, origini e storia. Pavia, Rossetti, 1904. Gregorio M. Schiappacasse. Pro musica liturgica. Genova, Peloso, 1904. P. E. Cereti. L’ assedio della città e del Castello di Tortona nel 1745. Tortona, Rossi, 1905. Antonio Pilot. Anche Celio Magno. Venezia, Pellizzato, 1905. Per la storia della decadenza della diplomazia italiana nel secolo XVII. Aneddoti di relazioni veneto-sabauda descritti e documentati da Carlo Contessa. Torino, Paravia, 1905. A WEB. TERZE 1) Il giornale si pubblica di regola in fascicoli bimestrali di 80 pagine ciascuno. 2) Per ciò che riguarda la Direzione rivolgersi in Genova al Prof. Achille Neri - Corso Mentana, 43-12. 3) Per quanto concerne l’Amministrazione, esclusivamente al-l’Amministrazione del periodico - Spezia. 4) Il prezzo d’associazione per lo Stato è di L. 10 annue. Per l'estero franchi 11. AI SIG-NORI COLLABORATORI La Direzione concede ai propri collaboratori 25 copie di estratti dei loro scritti originali. Coloro che desiderassero un maggiore numero di copie, potranno rivolgersi alla Tipogiafla della Gioventù - Via Corsica, N. 2 (Genova) che ha fissato i prezzi seguenti: Da 1 a 8 pagine D» 1 a 16 P‘aSine Copie 50 .... L. 6 Copie 50 . . . . L. 10 „ 100 . 10 „ 100 . 15 „ 100 successive „6 »100 successive „ 8 In questi prezzi si comprendono le spese della copertina colorata e della legatura, nonché di porto a domicilio degli Autori. Prezzo del presente fascicolo L. 3 Giornale storico E LETTERARIO DELLA pubblicato sotto gli auspici della Società Ligure di Storia Patria ANNO VI A. Pesce : Alcune notizie intorno a Giovanni Antonio del Fieseo ed a Nicolò da Campofregoso, pag. 361. — P. Accame : Una relazione inedita sul convegno di Acquemorte, pag. 407. — VARIETÀ: A. Giampaoli: Una scultura dimenticata di Felice Palma,pag. 417.—A. Neri: Aneddoto intorno a Labindo, pag. 423. — G. Sforza: I cavalieri aurati di Massa di Lunigiana, pag. 435. — BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO: Vi si parla di: A. Lumbroso e G. Mazzoni [G. Bigoni), pag. 437.— ANNUNZI ANALITICI: Vi si parla di P. Bologna, L. Gapelletti, A. Tassoni, A. Cliiti, L. Biadene, P. Rajna, F. Pintor, C. Ferrari, A. Lumbroso, O. Premoli, A. Pilot, G. U. Oxilia, A. Sorbelli, F. Gu-botto, N. Schiappacasse, D. Buonamici, A. Pilot, C. Contesso, H. Hauvette, E. Maddalena, P. Peragallo, L. Delle Pere, A. Segré, A. Favaro, Lettere di piemontesi, L. G. Pelissier, F. Pasini, P. E. Cereti, G. Giorcelli, A. Pilot, E. Sanesi, G. Boffitto, G. Giorcelli, pag. 443. — SPIGOLATURE E NOTIZIE , pag. 459. — NECROLOGIE, pag. 462. — APPUNTI DI BIBLIOGRAFIA LIGURE, pag. 465-, Bibliografia mazziniana, pag. 467. — SOCIETÀ LIGURE DI STORIA PATRIA, pag. 474. — Indice del Voi. VI, pag. 477. LIGURIA DIRETTO DA ACHILLE NERI E da UBALDO MAZZINI Fascicolo 10-11-12 1905 Ottobre-Novembre-Dicembre SOMMARIO. DIREZIONE Genova - Corso Mentana 43-12 AMMINISTRAZIONE La Spezia - Amministrazione del Giornale Genova - Tip. della Gioventù - 301 - ALCUNE NOTIZIE INTORNO A GIOVANNI ANTONIO DEL FIESCO ED A NICOLÒ DA CAMPOFREGOSO (1443-1452) Credo non inutile, per la storia delle relazioni fra il Connine di Genova e la famiglia Fieschi, la pubblicazione di una piccola serie di documenti, inediti, per quanto nii consta, ai quali faccio precedere alcune notizie atte a far meglio intendere il loro contenuto. Essi ci forniscono qualche particolare intorno alla nomina di Gio. Antonio Fiesclii ad ammiraglio perpetuo della Repubblica ed alla sua line infelice, ma meritata. La coincidenza poi di diverse circostanze, che avvicinano e quasi assimilano tale fine a quella di Nicolò Fregoso, che fu capitano generale della Repubblica stessa, avvenuta a breve distanza di tempo, mi ha indotto a trattarne in un’ unica pubblicazione; ed ò degno di nota che nessuno storico, ch’io mi sappia, anche fra i più esatti e minuziosi, sia contemporaneo, sia posteriore, ne ha mai fatto cenno : coincidenza questa forse più singolare delle altre, perchè mancante, almeno apparentemente e per alcuni di detti scrittori, di un serio motivo (1). (1) Nel presento scritto tocco appena di volo di parecchi punti importanti, sia per mantenere allo stesso le volute proporzioni, sia perchè dovrò trattarne alquanto più diffusamente in un altro lavoro. Questo verserà sopra un breve periodo di storia d’Ovada e sulla vita di un illustre figlio di questo borgo, ed a causa e nell’ occasione dell1 intimo nesso dell’ argomento con altri di indole più generale, avrò ad intrattenermi, per quanto brevemente, su parecchi episodii di storia, special-mente genovese, venendo a discorrere, ad es., del dogato e di un giudizio intorno a Raffaele Adorno, degli avvenimenti seguiti alla morte di Filippo M. Visconti, del dogato di Pietro Fregoso e dei rapporti fra questo , lo Sforza e i Fiorentini ecc. ecc. Siccome per motivi particolari non potrò terminare tanto presto questo lavoro, che partirà all’incirca dal ll'ij c giungerà pressapoco fino al 1470, o pel quale lio già raccolto Oiorn. St. o Leti, della Liguria. — 363 - Incomincio dall’Ammiraglio del Fiesco. È noto come la famiglia Fieschi sia stata un tempo insieme coi Grimaldi, guelfi al paro di essa, e cogli Spinola e coi D’ Oria, ghibellini, arbitra dello sorti del Comune di Genova. Nè è meno noto come, avvenuta la rivoluzione popolare del 1339, essa, a somiglianza di molte altre famiglie, ma con molto maggior preponderanza sulle pubbliche vicende, abbia preso a parteggiare, secondo che credeva ciò rappresentasse momentaneamente i proprii interessi, or coi Fregoso ed or cogli Adorno , divenuti a loro volta arbitri della stessa città, favorendo spesso la parte popolare contro altre famiglie. Il parteggiare però non significava pei Fieschi, nè del resto solo per essi, accettazione del nuovo Stato Democratico, e tanto meno idea di sottomissione alle famiglie nuovamente sorte e divenute cosi potenti in Genova; ma rispondeva ad una necessità di cose, a cui essi dovevano pel momento adattarsi. Tale adattamento invero era stato preceduto da vani tentativi fatti attine di riprendere 1 antica posizione, ed era ad ogni tratto interrotto da altri, dei quali il parteggiare non era che un mezzo od una forma. La politica seguita dai Conti di Lavagna nei loro rapporti colla Repubblica di Genova, può definirsi un applicazione pressoché costante del principio: mora tua, rifa mea. Essi consideravano quale elemento necessario alla loro sussistenza ed alla loro forza, e quale mezzo all accrescimento proprio, il cozzare con Genova, la quale, piuttosto che come sovrana, riguardavano quasi come una vicina incomoda e pericolosa per la sua potenza, anzi come una rivale, non senza la segreta speranza di potere un giorno diventarne signori. Ricordavano forse la sorte che il potente comune, appena sorto e consolidatosi a danno dei Marchesi suoi signori, aveva fatto subire numerosi documenti inediti, cosi ho creduto di pubblicare a parto quelli che formano oggetto del presente, riservandomi di trattare nell'altro la parte restante, che vi ha più speciale attinenza. — 3G3 — a questi distruggendone prima la potenza, sottomettendoli poi ed obbligandoli a riconoscere da esso, ciò che questo pel passato riconosceva da loro; e temevano, non a torto , di aver a fare la stessa fine (1). Era quindi naturale che essi, i quali erano un piccolo potentato in Italia e che anche per tal motivo non potevano a meno di ado ttare una politica propria, la quale salvaguardasse i loro interessi nei rapporti cogli altri potentati d’Italia, grandi e piccoli, partendo dai principii suesposti, questa facessero consistere nel cercar di prendere posizione di fronte, anziché di fianco, alla Repubblica. Tale politica, sebbene forse non la più consigliabile, era tuttavia possibile ai Fieschi, mentre non lo era stata, nò lo avrebbe potuto essere, agli Obertenghi, a causa delle diverse condizioni in cui si trovava l’Italia, le quali fornivano a quelli mezzi che non esistevano ai tempi di questi, ond’erano rimasti isolati e senza aiuto. Conviene ricordare che si era in pieno periodo delle Signorie , quando cioè formatisi e consolidatisi i diversi Stati italiani, ciascuno di essi metteva continuamente a partito e sprecava la propria vitalità in lotte spesso infeconde, allo scopo di soverchiare gli altri, e di ingrandirsi a loro danno, e di prendere anche preponderanza in Italia. Il principio delTequilibrio che gli stranieri impararono dagli italiani e che, proclamato più tardi dal Cardinale di Riche-lieu nei riguardi degli Stati Europei vige più che mai oggi, incominciava allora ad essere appena intravveduto, e non venne a far parte della politica italiana se non alcuni anni dopo, specialmente con Francesco Sforza nuovo duca di Milano e con Cosimo de’Medici, col sorgere cioè di due nuove e potenti case, l’una pervenuta, l’altra a- (1) lò noto como i Fieschi fossero un’emanazione degli Obertenghi (origine viscontile.) e corno fossero sottentrati nel possesso di molte torre e diritti già appartenuti ai medesimi. — Mi pare che il concetto ch'io vado qui accennando sia ben riassunto e scolpito da alcune parole dui Foderici (Della Famiglia Fioca, Trottalo , ecc. Genova, Farroni, pnj,'. LI), il quale narra corno » Cosimo do Medici Pater patriae fosse solito interrogar.... come stanno i Fieschi? e se gli era risposto bene: egli 80ggiunge.ua, dunque Genova dee star male : et all’ incontro ». — SG1 — spirante al principato. Nè ancora era sorto Lorenzo il Magnifico, il quale comparso, pur troppo solo come una meteora, nel cielo politico d’Italia, era riuscito, quasi nuovo Augusto a proporzioni ridotte, a mettere per alcun tempo la pace fra gli Stati italiani. In tante lotte, adunque, che fervevano, in tante leghe che si facevano in conseguenza di questa disgraziata politica, la quale non può chiamarsi internazionale perchè era fratricida, i Fieschi potevano trovare il loro posto ed un aiuto. E le alleanze famigliari e politiche coi Conti di Lavagna non erano per verità disdegnate da case sovrane e da potentati ; cosicché essi all’opera loro diretta di provocar lotte che già indebolivano di per se stesse la Repubblica, aggiungevano spesso contro la vicina gli accordi cogli Stati più discosti, che in qualche modo a-vessero avuto o conservassero aspirazioni sopra o contro la medesima. Questa politica poi era favorita dagli Stati stessi sia con approfittare di discordie sorte fra la Repubblica e i Fieschi, sia con suscitarle. E questi, venivano con ciò ad operare non solo per sè, ma per lo Stato che, palesemente od occultamente, li spalleggiava, rimanendone essi naturalmente gli alleati della mano sinistra, di cui quello si serviva riservando a sè il maggior Irutto, pronto anche a ritirarsi o a far finta di non esservi mai entrato, quando il giuoco non fosse riescito. Tre grandi esempi bastano ad illustrare questo aspetto presentato dalle relazioni dei Fieschi con Genova: quello di Gio. Antonio di cui mi occupo ora brevemente, quello di Gianfilippo, che, ribelle alla Repubblica pochi anni dopo, era sostenuto nascostamente, ma con vero trattato, dal duca Francesco Sforza e dai Fiorentini (1), l’uno e gli altri pure in lega con Genova e pur spergiuranti di non aver a che fare con lui ; quello infine di Gian Luigi, l’autore della congiura a tutti nota (2). Politica però che (1) Arch. St. Milano, Potenze Estere: Genova. Tale lega fu conclusa il HO die. 1151. (2) Xon intendo però istituire fra questo e gli altri due nn vero e proprio paragone, se non in quella parte in cui può sussistere e che - 365 - non solo non riuscì a fare la fortuna dei Fieschi, ma trasse anzi a rovina questa casa già cosi grande. Conseguenza sia dell’ atteggiamento tenuto di fronte a Genova più potente, sia ancora del progredire dei tempi per cui, per una legge naturale, vennero ad ingrandirsi ed a raffermarsi i potentati maggiori, a scapito dei minori. Tornando più direttamente al nostro argomento, è ovvio l’osservare che ogni occasione era considerata buona dai Fieschi per cercare di spezzare il freno aborrito e di tradurre in atto i loro disegni: tipica, ad esempio, fu quella della distribuzione delle cariche, specialmente dello più alte dopo la ducale : quelle cioè di Capitano Generale e di Ammiraglio, alle quali i nobili già mal comportavano di dover accedere in competenza coi popolari, che d’altra parte avevano per sè la suprema; tanto più malcontenti poi, perchè accadeva talora che esse fossero assegnate più volte di seguito a questi ultimi, senza cioè alternazione coi nobili stessi. Fu questa la càusa occasionale di un conflitto scoppiato in Genova nel 1441 , il quale ebbe poi non poche e gravi conseguenze sopra altri avvenimenti, e di cui io faccio qui un cenno sommario per l’intelligenza dell’argomento. Nel 1438 era venuto in Italia Renato d’Angiò per ricuperare il reame di Napoli coll’aiuto dei Genovesi, contro il re Alfonso d’Aragona (1). Dopo i primi successi però la fortuna aveva cessato di arridere a Renato e nel 1441 le sorti di questo re continuarono a peggiorare in guisa che il Papa, Eugenio IV, manifestamente servo al proposito. Giacché se l’atto di Gian Luigi non si può giustificare e so questi fu pure mosso dall’interesse, tuttavia l’atto stesso rimane sempre circonfuso di un’ aureola che non si può affatto attribuire alle vero o proprie ribellioni ed ai tradimenti di Gio. Antonio e di Gian-filippo. (1) Git miniami, Annali della Repubblica di (renova, ad a. — Litta, Famiglie celebri italiane: Fregoso. — Per la parte più generale della narrazione mi valgo specialmente di questi autori anche in seguito, non volendo moltiplicare lo citazioni e dovendo tornare su questi argomenti altrove. — 3G6 - contrario ad Alfonso , ed i Genovesi nemici acerrimi di questo, convennero di unirsi a far guerra contro il medesimo, il Papa per terra ed i Genovesi per mare (1). Allestitasi dunque da questi una squadra, ne fu eletto duce Giovanni Fregoso, fratello del Doge Tommaso. “ E la nobiltà ebbe molto a grave che Gioanni fosse fatto capitano, e dicevano che secondo gli ordini della città il capitaneato di questa armata era dovuto a nobile e non a popolare, e massimamente perchè delle due ultime armate erano stati capitani Biasio di Assereto e Pel-legro di Promontorio (e, occorre aggiungere, Nicolò Fregoso) tutti due popolari, ma sopra tutto ebbe molesto questo fatto Gioanni Antonio de Flisco figliuolo di Nicolao, il quale desiderava questo capitaneato e tanto gli aveva messo l’animo che aria giudicato esserli fatto grande ingiuria, se alcuno si fosse voluto eguagliare a lui in questo ufficio...... „ (2). Alle ragioni, facili a comprendersi, di tale desiderio del Fieschi, è da aggiungere questa, che egli si era sempre esercitato nelle cose di mare (3). Non essendo mia intenzione di scrivere della vita di quest’ uomo e di tutto ciò che riguarda i suoi quattro anni, più o meno continui ed effettivi, di ammiragliato, carica che ebbe poi davvero, espongo qui, del seguito degli avvenimenti, unicamente quei capi che servono al fine che mi sono proposto. Gio. Antonio Fieschi dunque, dopo quel che s’ è narrato , parti sdegnato dalla città e, favorito da Filippo Maria Visconti, duca di Milano e dal re Alfonso, che e-rano i due nemici naturali dei genovesi, si diede a molestare la Repubblica, finché nel dicembre dell’ anno seguente (1442) riesci a sorprendere Genova (4). Quivi il Doge aveva perduto terreno anche a causa del malcon- ci) Giustiniani, op. cit., ad a. (2) Giustiniani, loc. cit. — Federici, op. cit., pag. 75. (3) Serra Storia dell’antica Liguria e di Genova. Capolago, Tip. Elvetica, MDCCCXXXV, T. Ili, pag. 165. (4) Giustiniani, ad a. — Fedehici, loc. cit. -- Litta, loc. cit. - 367 - tento suscitato in molti suoi stessi fautori dai funebri veramente regali fatti al fratello suo Battista (1). Tommaso Fregoso, invitato a lasciare il ducato, rispose di voler prendere consiglio e cercò di venire a patti col Fieschi : ma questi, insofferente di indugi, assalì il palazzo, onde il Doge dovette fuggire e darsi nelle mani di Raffaele Adorno del quale rimase a lungo prigioniero, ricevendone anche perfidi trattamenti (2). Furono creati otto capitani della libertà fra cui naturalmente il Fieschi e l’Adorno (3), il quale ultimo, eterno cospiratore, aveva avuto parte importante in tutto ciò (4). Di fatto questi due, d’ accordo fra loro, dominavano: ma l’accordo era apparente, come in simili casi suole accadere, perchè ciascuno di essi cercava di soppiantare 1’ altro. Dopo cinque settimane i dissensi scoppiarono: l’Adorno non aveva cessato nel frattempo da quei maneggi nei quali era cosi consumato e la cosa finì come doveva finire, ossia colla sua nomina a doge (5). Invero era facile capire per più ragioni, e particolarmente date le condizioni e la costituzione della Repubblica, come fra i due dovesse riuscire Raffaele ; e Gio. Antonio, che avrebbe dovuto intenderlo anche lui, viste svanite le sue speranze di portare la famiglia, nella propria persona, al potere, deluso e beffato così amaramente , riprese le armi e si diede nuovamente a molestare la Repubblica, occupandone anche alcune terre. Venne allora “ deliberato in pubblico consiglio di fare qualche composizione con esso Gioanne Antonio „ (6). Il (1) Litta, loc. cit. (2) Giustiniani , ad a. — Litta , loc. cit. — Circa i trattamenti usati dall’Adorno al Fregoso si può vedere ciò che ne è detto in Giornale Ligustico, a. XV, pag. lSlesegg., dove si riassume dal Neri un notabile documento, il cui originale il Ch. scrittore, sulla scorta del Desimoni, credette perduto, mentre io 1’ ho rinvenuto nell’Arch. di Stato, Divers. Com., fil. 16 e lo pubblicherò per intero nell’accennato lavoro. Si vedrà allora, anche per altri documenti, se Raffaele fosse quell’uomo candido e disinteressato che parecchi autori ci dipingono. (3) Litta, loc. cit. — Federici, loc. cit. — Serra, op. cit., ad annos. (4) Giustiniani, ad a. — Litta, loc. cit. (5) Giustiniani, ad a. — Litta, loc. cit. (6) Giustiniani, ad a. - 3G8 - Giustiniani pone queste molestie del Fieschi nell' aprile del 1444, ma vedremo che ciò non può essere avvenuto se non nell’ anno antecedente e non in quel mese. È strano che il citato storico non ci abbia detto in che cosa consistesse questa composizione, tanto più che essa fu molto importante, così perchè metteva fine ad un conflitto pericoloso, come per la sua stessa natura, giacche storici anche meno diligenti di lui, ci dànno la notizia che per essa il Fieschi raggiunse 1’ antico e sospirato intento, quello cioè di essere nominato ammiraglio perpetuo della Repubblica ed inoltre luogotenente della Riviera di Levante con ampi poteri. L’illustre annalista, che pure ci parla di altri personaggi i quali sostennero la detta carica e quella di Capitano Generale delle armi, non ricorda, non solo nella circostanza di cui è caso, ma in nessun’ altra, che Gio. Antonio sia stato ammiraglio dei Genovesi. Fra gli storici che dànno tale notizia, basta citare il Federici, che dichiara di avere anche presso di sè i decreti autentici concernenti queste nomine (1). Riguardo alle quali riesce notevole un incidente, che, mentre pose nell’ imbarazzo il Doge e gli Anziani, per poco non mandò a monte ogni cosa, con nuovo pericolo di una ripresa delle ostilità e peggio. L’elezione di Gio. Antonio Fieschi avvenne, ce lo dice il Cicala (2), ai 7 di marzo per atto di Tommaso di Credenza. Ciò lascierebbe legittimamente supporre che ogni questione fosse stata allora già appianata fra la Repubblica ed il Fieschi, principalmente per ciò che si riferisce alla restituzione delle terre usurpate da quest’ ultimo. Ora i documenti che citerò sembrano dimostrare che erano bensì già cessate le ostilità e che un accordo (1) Federici, loc. cit. e Abecedario. Questo storico però erra grandemente dove dice che Gio. Antonio aiutò Baifaele a farsi doge e cho questi subito lo nominò ammiraglio ecc.: inoltre turba l’ordine doi fatti nella restante narrazione, in modo che v’è ben poco da attingere. — Ai IO ottobre del 1 143 trovo una lettera diretta al Fieschi: * Incliti Comunis Ianue Admirato ». (Arch. St. Gen., Lìti., Voi. !», n. 125). (2) Sii. Arch. Municipale Genova, ad. a. - 309 — sussisteva a quell’epoca intorno a questa materia, ma ad un tempo ci fanno vedere come non fosse ancor in tutto definita ogni cosa: per il che deve frattanto ritenersi che anche la nomina dei 7 di marzo avesse, com’ è naturale, eguale valore, di cosa cioè ancora un po’ prematura o preliminare, e che abbisognasse di una riconferma. Ecco ora i documenti. Ai 17 di marzo, ossia dieci giorni dopo la data suddetta, la Repubblica inviava Raffaele Fieschi, Vincenzo Lomellini e Domenico Giustiniani sopra due galere a Rapallo o a Portofino, dove sapessero di trovare Gio. Antonio, con ordine di dirgli (e qui si rivela il fatto della ritornata amicizia) dell’incarico che avevano di recarsi a Lerici e in altri luoghi, a fine di mantenere in fede quella Riviera e muovere lui stesso a fare altrettanto presso gli uomini di Portovenere (1). E già ai 21 di febbraio erano stati mandati commissarii nella stessa Riviera di Levante Gio. Ludovico Fieschi, Giacomo Vivaldi, Battista De For-nari e Merualdo Marufio con incarico di ricuperare appunto Portovenere e altri luoghi fra cui la Spezia e Lerici, nominati pure nel citato incarico dei 17 marzo (2). Questo sarebbe avvenuto appunto a causa degli accordi, che per tal modo risulterebbero già stati conclusi nella seconda metà del febbraio, salvo la definizione più specifica che avvenne ai 7 di marzo. Si vede però nello stesso tempo che a questa data ogni cosa non era finita anche relativamente alle terre usurpate, e che il Fieschi non era ancora stato richiamato, almeno ufficialmente, in grazia ; di ciò del resto è prova più palese ancora il seguente terzo documento (3), importante per molti lati. Ai 21 di agosto del 1443 si era conclusa fra Genova e il Duca di Milano una lega, che fu poi preconizzata ai 27 del settembre susseguente. Il Giulini (4) dice di (1) Arch. St. Genova, Divers., filza 11. (2) Divers. cit. (3) Documento 1. La carta è rotta in più punti, come si può vedere, i li Gii uni, Memorie della città e campagna di Milano ecc. Nuova edizione <1«1 1850, Voi. VI, pag. 8*5. Ivi a piò pagina ò citato il Sanuto sotto quest’anno. — 370 - una lega e di una particolare alleanza conclusa dai Genovesi in Milano ai 24 settembre e cita l’archivio dei Panigaroli : io non mi proverò qui di spiegare, come forse potrei, il motivo di tale differenza, per non indugiarmi , bastandomi di citare documenti che dimostrano in modo inoppugnabile 1’ esattezza della data da me indicata, e lascierò da parte ciò che in quell'epoca si trattò dal Duca coi Veneziani, Fiorentini e Bolognesi.' Il primo di questi documenti è 1’ atto dei 21 agosto , di cui qui tosto: gli altri consistono in una lettera dei 16 settembre scritta a Teramo Adorno, in cui si parla della avvenuta conclusione della lega e della sua ratifica, della quale si manda una copia: e in un altra da cui risulta che la medesima fu preconizzata ai 27 dello stesso mese (1) — oltre ad una notizia del Cicala, il quale ci dice che Battista Guano e Dorino Grimaldi furono mandati il 25 a-gosto ambasciatori al Duca di Milano u per domandare la confermazione et osservanza della detta lega Fra i capitoli della quale, due, il 13.° e il 14.°, si riferivano al Fieschi e stabilivano : che il Duca s’impegnava ad ottenere dal Fieschi la restituzione di Portofino e delle altre terre del Comune entro uno o due mesi dalla pubblicazione della lega, salvo l’obbligo al Comune stesso di pagare a Gio. Antonio le spese fatte per la custodia e riparazione di dette terre; e però non avesse a sussistere tale impegno del Duca se intorno a detti luoghi fosse corsa qualche promessa del Doge o del Capitano Generale Barnaba Adorno a Gio. Antonio : che Genova richiamasse in grazia il Fieschi e quegli altri che avessero parteggiato pel Duca. Per tale trattato la questione fu terminata. Il giorno seguente, 22 agosto , infatti, e qui appare chiaro ciò che del resto era logico supporre, il Doge, gli Anziani e parte dell’Ufficio dei Provvisori, e-manavano un decreto con cui si concedeva uno stipendio annuo perpetuo di L. 3500 al Fieschi (2). Secondo il Fe- ci) Arcb. cit., LUI., Voi IX, n. 107 e 123 e taccio d’altri. (2; Doc. II. - 371 - clerici (1) lo stipendio fu di L. 3600 e fu concesso nel 1445, ma o egli si riferisce ad una conferma posteriore dell’Ufficio di Moneta o sbaglia quanto alla data e anche quanto alla somma. Nel decreto però non si accenna al titolo pel quale detto stipendio è accordato , dicendosi solo che ciò è fatto “ nomine provisionis „ e che si procede in base a promesse fatte. Si deve dunque supporre che la nomina fosse avvenuta in precedenza, e non troverei motivo per non ammettere la data dei 7 marzo fornitaci dal Cicala ; 1’ averci questo fatto il nome del cancelliere che redigette l’atto, il non trovarsi altra notizia di tale nomina e il possedere invece dati e documenti che lasciano capire come essa fosse già fatta in quel torno di tempo, inducono ad accettarla. La lega citata dei 21 agosto viene frattanto a costituire in certo modo quella riconferma di cui abbisognavano, se non l’atto dei 7 marzo, le trattative che lo precedettero, e anche quelle che lo seguirono. E del resto, anche senza ciò, il ritornare a trattare della cosa più tardi, se potè essere una necessità, fu fors’anche un desiderio dello stesso Fieschi, quale già aderente di Filippo Maria, o di ambe le parti, giacché l’occasione era buona e l’esito doveva apparire più sicuro. Rimarrebbe intanto assodato che il Giustiniani, ponendo nell’aprile dell’anno seguente l’accomodamento con Gio. Antonio, avrebbe errato quanto all’anno e quanto al mese, anche perchè non è troppo supponibile che si sia atteso tanto a fare quella composizione, salvo che quell’ annalista voglia riferirsi a nuove discordie, ipotesi meno possibile per più motivi. Abbiamo visto quali autorità fossero intervenute al-1’ emanazione del decreto con cui veniva concesso definitivamente lo stipendio al Fieschi. Perchè questo avesse vigore occorreva però ancora l’approvazione dell’Ufficio di Moneta, il quale era all’ incirca quello che oggi è il Ministero delle Finanze (2) e disimpegnava pure qualche (1) Abccetlario, fam. Fieschi. (■2) Cfr. Ghasso, Sigillo dell'Ufficio di Moneta in Giornale Ligustico, a. II, pag. 207. — 373 - mansione analoga a quelle della nostra Corte dei Conti. Lo reggevano otto prestanti cittadini, i quali erano in quell’anno : Luchino Grimaldi, Pietro de Mari, Leonardo Cattaneo, Manuel Saivago, Antonio de Franchi Lusardo, surrogato da Melchione suo fratello, Marco de Cassina, Tomaso Giudice notaro , surrogato da Bartolomeo Vele-rano (Valerano) notaro, e Luigi de Recco, laniero (1). Ora queU’Ufficio non si mostrò a tutta prima propenso ad approvare l’accennato decreto (2). La ragione che più chiaramente ci è palesata dal documento che cito è quella di un riguardo e di una correttezza, non puramente personale , ma anche, e più ancora, amministrativa e politica, dicendosi dagli Otto essi essere ormai prossimi a scadere e non voler impegnare i propri successori. Ma un altro motivo più importante appare dal citato documento e dal testo stesso della costoro deliberazione. Stentavano quei tutori della pubblica finanza ad aggravare per lungo tempo e per così forte somma il bilancio dello Stato, e forse non era estranea al rifiuto sia la ragione politica , potendo essere tutti, o parte di essi , contrari ad un uomo come Gio. Antonio Fieschi, e sia sopratutto la considerazione che la restituzione delle terre non era di fatto avvenuta, come lo prova il capitolo 13.° suaccennato. Tale restituzione fu fatta in realtà, come sappiamo dal Cicala, il quale dice che Gio. Antonio ridusse all’ obbedienza della Repubblica tutta la Riviera di Levante, ma più tardi. La supposizione fatta che ragioni di natura politica abbiano potuto influire, giustamente del resto, sul-l'animo di quel magistrato , non è del tutto infondata, anzi potrebbe essere avvalorata dalle parole stesse del Doge, che , dando relazione di questo e del seguito al Fieschi, lo conforta a non dubitare di nulla perchè coi successori degli attuali Otto della Moneta avrà maggiore affiatamento (3). Tanta correttezza e tanta indi- (li Ms. Cicala cit., ad a. (2) Doc. IV. (3) Doc. IV. - 373 - pendenza in quel magistrato suggeriscono molte considerazioni, e ci fanno poi anche vedere quanto esso procedesse con sistemi e tradizioni degne di ogni rispetto. Insisteva però il Doge, il quale vi aveva impegnato la parola e l’onor suo , e 1' Ufficio finalmente, dopo un’ adunanza prolungata assai, durante la quale stette chiuso nel palazzo, prese una decisione, la quale, anziché contraddire alle ragioni opposte dapprima, ne era in fondo una conferma, approvandosi con essa la spesa, ma solo per un anno a partire dal settembre (27 agosto) (1). Il Doge comunicò immediatamente la sospirata notizia al Fieschi colla lettera citata, accompagnandola con particolari, di parte dei quali ho già fatto cenno, mentre rimando per gli altri alla lettura del documento che pubblico alla fine. Non voglio però lasciar di notare la frase usata dal Doge nel riferire della lunga seduta tenuta dall Ufficio della Moneta: diutius et in palatio detentus. Sarà essa da interpretarsi nel senso di pressioni o violenze fatte a quel magistrato, ovvero in quello della pura permanenza di esso nel palazzo, sia pure colle dovute precauzioni ? La prima ipotesi avrebbe in appoggio qualche argomento ma piuttosto di valore generico, quello ad esempio degli usi del tempo: tuttavia troppi sono quelli che stanno in favore della seconda, e basterebbe all’uopo pensare all’ambiente ed alle tradizioni dello Stato di Genova, che potevano consentire, solo fino ad un certo segno però, a violenze contro i singoli, ma non contro un corpo; allo spirito di indipendenza mostrato e potuto mostrare dall’Uf-licio, il quale in fondo modificò di poco il suo primo deliberato; allo stesso dire da parte del Doge, che cogli Otto futuri si affiaterà meglio, e, infine, alla frase usata (1) Doc. II, III e IV. Noto che alla deliberazione del Doge , degli Anziani e dei Provvisori, di questi erano presenti cinque sopra otto, e che a quella dell’Ufficio di Moneta gli Otto erano al completo, ma vi tu una palla nera. L’adunanza di quest’ufficio dovette durare un cinque giorni o poco meno, non solo perchè il Doge la dice prolungata assai, ma ancora perchè il decreto appena emanato, dovette essere subito sottoposto alla necessaria e tanto desidorata approvazione. — 374 - in fondo all’ atto circa i mandatari del Fieschi presenti alla detenzione, cose tutte alle quali neppure contrasta uno dei significati, sia pure il più generico, che può attribuirsi al vocabolo u detentus Del resto se mali trattamenti fossero stati fatti contro gli Otto, il Doge probabilmente non l’avrebbe detto. Un’ altra cosa è da notare, la quale è meno facile a spiegarsi. La motivazione del decreto del Doge Raffaele Adorno ci appare fondata sopra due promesse, di cui non vien data alcuna spiegazione, dicendosi solo che esse e-rano state fatte una dal Doge attuale, l’altra da Tomaso Fregoso quando rivestiva la stessa carica, e si aggiunge anche che la promessa di quest’ultimo era per una provvisione annua di L. 2500, senza dire per quale titolo, come non lo è detto per quella concessa col decreto in esame, — la quale somma di L. 2500 avrebbe dovuto poi essere aumentata. Ora quanto alla promessa fatta dall'Adorno ò presumibile che essa risalisse ai 7 di marzo, e già vedemmo che nel trattato dei 21 di agosto si accenna a promesse precedenti, sebbene come a cosa eventuale e ad altro proposito, fatte dal Doge Adorno o dal Capitano Generale Barnaba, suo cugino. Quanto a quella di Tommaso io non saprei decidere quando, e come, ed a qual titolo ciò sarebbe avvenuto, se non facendo due ipotesi. In verità, prendendo ad esaminare i fatti a partire dalla nomina di Giovanni Fregoso ad ammiraglio, perchè prima di questa non vi è ragione di risalire , per ovvii motivi, è da ricordare che avvenuta la medesima (1441) incominciarono apertamente le ostilità e gli sdegni di Gio. Antonio Fieschi e che le costui molestie arrecate armata mano alla Repubblica seguitarono fino al dicembre del 1442, quando cioè egli riesci a sorprendere il Doge Tommaso ed a farlo cadere. Ora, due sole supposizioni io vedrei possibili: o che in qualcuno dei momenti trascorsi fra la nomina di Giovanni Fregoso e il dicembre del 1442 vi sia stata una tregua o comunque un qualche tentativo di accomodamento in cui sarebbe stata fatta la promessa delle lire 2500, colla nomina, probabilmente, ad ammiraglio: o che - 375 - ciò sia avvenuto nel momento in cui dice il Giustiniani che Tommaso prese tempo a decidere. Certo nè 1’ una nò l’altra di esse soddisfa pienamente per più d’una considerazione, ma le ricerche fatte finora non mi hanno dato di rinvenire documenti esaurienti. Neppure però dopo avere raggiunto quello che pareva il suo supremo scopo, e non era invece che un mezzo per giungere più in alto, neppure allora il Fieschi fu contento. È storia di tutti i tempi e tanto più spiegabile in quelli e in un Fieschi: è, dirò meglio, storia dello spirito umano, giungere ad un posto agognato come fine e poi non ritenersi appagato; oppure agognare ad un alto posto già avendo in mira di raggiungerne uno più elevato e salire, salire sempre. Gio. Antonio , strumento non solo di se stesso, ma della Francia, mirava, dunque, a cose maggiori, aiutato e rinfocolato nelle aspirazioni del suo animo irrequieto da quel re, nel cui potere cospirava di far cadere Genova (1). Egli sperava in un premio adeguato all’aiuto, e in verità non era piccola 1 'opera che avrebbe potuto prestare a tale riguardo, specialmente avendo egli il comando della flotta; e d’altro canto gli esempi, se non pure le promesse effettive, di fatti consimili verificatisi in Genova, giustificavano le speranze di lui. Il suo disegno era certo favorito e reso di più facile esecuzione, e fors’ anche suscitato, da circostanze fortunate per lui, e cioè dalla presenza in Italia dei Francesi, i quali si trovavano poco discosti, ossia nel-l’alessandrino (2). Nel momento in cui accadevano i fatti sui quali mi intrattengo, l’Alta Italia era in grande combustione. Ai 13 di agosto dell’ anno 1447 era morto Filippo Maria Visconti senza maschi legittimi, onde il Ducato di Milano era rimasto in balia di se stesso. Lasciando a (1) Doc. Vili 6 IX. (2) Doc. Vili e IX. — Corio, Storia di Milano, Milano, Francesco Colombo, 1856 ad a. — Gui.ini, op. cit. ad a. — Ma. Cicala ad a., anche per ciò che segue. — 376 — parte diversi particolari ed in ispecial modo la questione del testamento di Filippo, qui dirò solo che mentre i Milanesi se ne valsero subito per proclamare la Repubblica Ambrosiana (14 agosto), non cercarono meno di approfittarne dal canto loro gli altri Stati; e cosi Genova, Venezia, Monferrato, i Francesi ecc. si gettarono furibondi sulla preda, per prendere ciascuno dell’ex-ducato di Milano quella parte di spoglie che potesse, con tanto maggiore speranza di riescirein quanto i Milanesi si mostravano tardi nel provvedere ai gravi interessi che avevano in tutto ciò (1). Il momento era dunque buono per pescar nel torbido: il creare altre difficoltà a Genova che ne aveva già abbastanza, poteva recar non poco profitto a chi avesse a-vuto interessi contrari ad essa da far valere. E della situazione tentò di servirsi il Fieschi. Questi, oltre i Francesi , aveva amici e soldati al di là del Giogo, dove, e precisamente in quel di Tortona, possedeva parecchi feudi. Fra gli amici vi era Gian Galeazzo Trotti che gli teneva mano in quel suo disegno, il quale probabilmente consisteva nell’ unire le forze di Gio. Antonio con quelle dei Francesi da quel lato, mentre il Fieschi avrebbe fatto il resto dall’altro per assalire la Repubblica (2). Favorito per tal modo, il cospiratore moltiplicava i messaggi coi Francesi, per il che il pericolo, dato anche il momento critico , non era di poco peso per Genova. Ma 1’ occhio vigile del Doge Giano Fregoso, salito da poco al potere, il quale ne era stato avvertito, a quanto pare, dal cugino Antonio capitano nell’ Oltregiogo (3), seguiva gli atti di Gio. Antonio. Il Fieschi oltre ad essere imparentato coi Fregoso per via della moglie Giorgetta, escita da questa famiglia e cugina germana del Doge (4), apparteneva, ciò di cui più bisognava tener conto, ad una casa potente non solo in Genova, e della cui importanza anche fuori già s’ è fatto cenno. (1) Doc. Vili e IX. (2) Doc. XI. (3) Doc. XI. (4) Litta, loc. cit. — Battu.ana, Genealogie, fam. Fieschi. — Federici, Abecedario. - 377 - Qualsiasi provvedimento, dunque, preso contro il rappresentante di questa famiglia, poteva avere il suo contraccolpo non soltanto all’ interno, ma anche oltre i confini della Repubblica. Giano Fregoso pertanto usò di una benevola attesa prima di colpire. Egli stava osservando ogni procedimento del Fieschi per vedere fino a qual punto sarebbe giunto il cospiratore, e se per avventura questi non provasse qualche sentimento di resipiscenza o di ritegno: cercò anzi “ per ogni modo et via revocarlo da questo cativo proposito facendoghe ogni pia- xere ogni honore et ogni utile che......... fosse possibile cossi corno a ognuno è manifesto „ (3). Ma in un caso di simile natura, in un ambiente poco sicuro quale era quello di Genova e in quei momenti difficili, occorreva oltre la massima vigilanza e la prudenza, la prontezza sopratutto delle risoluzioni, cose che talora possono anche stare insieme. Giano, che non poteva ignorare e misconoscere la forza delle considerazioni addotte or ora in favore così dell’ attesa come dell’ azione, visto che colla prima il pericolo, anziché cessare, ingigantiva, dovette convincersi della necessità di passare ormai sopra altri riguardi e di non più esitare di fronte alla suprema ragione di Stato; onde, considerato u ut periculosum esset damnare : multoque periculosius decipi „ e come fosse preferibile u lo so male (del Fieschi) che lassare venire noi et li a-mixi nostri et questa republica in tanto estreminio „ (4), prese la sua decisione. In cosa però di tanta importanza non mancò certo di ispirarsi, oltre che alla situazione, alle persone altresi, sia per prendere consiglio, sia per prendere accordi. Trovo anzitutto fatta menzione nelle Collettanee del Federici di alcuni consiglieri segreti del Doge Giano appunto nel 1447. Ora a tal genere di nomine si addiveniva non già periodicamente e regolarmente, ma solo in casi speciali che richiedessero particolare consiglio e segretezza. Ce (4) Doc. Vili, IX, XII. (4) Doc. IX e XII. Giorn. St. e Lett. della Liguria. 25 - 378 - ne dà un esempio il Giustiniani all’ anno 1448 a proposito della guerra del Finale. È probabile dunque che Giano abbia voluto per la circostanza prender consiglio da uomini fidati, i quali sarebbero precisamente quelli di cui è menzione nel Federici e furono : Brancaleone d’Oria officiale di Moneta, Brancaleone Grillo, Domenico Marabotto, Giacomo di Benisia, Pietro di Montenegro notaio, Ludovico di Negrone anziano. Ma oltre che con questi, il Doge dovette consigliarsi collo zio Tommaso e cogli stessi Fieschi. Tommaso Fregoso, illustre vegliardo tanto venerato dai Genovesi, se ne viveva a Savona, d’onde, non togliendogli la grave età e gli acciacchi di avere ancor viva e lucida la mente, seguitava in realtà a regnare ancora col suo rispettato consiglio in Genova e sull’ animo dei nipoti. Tre di questi, Giano , Ludovico e Pietro, si succedettero nella dignità ducale, lui vivente; e tutti e tre non mancarono mai di consultarlo, anche nelle cose di minima importanza. Per convincersene basta leggere le lettere ducali dell’ epoca. È quindi fuor di dubbio che in tale circostanza Tommaso Fregoso tu consultato : e questi, che non era uomo dalle mezze risoluzioni, non potè non confortare il nipote doge ad agire fortemente (1). Nè credo valgano a far sorgere dubbio su ciò, le parole che si leggono in un brano di lettera a lui scritta dopo il fatto (2). Ma, sia pure dopo Tommaso per ordine di tempo, anche e non meno coi Fieschi dovette accordarsi il Doge prima di procedere contro Gio. Antonio. Quando ho detto che la politica di questa famiglia era ostile a Genova, ho parlato di sistema in genere e non ho quindi inteso che essa fosse sempre in guerra con il Comune, nè in persona di tutti i suoi membri, bastando che lo fosse (1) A prescindere da un truce fatto a lui attribuito (Serra , Storia di Genova , all’ anno 1118 ed altri), e sulla verità del quale potrebbe elevarsi qualche dubbio , certo è che Tommaso Fregoso aveva una mente ed un carattere di non comune levatura, se si tien conto di ciò che se ne legge negli storici. 02) Doc. VII. - 370 - in persona di alcuni o del capo di essa, come sembra che fosse Gio. Antonio. Ora questi aveva non solo seguito una politica opposta a quella di taluni fra i suoi parenti, quando si era messo contro la Repubblica, mentre essi stavano colla medesima, ma negli anni precedenti aveva pure lottato in armi contro di loro, ad e-sempio quando assaltò Gian Luigi Fieschi in Carrega (1). Onde è pur ammissibile che qualche ruggine potesse esservi fra lui ed altri personaggi della sua casa. Ma, se pure questi rancori continuavano, è facile capire che quegli stessi parenti, quando si fosse colpito in tal modo un membro della casa stessa, e un membro, dico, principale e cosi potente, se anche non avessero sentito la voce del sangue, avrebbero sempre voluto mostrar di sentirla non fcss’altro che per politica e per trarne profitto in qualche modo, recando gravi molestie alla Repubblica,* che cosi, sfuggita Scilla, andava a cadere in Ca-riddi. Ciò era possibile nonostante le buone relazioni fra essi e la Repubblica: ma quest’amicizia, per converso, doveva affidare il Doge di poter meglio intendersi con loro, quando avesse saputo conservarla, destreggiandosi con tatto. E dai documenti che ho rinvenuto, sembra risultare evidente che non si parlò solo della cosa, ma come anzi vi fu addirittura un accordo su ciò che si sarebbe poi fatto, riconosciuta la necessità di addivenire a quella decisione. Tali accordi ebbero luogo coi membri principali della famiglia, specialmente con Gian Luigi e con Gianfilippo suo figlio (2), destinato a prendere il posto di Gio. Antonio sia nei rapporti colla Repubblica, sia di fronte alla propria casa. Quanto alla carica di ammiraglio e di luogo-tenente e capitano generale della Riviera di Levante, il Federici dice che Gianfilippo le ebbe nel 1453 colio stipendio di L. 7500, dopo la pace fatta, mediante intervento del duca di Milano, fra lui e la Repubblica (3). (1) Federici, Abecedario, fam. Fieschi. (2) Federici, op. cit. — Battìi.ana,loc.cit.—Arch. Stat. Gen. Litt. Il, n. 405-406. (3) Abecedario, fam. Fieschi. — Scrutinio della Ligustica nobiltà , id. 1 - 380 — Quanto al capitaneato della Riviera, veramente Gianfi-lippo l’ebbe subito dopo la morte del cugino (1); ma il Federici si riferisce certo alla riconferma della concessione di tal titolo , resa necessaria dai fatti intervenuti. Che egli sia divenuto capo della famiglia alla morte di Gio. Antonio si arguisce anche da altri dati di valore, ossia non solo dal passaggio delle castella del defunto nelle sue mani, ma ancora dalle più volte accennate lettere ducali, dalle quali si può vedere come di continuo si scrivesse a lui per diverse questioni e pratiche, e dal complesso bi vede come a lui e non ad altri, o quanto meno più che ad altri, si riconosca importanza politica per parte così della Repubblica come degli altri .Stati, il che pure è noto per altre fonti e per le alleanze che egli contrasse. Ma venendo agli accordi accennati, questi risultano evidenti dai documenti che produco (2), quando non fossero sufficientemente provati dall’amicizia conservatasi anche immediatamente dopo 1’ uccisione di Gio. Antonio fra Genova e i Fieschi, senza che alcun incidente venisse a turbarla e dall’aiuto che il Doge prestò a fiianfilippo con molto zelo nella presa di possesso, per parte di questo, dei beni del defunto. I quali accordi dimostrano anche come il Doge (ed anche un po’ i Fieschi) avesse avuto gran cura di fare che , giacché il luttuoso fatto doveva compiersi, questo avesse il minor contraccolpo possibile, non producesse altre scosse e conseguenze, e si veiifi-casse insomma in modo tale da essere facilmente pei donato , venendo considerato piuttosto come effetto di necessità che di interesse o di odio, si da rendere anzi contenti i cittadini senza gettar luce sinistra nè sui Fregoso nè sui Fieschi medesimi. Un’ altra considerazione di natura diversa e di non poca importanza dovette incoraggiare il Doge nella sua decisione: l’estinzione cioè d’una casa e la fine d uno Stato Tale nomina avvenne in circostanze analoghe a quelle di Gio. Antonio, cioè dopo la lotta da lui sostenuta con Genova. (1) Doc. XIII. (2) Doc. XIII e XIV, e V e VI. - 381 - che più d’ ogni altro avrebbe potuto dargli noia per quell avvenimento. Intendo dire dei Visconti e del ducato di Milano, di cui per di più il Fieschi era stato un aderente e colla cui cessazione si rompeva una tradizione di amicizia colla casa di lui e di inimicizia con Genova. Gio. Antonio Fieschi pagò dunque colla vita il fio della sua continua irrequietezza e del tradimento : in che condizioni, in quali forme, silenzio assoluto; giacché nessuno storico, già 1’ ho detto, nessun annalista, nessun raccoglitore di patrie memorie, per quanto diligente, sia contemporaneo (e questi non poterono ignorare il fatto), sia posteriore (e fra questi qualcuno almeno lo ha conosciuto), nessuno dico, per quanto mi consta, vi ha fatto mai il più piccolo accenno. Lo stesso Federici, che, sebbene posteriore, non potè ignorarlo per molti motivi e in ispecie per aver potuto vedere i pubblici archivi, compreso quello segreto, da cui ho tratto la notizia, e che non poteva aver ragioni di temere, sia per la natura e per l’indipendenza sua, sia pel gran numero d’anni trascorso e pel mutamento dei tempi, tacque su ciò : nè saprei attribuire, almeno in lui, tale silenzio se non ai rapporti che lo legavano alla famiglia Fieschi, in cui lode, anzi, scrisse un trattato che ho citato più volte. Quanto al Giustiniani il suo silenzio è spiegabilissimo perchè egli scriveva fra il 1531 e il 1535, ossia non molto tempo prima della famosa congiura del 1547. Sarebbe stato dunque meno opportuno per molti riguardi 1’ accennare ad un fatto come quello di cui è caso, in un’epoca in cui tutto poteva servire ad eccitare qualche grosso incidente per parte della ancora potente famiglia Fieschi, tuttora fremente di sdegno ed aspirante a rivincite in patria. Le stesse ragioni possono valere per gli altri scrittori fino alla seconda metà del secolo XVI. Riguardo ai posteriori, non so se tutti, ad es. il Cicala, possano avere e-guali motivi di scusa: mi basta di aver accennato al silenzio generale, il quale in ogni caso è significante. Quanto alla fonte da cui io ho ricavato la notizia, essa è costi- — 382 - tuita unicamente dai documenti riprodotti in fine (1). Circa la data precisa del fatto la collocherei al 1.° di ottobre del 1447 o al più presto al 30 settembre. Infatti il giorno seguente il Doge scriveva allo zio accennando fra l’altro alla notizia datagli “ ieri „ circa la esecuzione capitale di Gio. Antonio (2), ed è presumibile che di simile fatto siasi voluto dare partecipazione a Tommaso senza ritardo. Eseguita la sentenza capitale, occorreva partecipare la cosa ai potentati, a quelli almeno i quali avessero maggior ragione di esserne informati ; e i motivi stessi esposti più addietro sono prova di tale opportunità e necessità. Il Doge adunque ne scrisse, oltre che ad alcuni personaggi e cittadini più influenti (3), al Papa, al Re d’Aragona, e all’ ambasciatore Cristoforo Tanso (4) esponendo molto sommariamente e colla massima concisione i precedenti e le giustificazioni del suo operato. La cosa non ebbe , a quanto sembra, altro seguito nei rapporti coi detti potentati, (come non lo aveva avuto fra i cittadini), sebbene avrebbe potuto averlo: al che mostrava di esser preparato il Doge quando scriveva allo zio, che pel caso di Gio. Antonio “ semo certi che mancherà molte opinioni ad altri. E noi atenderemo a fortificare le coxe nostre per ogni via per modo che non parera ad altri cossi legiero zocho a desterbarne „ (5). Ma a (1) Doc. dal V al XV. (2) Doc. VII. (3) Doc. VII, X, XI. (4) Doc. Vili, IX, XII. Risulta che questi era inviato ad una Signoria, ma non è detto a quale. Il Federici (Abecedarii , fam. lanso o fam. Tonso) parla di un Cristoforo Tanso di cui non dice altro se non che é nominato nel solito cartulario di Meliaduoe Saluago proprio nel 1447 ; e di un Cristoforo Tonso che in quegli anni coperse molte cariche fra cui quella di ambasciatore ai Lucchesi nel 1445- Naturalmente questo non ha a che fare col Cristoforo Tanso inviato nel 1447. Ira le diverse Repubbliche Italiane io stimerei che più probabilmente qui si trattasse della Fiorentina. (5) Doc. VII. S’intende che questa, espressa anche in altro punto dello stesso documento, era una sicurezza relativa e limitata. Il Doge stesso scriveva due giorni dopo (Liti., II, 405-406) a Gian Luigi e a Gian Fi- - 383 — parte altre considerazioni, nè il momento era tale da lasciar troppa voglia agli Stati di preoccuparsi di quel caso, nè in fondo si doveva dar importanza tanto grande ad un fatto la cui conseguenza era ridotta alla soppressione di una persona, giacché Genova non aveva con questo mostrato di voler approfittarne per conculcare e distruggere i Fieschi (1), anzi aveva riconosciuto erede della grandezza dell’ucciso un altro di essi. Il supplizio di Gio. Antonio non colpiva soltanto quest’uomo, giovane ancora (2) e pieno di vita e di energie che avrebbe potuto dirigere a migliori fini, invece di seguire quella politica accennata da principio. Egli lasciava ad espiare, sebbene in altra maniera, le sue colpe, oltre alla vedova, un figlio ancora fanciullo (3), Nicolosino, ed una figlia, Maria (4). Nicolosino dopo la sciagurata fine del padre, rimase affidato alla madie (5), che si ritirò presso i propri fratelli : di Maria non so se sia avvenuto altrettanto : solo posso dire che essa divenne poi moglie di Pandolfo Fregoso, fratello di Pietro e cugino del doge Giano (6). Certo però il provvedere alla tutela dell’ orfano infelice era importante, e Ludovico Fieschi da un lato e Gian Luigi dall’altro non tardarono a rivolgersi al Doge, ciascuno di essi a fine di averlo per proprio conto presso di sè (7). Il Doge però non aveva ancora deciso nulla lippo Fieschi, che avevano domandato aiuto (non però precisamente per fatti riguardanti la successione) parole che dipingono la difficile situazione di quei giorni, di cui già ho fatto cenno, giacché dicendo di non poter mandar denaro si esprimeva in questi termini : « Al facto del denaro noi avemo facto quello che se po et deo sa li affari che avemo. abiate compassione de noi.... » ecc. (1) Non si deve dimenticare (v. anche a pag. 363 nota (1)) come fosse di non poca importanza, particolarmente per taluni Stati, 1’ esistenza accanto alla Repubblica di un simile elemento, capace di mantenerla in condizione di continua debolezza. (2) Doc. IX. (3) Doc. XV. — Litta , loc. cit. — Battilana , loc. cit — Federici, Abecedario, eco. (4) Battilana, fam. Fieschi. (5) Doc. XV. (6) Litta, loc. cit. — Battilana, loc. cit. (7) Cit. doc. XV. - 384 - al riguardo e voleva naturalmente procedere in ciò, come si suol dire, col piede di piombo. Rispose dunque ad una richiesta di Ludovico non poter deliberare ancora intorno a questa materia ed avendo anzi già risposto negativa-mente a Gian Luigi, non poter ora affidare Nicolosino a lui : essere questi colla madre che ne aveva buona cura (1). Sembra però che nè questo Doge, nè i suoi successori, Ludovico e Pietro, abbiano mai deciso nulla al riguardo, o quanto meno la decisione sia stata di lasciar l’orfano definitivamente a Giorgetta, perchè nel 1452 i due sventurati viveano ancora insieme e si trovavano in Ovada, d’onde poi Nicolosino fuggì, o, forse meglio, fu fatto fuggire. Qui sarebbe da accennare ad un fatto anteriore e all’incidente di tale fuga, ma anche di ciò altrove. Nicolosino non deve aver avuto figli e neppure moglie: forse mori giovane e del resto i feudi del padre erano passati a Gianfilippo (2). I documenti infatti ci dicono chiaro che questi ebbe in un sol giorno tutte le terre lasciate dal cugino. S’intendono le terre non poste in quel di Tortona, per le quali vi fu un piccolo contrasto, ma che provenne da quel Comune: i documenti stessi si esprimono in modo da lasciar adito a credere che siano passate in dominio vero e proprio di Gianfilippo e non in semplice possesso e a nome altrui (3). (1) Cit. doc. XV. (2) Doc. X e XI. (3) A questo punto sorge spontanea una duplice questione: se cosi avvenne, perchè fu messo da parte il figlio, contro cui del resto nessun provvedimento era stato preso, e perche fra i tanti Fieschi tutto si devolse a Gian Filippo? E perchè questi, e non altri, divenne il capo della famiglia? e tutto ciò essendo ancor vivente il padre suo? (Doc. XIII. Arch.St. Litt. II, 405-406). A tale proposito è da osservare come intorno al sistema successorio (qui mi riferisco unicamente ai feudi e non agli al-lodii) secondo il quale si reggevano i Fieschi nulla o ben poco si conosca, ed a spiegare il fatto in questione non basta 1’ accampare il favore e l’appoggio che Genova possa aver voluto dare a chi eventualmente le fosse più caro fra gli altri della famiglia: ciò non sarebbe stato sufficiente a distruggere un sistema successorio, che doveva del resto dipendere in buona parte dall’ Impero, nonostante 1’ omaggio fatto dai Fieschi della contea di Lavagna a Genova, la quale ne li a-veva reinvestiti (Federici, Trattato ecc., pag. 1, 2). Gli è che in quella circostanza si dovette seguire il solito sistema, che ancora si ignora. I - 385 — Quanto a Nicolosino, il Federici non dice altro se non che fu “ figlio di Gio. Antonio e di Giorgetta figlia di Abraam Fregoso come in quinterno R. 1450 „ (1). Il laconismo del citato scrittore e la mancanza di altre notizie appoggerebbero l’ipotesi fatta circa la sorte del detto Nicolosino. Una notizia posteriore veramente ; 1’ u-nica che io abbia trovato, ci dà il Battilana, la quale consiste unicamente in una data, che questo genealogista pone vicino al nome di Nicolosino ed è il 1464. Questa data però non dice gran che, perchè potrebbe signifi- documenti che produco potrebbero far avanzare di un piccolo passo la questione , servendo forse ad escludere che nella famiglia Fieschi vigessero la primogenitura, il privilegio della linea discendente, il senio-rasco e il juniorasco , per accennare solo a questi fra i diversi sistemi vigenti nel medioevo. Ma di molte cose bisognerebbe tener conto nella soluzione del quesito, data la scarsezza dei documenti, giacché quelli accennati servono più ancora a far sorgere chiara la questione di quello che non siano sufficienti a risolverla: così dell’origine etnica dei Fieschi e di alcuni accenni fatti da qualche autore circa parecchi casi di successione o disposizione di feudi in cui sembra essersi usata grande libertà: nè sarebbe forse inopportuno distinguere fra quelli che, oltre la Contea di Lavagna, facevano parte degli antichi possessi dei Fieschi e quelli concessi poi nel corso dei secoli a individui e rami singoli. Ancora si dovrebbe tener conto dei diritti (spesso riconosciuti) che essi accampavano in Genova, di quello ad es. relativo aH’ammiragliato, che molti dei Fieschi ebbero, notandosi ancora la coincidenza, non certo casuale, della riunione delle due qualità di ammiraglio e di capo della famiglia nella stessa persona e il fatto che la famiglia stessa era signora di uno Stato eminentemente marittimo, perchè posto in buona parte nella Riviera Orientale. Nè è a trascurare il contrasto sorto alla morte di Gio. Antonio fra alcuni dei Fieschi, fra cui il padre di G-ian Filippo, per avere presso di sè il figlio (non dico 1’ erede) dell’ ucciso. Certo un capo vi era e non poteva non esservi, ma appunto il criterio che lo determina ignoriamo, e si noti che i Fieschi (taccio sempre, qui come in genere in questo scritto, degli altri condomini di Lavagna) sono chiamati negli atti così antichi come più recenti (sec. XV) Conti di Lavagna, senza distinguere fra l’uno e 1’ altro personaggio (V. ad es. Federici , Trattato, pag. 4, 5, 6 ecc. e Litterarum, II, 405-406 e così in altre numerose lettere). Queste ed altre molte cose che qui tralascio , si potrebbero considerare , ma non essendo questo il luogo di approfondire tale ricerca, mi fermo, bastandomi questo brevissimo accenno intorno all’importante questione. (Si veda anche, nel Bollettino Storico-Bibliografico Subalpino, anno VIII, n. Ili, lo scritto del Gabotto: Le origini « signorili » del « Comune », dove, a pagg. 135, 136 e 143, sono esposti alcuni principii molto importanti per l’argomento). (1) Abecedario, loc cit. _ 386 - care che questi sia stato nominato in un atto di quell’anno pur essendo morto, e del resto il Battilana non è autore del quale ci si possa interamente fidare. In ogni caso se questa data indicasse anche che Nicolosino visse ancora parecchi anni, non si verrebbe quanto meno a concludere che abbia avuto discendenza, della quale dovrebbe trovarsi qualche prova o cenno. A proposito del passaggio dei feudi a Gianfilippo, toccherò di un piccolo incidente, che precedette la presa di possesso da parte di lui dei castelli posti nel torto-nese. Ho accennato già alla morte di Filippo Maria Visconti ed alle sue conseguenze immediate. Ora, di quell’avvenimento non avevano approfittato soltanto i diversi Stati e gli stessi Milanesi. Alcune città maggiori già suddite dell’ ex-ducato, vista una cosi buoDa occasione, non avevano tardato neppur esse a risvegliarsi ed a levare il grido di libertà, e, proclamata la propria indipendenza, si erano costituite in repubbliche autonome, credendo forse di poter far rivivere nel secolo 1' epoca classica del glorioso comune italiano. Cosi fece Tortona (1). Ora, quando Gio. Antonio mori, ferveva questa lotta e questo movimento vario in cui ciascuno, grandi e piccoli, cercava di farsi avanti. È dunque facile comprendere come, rimasti, non dirò vacanti, perchè gli eredi c’erano, ma momentaneamente senza il potente loro padrone quei feudi, che egli aveva posseduto in quel di Tortona, questo importante comune abbia accampato subito su di essi le sue pretese (2). Ma i Genovesi non potevano per un lato permettere che i castelli di un loro cittadino fossero u-surpati e per l’altro avevano essi a loro volta le proprie mire, le quali convergevano, al dir degli storici, oltre che su altre regioni e terre, compresa Alessandria, anche e precisamente su Tortona. Essi infatti, morto Filippo, a-vevano passato il giogo con grosso esercito pedestre ed 1) Sismosdi, Storia delle Repubbliche Italiane. Milano, Francesco Pa-gnoni, voi. IV, pag. H8. — Giruxi, op. cit., ad a. (2) Doc. XI. - 387 — agivano onde riprendere certi antichi loro possessi e per minacciare poi, fra 1’ altro, quella città (1), sulla quale però non sembra che avessero fatto ancora alcun tentativo a quei giorni. La questione dei feudi si limitò, a quanto pare, ad un contegno energico ed a minaccie da parte del Doge, il quale saputo delle pretese dei Torto-nesi e degli ostacoli che essi avrebbero frapposto alla presa di possesso per parte di Gian Filippo, con cui sotto ogni aspetto gli premeva di tenersi in buona, inviò sul luogo Masino Fieschi a nome di lui (2) e scrisse ad Antonio Fregoso (3), che era capitano nell’Oltregiogo, dandogli istruzioni sul modo di contenersi coi Tortonesi e con Gian Filippo, quando questi fosse venuto per esperire i suoi diritti. Intimasse a quelli di non immischiarsi a pretendere ciò che non era loro, ma di cittadini genovesi: se quei luoghi pericolassero vi mandasse rinforzi, ove li chiedessero e facesse in modo di impedire che cadessero in altre mani che in quelle del Fieschi. In questa lettera Giano indica al cugino Antonio i modi da tenere con Giangaleazzo Trotti nella presente pratica, in cui quegli sembra entrare, e gli dice che badi di non lasciarsi ingannare. Non mi risulta se i Tortonesi abbiano insistito nelle turbative e quando Gian Filippo, che frattanto il Doge aveva avvertito d’ogni cosa (4) , abbia preso veramente possesso delle ripetute terre. Tutto però fa credere che non vi siano stati ulteriori contrasti, almeno gravi, e negli anni seguenti il Fieschi (5) risultava di fronte ai potentati il capo della famiglia, il vero erede della potenza di Gio. Antonio. Come di questa si sia servito poi, non è più compito mio il dirlo. (1) Giunsi, op. cit., ad a. — Corio, op. cit., Voi. Ili, pag. 11. (2; Liti. Il, 406. (3) Doc. XI. (4i Doc. XIII. (5) Doc. X. — 388 - II. Ed ora brevemente di Nicolò Fregoso. Tanto i Fregoso quanto gli Adorno nell’ avvicendarsi al potere seguirono più o meno sempre gli stessi sistemi; cosa naturale perchè in fondo il loro scopo era identico, quello cioè di insediarvisi in modo da conservarlo il più possibile. Ora un mezzo principalissimo nel quale si copiarono mirabilmente, con una logica del resto molto facile, fu quello pel quale un doge, appena eletto, chiamava tosto alle cariche principali, che dipendevano veramente da lui, comecché fossero pressoché parte del suo stesso grado e potere, i fratelli o i parenti più prossimi. Questi infatti, messi a dividere, col peso, anche i vantaggi del potere stesso, potevano costituire una doppia forza per la famiglia, mentre d’altro lato dimenticati, sarebbero divenuti più facilmente pericolosi. Il che però non toglie che talvolta, e cosi nel caso di cui mi accingo a parlare, il calcolo riescisse sbagliato e che il fratello o il cugino associato al governo della Repubblica non sene chiamasse soddisfatto e divenisse egualmente pericoloso. In ogni modo il sistema era riconosciuto per lo più buono e necessario, e regolarmente seguito, salvo al capo dello Stato vigilare sempre su tutti ed anche sui congiunti. Così quando agli 8 dicembre 1450, deposto il doge Ludovico Fregoso, fu eletto in suo luogo Pierino o Pietro suo cugino, questi che era stato fino allora Capitano Generale delle armi, chiamò a coprir quel posto, il più importante dopo la carica suprema di Doge , Nicolò Fregoso (1) suo cugino germano, figlio di Spinetta, il quale Spinetta era fratello di Tommaso e di Battista, padre, quest’ ultimo, dello stesso Pietro (2). Noto, per incidenza, che Nicolò aveva sposato Bianca Fieschi, figlia di Ludovico e cugina in primo grado secondo 1 uso volgare di Gio. (1) Gtidst., ad. a. — Litta, loc. cit. (2) Litta, loc. cit. Antonio Fieschi, col quale dunque era parente in due modi: per la propria moglie e per quella di lui (1). Il nuovo capitano generale possedeva qualità non comuni ed aveva già compiuto imprese importanti e segnalate per abilità e valore. Basta leggere all’uopo ciò che ne dicono il Giustiniani, il Federici e il Litta, a tacere d’altri. Egli era perciò ben voluto dai Genovesi che ne ricordavano le imprese, sebbene non tutte fossero state a loro vantaggio. Gli autori tuttavia, e fra questi il Federici, non escludono che fosse anche lui uno spirito irrequieto ed infatti già in precedenza egli aveva destato sospetti sul proprio conto (2). Non si potrebbe però qualificare senz’altro e con assolutezza come errore, l’atto pel quale il giovane e pur valente Doge chiamò vicino a sè il cugino. In quei tempi il possedere le qualità di cui questi era fornito equivaleva già per sè solo, specialmente se si trattava di uomo appartenente ad una grande famiglia, ad essere un ambizioso e perciò un mestatore pericoloso. L’esempio poc’anzi portato di Gio. Antonio Fieschi ne è una sufficiente spiegazione e non 1’ unica. Ora sembra sia stato atto più sapiente da parte di Pietro, quello di cercar di soddisfare all’ ambizione nota del cugino e di mettere ad un tempo a partito le costui qualità, tenendo anche conto del concetto in cui lo avevano i Genovesi, che non quello di lasciarlo in balia di se stesso e delle proprie mire più o meno sempre deste. Tuttavia Nicolò, come Gio. Antonio Fieschi, non fu contento di essere al Doge “ par in imperio „ (sono le parole del Doge stesso) e, come Gio. Antonio, cospirò ; — più colpevole di questi però, a cui poteva valer non dirò di giustificazione, ma di qualche scusa, il pensiero informatore dell’accen-nata politica dei Fieschi e quello di togliere la sua famiglia alla soggezione altrui, là dove aveva dominato. Nicolò non aveva tali motivi, chè anzi 1’ essere già al potere non soltanto per il grado, ma per l’appartenenza (1) Litta, loc. cit. — Battilana, loc. cit. (2) Abecedario, Fregoso. - 390 - alla casa dominante, e 1’ essere in giuoco il sangue fraterno, avrebbero dovuto accontentarlo per un lato e trattenerlo per l’altro. E ciò senza tener conto del pericolo a cui poneva sè e i suoi di perdere il potere stesso, facendolo ricadere nelle mani degli Adorno e fors’ anche degli stranieri. Ma egli, come suole accadere, non ascoltando che la propria ambizione, mise da parte ogni questione di dovere e di interesse vero e incominciò quindi a tramare contro il Doge ; sembra anzi che lo facesse senza troppa segretezza nella stessa città di Genova (1). S’ avverta che 1’ unica fonte da cui ho potuto trarre il fatto, dato il silenzio degli storici e la mancanza di altri documenti, è lo stesso Pietro Fregoso, consistendo essa nelle lettere scritte da questi in quella circostanza; ma non v’è motivo per dubitare della verità dei fatti, almeno nel complesso delle circostanze. Di quale genere fosse la cospirazione del Capitano Generale è detto nelle lettere riferite, in modo da lasciar facilmente supporre che consistesse nel progetto di rovesciare il Doge e met-tervisi al posto. Il pericolo frattanto non era trascurabile per lo Stato e pel Doge stesso. Questi sostenuto dai guelfi ed abbastanza ben visto in Genova, legato a filo doppio coi D'Oria (2), sebbene ghibellini, i quali per tal modo tenevano in iscacco gli Spinola ritirati nelle loro rocche, potrebbe sembrare che non avesse troppo ragion di temere. Ma per poco che si conoscano gli umori dei Genovesi a quei tempi e come perciò un doge non potesse mai ritenersi saldo sul trono, si comprenderà come realmente pericolo vi fosse e quindi tanto più grande la necessità di reagire specialmente poi in confronto di un Capitano Generale delle armi e di un Fregoso. Tuttavia Pietro volle prima attendere, tentando, finché gli fu consentito, di risparmiare un atto estremo. Parlò intanto più volte dei comportamenti di Nicolò col (1) Doc. XXIII. (2) Frequenti sono i documenti, specialmente le lettere (in Archivio di Stato), da cui risulta tutto ciò e in particolar modo l’amicizia grande coi D’Oria. - 391 - fratello maggiore di lui, Spinetta (da non confondersi quindi col padre sopra nominato), gli diede la prova della cospirazione e gli fece vedere quale fosse la condizione delle cose; lo rese insomma talmente edotto e convinto che quando, visto che il cospiratore seguitava per la via per la quale s’era incamminato, s’ aperse collo stesso Spinetta circa la necessità di decidere le cose con un colpo netto, — questi non seppe opporre nulla (1). Messe cosi le cose a posto da questo lato , onde non aver poi a crearsi difficoltà dalla parte del fratello di Nicolò, il Doge pronunciò e fece eseguire la sentenza. Ciò dovette accadere il 3 di giugno o al più presto ai 2 perchè il più delle lettere scritte per la circostanza sono del 4. Immediatamente però chiamò a succedere nella carica del giustiziato, Spinetta (2), onde ci si potrebbe domandare se fra i discorsi fatti con questo avanti 1’ e-secuzione, non passò pure una garanzia per parte del Doge di limitarsi a colpire la persona del reo senza toccare nè la famiglia, nè i beni, e la promessa di sostituire anzi nel Capitaneato lo stesso Spinetta. Direi che ciò deve cei'tamente essere avvenuto per 1’ appunto prima : in ogni modo era interesse del Doge di tenersi amico il fratello e gli altri parenti, per non coalizzarli contro di sè, e di salvare inoltre le apparenze dentro e fuori di Genova, perchè non si credesse che il desiderio di far grandi i propri fratelli Pandolfo e Masino od altro interesse, lo avessero indotto al grave passo (3). E certo in ogni caso che e allora e poi Pietro Fregoso si tenne sempre nei rapporti più favorevoli e stretti (1) Tutto ciò ripete il Doge in tutte le lettere scritte nella circostanza (Documenti in fine). (2) Documenti cit. — A 7 di giugno veniva concesso salvacondotto a Paolo Tersago già cancelliere di Nicolò (Liti., Voi. II, N. 1108) e ai 23 dello stssso mese si dava ordine a D.0» Boeto Caxanerio, di rilasciare iocalia del fu Mag.0 Nicolò Fregoso, sequestrate presso di lui d’ ordine del Doge, ad istanza di Nicolò Ratino ed altri (Arch. St. d.°, Manuale dei Decreti, N. 2, gen. 735). Il 26 detto poi trovo un ricorso per le doti di Bianchina (Div., filza 20). (3) Doc. cit. — 392 — con Spinetta; anzi siccome Nicolò era signore di Gavi, luogo che era nello stesso tempo la sede del Capitàneato d’ Oltregiogo, avvenuta la costui morte, ne facilitò allo stesso Spinetta la presa di possesso affidandogliene il governo ed ordinando ai Gaviesi e ad altre autorità del-1’ Oltregiogo medesimo, di riceverlo e di obbedirlo (1). Ma fece di più. Nicolò lasciava a piangere la sua sorte la vedova, Bianca Fieschi, e quattro figli, che ebbero poi tutti buono stato (2). Orbene affinchè la presa di possesso avvenisse senza difficoltà e temendo che queste potessero essere create dalla vedova, impedì a questa di u-scire da Genova e di recarsi a Gavi fino a che Spinetta non se ne fu impadronito. Allora solo egli lasciò libera Bianca, e a Gianfilippo Fieschi che gli chiedeva il motivo di quel sequestro della cugina rispondeva appunto che ormai questa poteva andare dove voleva, perchè le cose erano aggiustate (3). Qui cade in acconcio di accennare al modo con cui Pietro partecipò o parlò della cosa ai terzi. A Gianfilippo che nella lettera citata gli chiedeva i motivi del fatto, rispondeva in altri termini che, senza entrare in particolari, egli doveva comprendere come ad un tal passo dovesse essere addivenuto per motivi grav i e giustificati, che del resto erano noti. Quanto alla ^ e-dova già s’è visto che cosa ne dicesse. Accennava poi a Iacopone nipote di Gianfilippo in modo oscuro, ma che permette di pensare che il detto nipote potesse essere implicato anche lui nella congiura di Nicolò, giacche di esso diceva solo che comportandosi bene non avrebbe nulla a temere. Scrisse pure a diversi altri personaggi fra cui a) Doc. xvu, XVIII, XIX. (2) Litta. Ci) Doc. XXIII. — Veramente nei documenti citati non si trova cenno della presa di possesso di Gavi per parto di Spinetta, se non come capitano; ma è certo che egli, o allora o poco dopo, ne divenne pure signore, succedendo al fratello, — non saprei se anche per favorevole intervento del Doge. Vedasi ciò che dice su ciò il Desimoni (Annali di Gavi, pag. 117) il quale , peraltro ivi e in altri punti degli stessi Annali dimostra chiaramente di ignorare la fine fatta da Nicolò. - 393 - ai cugini Lazzaro, Paolo-Benedetto (di cui il Litta per errore fa due persone, mentre non era che una sola con doppio nome (1) ) e Martino, fratelli di Giorgetta e dal contenuto della lettera si vede, oltre al dispiacere che dimostra di aver dovuto addivenire a quel passo, il legame e l’affetto che gli preme risulti aver egli per la sua famiglia (2). Quanto ai Principi e Stati a cui fu partecipato il fatto questi, per ciò che mi risulta, furono il Duca di Milano, la Repubblica Fiorentina e il Re di Napoli per mezzo del regio consigliere Matteo Malferit (3). Ai due primi sopratutto importava infatti dare tale partecipazione, non solo per gli stretti rapporti che aveva coi medesimi, ma perchè Nicolò occupava pure un posto nella lega conclusa qualche tempo prima fra Milano, Firenze e Genova. Anzi in seguito il Doge scrivendo al Duca lo pregava che : u La conditione la quale avea meser Nicolò cum la ligha per respecto de la provisione:...... la s.ria V. volgij essere contento che labia meser Spineta so fradello et nostro capitaneo; peroche non sera meno servidore de la s.rl» v. corno fosse meser Nicolò „ (4). Una differenza si rileva fra le lettere con cui fu partecipata la morte di Gio. Antonio Fieschi e quelle che riguardano il supplizio di Nicolò. Nelle prime, almeno in alcune, anche senza esser troppo esplicite si parla però veramente di morte e di supplizio e si è più laconici nelle giustificazioni. Nelle seconde il linguaggio è molto più eufemistico, e sebbene non possa sorgere dubbio sul significato delle parole, pure si rifugge assolutamente dal pronunziare, o meglio dallo scrivere, quelle crude parole. Inoltre la giu- (1) V. ad es. Liti. 18, n. 1307. (2) Doc. XVI. (8) Doc.XX, XXI, XXII. — Per essere esatto, osservo, che per quanto riguarda il re di Napoli, veramente il Doge partecipò la cosa al suo regio consigliere, che aveva lasciato Genova, come ad amico e senza dargli specifico incarico di comunicarla al suo signore, ma, sembra evi-dente che la cosa venisse di conseguenza. (4) LUI. 18, n. 1025. Oiorn. SI. t Lett. della Liguria. 26 - 394 - stificazione è più completa ed ordinata, sebbene non scenda affatto a particolari, anzi circa il fatto imputato si sia più oscuri che per il Fieschi, di cui si dice che voleva dare Genova alla Francia. Altri commenti e note che sarebbero suggerite dai documenti che pubblico lascio alla perspicacia del lettore. Neppure farò notare le numerose coincidenze, cui ho accennato da principio, fra i due fatti, perchè risaltano, mi pare, sufficientemente da sè. Errerebbe chi dalla fatta esposizione traesse la conseguenza che Genova seguisse tradizioni sanguinarie, o che quanto meno fosse corriva nell’ addivenire a simili fatti. Non solo s’è visto che quelle due sentenze capitali furono pienamente giustificate ; ma è pur certo che fra gli Stati Italiani la Repubblica Genovese è quello o uno di quelli in cui se ne verificarono meno, e in cui il regime fu più libero, anzi troppo libero. Ed anche a questo si deve la trista fine di quei due personaggi. Trista e sciagurata fine di due uomini, ai quali 1' essere di gran nascita e il possedere qualità personali non comuni. fu causa, anziché di fortuna e di grandezza, di rovina e d’infamia : esempio di mille e mille casi consimili verificatisi in quell’epoca turbolenta, per cui nell’estrema rovina caddero spesso, cogli individui, e famiglie e dinastie e Stati. Ambrogio Pesce. DOCUMENTI. I. (Arch. di Stato in Genova, Divers., fil. 14). Capitoli 13.o e 14.° della lega conclusa fra il duca di Milano, rappresentato da Galeotto del Carretto, e il doge di Genova (21 a-gosto 1443). Tertiodecirno quod teneatur et debeat idem 111. d. dux Mediolani dare operam cum effectu quod Magnificus miles d. Iohannesantonius de flisco restituet Illu. d. duci et comuni Ianue locum portusfini et alia loca et castra dicti comunis que occupat et tenet usque ad u-num vel duos [mejnses secuturos publicata ligam. Teneatur tamen - 395 - dictum comune Ianue solvere expe'n[sas] si et quas fecisset in custodia et reparatione de qua constet: arcium \\t[sorum] locorum 3ic occupatorum : hoc tamen intellecto et excepto videlicet...... si per ipsum I. d. ducem Ianuensium et Magnificum Barnabam Adurnum Capitaneum [»e]l alterum ipsorum : fuisset eidtm dno Iohannian-tonio facta aliqua promissio d[e] [ Matheo malferit Regio consiliario in neapoli. XXIII. (Arch. cit., Litt. cit., n. 1018). M. D. I. F. de Flischo. Dox Ianuen. etc. Respondendo ad una vostra scripta questa matina quantuncha già a la parte de madona biancha ve avessemo risposto, semo stadi fino heri sera contenti che lo andare et stare sia in so piaxere ni Iavevamo retenuda per alcuno altro so descuncio salvo perche ella non imbratasse le coxe de gavi lequale lo M. meser spineta nostro capitaneo molto tosto a asestado. A la parte de Iacopone vostro ne-vodo non bixogna dire altro. Seguendo elio la via vostra non possiamo salvo esser contenti de lui. Circa la parte deio chiarirve le caxoni che ne ano mosso al caxo de meser nicolo dovete assai estimare che grande et singulare ca-xone ne a movudo a questo loquale quantuncha sia particulare ni e necessario esprimerla altramente tamen li soi modi in questa cita erano sì manifesti de tuto quello che elio dixea et faxea contra de noi che circa ciò non bixogna farne molte prove, anoi e rencres-sudo fino allanima convenire malgari questo .inconveniente cum cossi facta medixina pure non possendose remediarghe per altra via a-vemo voludo cum questo salvare lo resto. Et avemo facto in questo caxo tre considerationi, luna che jntendessemo esserne exschuxi appresso de deo et circa questo avemo dimostrado che la proprietà non ne a conducto a ciò peroche de lo so non avemo voludo niente: just-ifteandose appresso cum so fratello lo quale avemo poi facto si chiaro de quello che elio pensava et tractava contra de noi che non a sapudo dire lo contrario et si è stado patiente et remaxo cum noi quanto fradello et in bono amore. Tertio appresso la gente del mondo etiam se ne semo iustificadi cum esser stado lungamente paciente ali soi modi et al so vivere et demurn essendo li soi tra-ctamenti asse manifesti, perche ve preghemo et confortemo a metere laDimo in ripoxo et pensare de vivere cum noi cum amore frater-nale peroche semo assai a fare bene volendo ognuno dal canto so atendere acio corno faremo noi per nostra parte et cossi semo certi farete voi per la vostra, data janue die VI junii 1452. - 406 — XXIV. (Arch. cit., Litt. cit., n. 1010). Ser Leonardo secretario nostro. Dux Ianuen. etc. Sei- Leonardo per .altra ve avemo scripto quanto ne molesto elio alo pagamento de questi soldadi non ne sia provisto e assai se ma-ravilgiamo se facia de questo si podio caxo peroclie sa bene ognuno che li soldati non se tengono senza denari e essendone stati promissi per sustentatione et segurta de lo stato nostro A li citadini qui pare stràneo non glie fosse provisto E ne serea necessario proponere questa spexa ali citadini peroche senza soldadi a questo tempo non volemo stare siche podete estimare che opinione ne a-vereano et maxime raxonandose corno se fa strectamente de dare qualche subsidio a quello Signore — Ilperclie quantuncha de novo ne abiamo scripto a quello 111,m0 Signore trovativie cum chi ve pare et demuiu dateli ad jntendere quello che jDiporta questa coxa e intendendo voi che lo stare vostro li non facia fructo deinostiateli chiaramente che non ne pare sea facto verso de noi quello chi se debe prendete quello che podete avere et venitevene peroche sono tuti in pegno et bisogna provederghe Avisandove che noi senio in strecta praticha de dare la paglia de 56 a quello Signore soto quelle conditioni che sano li soi ambassadori siche se dovessemo daie oia 10 nostro et farse le spexe de questi fanti senza liquali non volemo stare — pensate che ne serea necessario provedere più tosto a noi che ad altri siche assai se maravigieressemo che questa coxa non fosse bene intexa Questi doria sono bene disposti circa ogni favore de quello Ill.m0 Signore. Averete sentido del caxo de meser-nicolo aloquale semo venudi corno podete pensare cum le lagrime ali ochii. ma intendando lo so caxo non poderse sanar per altra medexina avemo prexo quella via quantuncha ne sia stata gravissima per sanare lo resto, et de questo in primis se ne semo iustifìcadi cum deo lo quale sa bene che ni proprietà ni odio ne a conducto a questo, et apiesso cum so fradello loquale avemo prima facto si chiaro de quello che meser nicolo pensava et tractava contra de noi che non a sapudo dire lo contrario et e remasto patiente quinymo se facto nostro fradello cum bono amore et cossi lo avemo messo a quello logo in che era meser nicolo cum ogni conditione. Item se ne semo iustificado cum 11 homini del mondo peroche avemo avudo grande tempo pacientia a li soi modi stranei et demum avemo chiaramente intexo quello che elio avea deliberado de fare contra de noi. deo abia misericordia de lui peroche elio se ne a dato caxone peroche assai savete lo grado che avea cum noi et lo portamento che li facevamo. Senio contenti ne abiate aviso perche appresso de ognuno possiate scliuxarne. Data janue die VI junii. - 407 - XXV. (Arch. cit., Lilt. cit., n. 1020). Spcctabili benedicto deauria. Dux Ianden. etc. De poi lo caxo de meser nieolo nostro deloquale per altra ve a-v61110 avisado avemo asestado le coxe de meser Iolianphylippo in bona forma siche oramai speriamo vivere in paxe et aver bono stato et longo. et si ve desideriamo qui cum noi possendo essere cum vostro acuntio Cossi corno ne appare aver asestado più coxe de qua cossi etiam desideriamo siano le coxe dela. voi aveti visto lo caxo seguido alo porto in che ve demo arbitrio de provedere como ve paresse. Questi de grimaldi de li quali se semo in tuto arembadi quanto per lo colore guello. ne ano molto streti che per loro amore li vogiamo perdonare et fare per tuto libro novo peroche inanellando li obiecti de qua mancherà etiam quelli de la. la coudennaxione facta per voi non è più che ducati LX, ve preghemo che ghe la vogiate perdonare et remetere et dire che voi lo facte per lo al-beigo de li grimaldi et specialmente che voi ne facte uno presente a luciano de grimaldo peroche lo averemo singularissimamente caro siche estimate quando altro respecto non ve movesse fare questo piaxeie a noi acioche avendo renovado ed asestato le coxe de qua quelle etiaiu de la parano reducte al pacifico cum la nostra gratia et la vostra jntercessione. data ianue die 7 junii 1452. UNA RELAZIONE INEDITA SUL CONVEGNO DI ACQUEMORTE I. Recenti studi (1) e nuovi documenti, venuti in luce, hanno dimostrata la verità di quella, che già era stata sentenza di molti scrittori dell’epoca e, cioè, che Paolo III, per quanto anch'egli troppo indulgesse alla peste del nepotismo, fu pontefice zelante, di animo grande e dell’in- (1) Carlo Capasso. La politica di Papa Paolo III e l'Italia, Camerino, Ravini, 1901, voi. I. Luigi Staffetti, La politica di Papa Paolo III c l’Italia ecc., Firenze, tip. Galileiana , 1904 (Estratto dallMrc/i. Stor. Ital. 1904, Disp. l.a). - 408 - cremento del nome cristiano tenerissimo. Le prime sue cure furono volte a tentare di porre argine alla potenza dei Turchi e, forse, pochi pontefici, ebbero, come il Farnese, l’animo inclinato a favorire e sorreggere i Veneziani, baluardo del mondo cristiano e della civiltà d’ occidente , contro la barbarie mussulmana. Ed a tale effetto , li sovvenne, con liberalità straordinaria, nella guerra contro Solimano e strinse lega con essi e Cesare, armando, del proprio , buon numero di galee , nel porto di Genova, ottenuto l’assenso della Repubblica. Di questi meriti insigni di Paolo III, avevano già resa testimonianza le relazioni degli ambasciatori veneti e, specialmente, quella di Nicolò Tiepolo, oratore della repubblica veneta, a Roma. Iniziò il pontificato, parlando , con voce paterna, ma pur alta e solenne, a Carlo V ed a Francesco I, quale avrebbe dovuto sempre udirsi dal vicario di Cristo, tentando ridurli a consigli di pace. E, finalmente, come osserva il Muratori (1), “ benché con tanti anni addosso e mal provveduto di salute „, si accinse al viaggio da Roma a Nizza, per abboccarsi coi due monarchi e tentare una conciliazione fra essi. E se egli non riuscì nel-1’ intento e, a mala pena, potè ottenere la promessa di una tregua decennale, poi non osservata, deve la responsabilità unicamente ascriversi al mal volere dei due potenti. Ed è arguto e giusto rilievo del Capasso (2), che, in quella diffìcile epoca, nella quale si andava consolidando l’influenza e preponderanza spagnuola su tutta Italia, il papato di Paolo III, verso la fine della prima metà del secolo, venne ad essere il difensore della libertà italiana e Roma il solo sostegno, la sola protezione d’Italia. Ben a ragione, osserva Luigi Staffetti (3), che Carlo V e Francesco I, fatti sicuri dello intendimento del Papa “ si mo- (1) Annali d’Italia, ad annum. (2) Op. cit., pag. 42. (3) Op. cit., pag. 10 dell’estr. - 409 — straron concordi nel non lasciarlo partecipare mai alle loro questioni e per quanto protestassero eh’ egli era a-vido di ottenere benefici per i suoi, tradivano il timore eh egli acquistasse troppa importanza r. Ed al buon volere di Paolo III, rendono pur anco testimonianza storici gravissimi, non eerto troppo teneri della curia romana e non ugualmente solleciti nel riconoscerne le benemerenze come le colpe. Il Sismondi (1), fra gli altri, non esita a scrivere : “ Il pontefice Paolo III, altamente commosso alla vista del pericolo ond’ erano minacciate Roma, sua patria, e la religione, ond’era capo, e tutta 1 umanità, si risolvette, malgrado l’età avanzata, di recarsi in persona dovunque volessero i due monarchi abboccarsi fra loro, per fare la parte di mediatore e di paciere „. Della rettitudine delle intenzioni e della sincerità d’animo di Paolo III in queste pratiche, fanno fede le feste fatte celebrare e le grazie all’Altissimo che ordinò, ne’ suoi Stati, per questa tregua, si come le lettere colle quali ne fu data partecipazione alle maggiori città; valga, fra tutte, la seguente del cardinale legato, al reggimento di Bologna. M.1 SlG.ri COME F.Ui In questo ponto habiamo noua dalla Corte per 1.« de XVIII che N. Sig.re Dio Gratia, ha concluso Triegua tra l’imp.re et Re chr.m0 per diece anni e che S. S.a douea partir da Nizza alii XX, ne fa-ciamo parte a V. M. acciò ne prendano consolatione et se ne ren-dino le debite gratie alla bontà dinina ecc. — 23 giugno 1538. Card. Legato (2). II. Che Francesco e Carlo diffidassero del papa e temessero la di lui preponderanza in Italia, come perniciosa agli interessi di entrambi, apparve in modo troppo palese nel convegno di Nizza. Nessuno dei due monarchi volle aderire alle continue (1) Storia de' Francesi, Capolago 1839, voi. XVI, pag. 372. (2) Archivio di Stato in Bologna. Lettere di Principi ecc. al Senato, 1538-1539. Qiorn. St. e Leu. della Liguria. 27 — 410 - e veramente commoventi esortazioni del vecchio pontefice, che, desiderando riconciliarli, instava perchè insieme si abboccassero. Invece, poco tempo dopo , si trovarono in Acquemorte, dove, con universale stupore , si diedero tali apparenti prove di cortesia e di tenero affetto , per cui apparvero , oltre ogni credere, maestri di sopraffina ipocrisia. Il convegno, che doveva aver luogo a Marsiglia, era stato deliberato di comune accordo. Le affermazioni del Sandoval e del Du Bellay (1), sulle quali il Si-smondi ritenne la “ riunione non fortuita certamente, ma premeditata „ (2) hanno ricevuto rincalzo dai documenti pubblicati in questi ultimi anni (3); ad essi ora si aggiunge la relazione, eh’ io credo sconosciuta, conservata nell’Archivio di Stato di Bologna (4), dove si legge: u gionse (cioè Carlo V) all’ Isola di S. Margherita, doue incontrò una galera francese con Mons. di Vely oratore del Re Xm0 quale ueniua da sua M.a Cesarea per iscusare la partita del suo Re da Marseglia, doue si doueua abboccare con Cesare...... „. Essa, assai più ampia ed importante del breve ragguaglio messo fuori dallo Staffetti (5), contiene tali e tanti curiosi particolari da indurmi a renderla pubblica. È certo scritta da un gentiluomo, al seguito di Carlo V o di Andrea D’Oria; lo dice chiaramente egli stesso ove parla di u noi cesarei ed è inviata a qualche eminente personaggio, che seguitava il papa Paolo III. Questi, come si sa, dopo il convegno di Nizza, ritornò a Genova con Carlo, donde il primo ripartì per Roma e l’altro con l’armata alla volta di Spagna. La relazione che può servire a confortare e ad illustrare le notizie degli storici, (1) Sandoval, Historia de la Vida y Hecos del emperador Carlos F,Am-beres, Verdussen, 1681; voi. II, pag. 258. — Memoires de Du Bellay, in Collect. des Memoires par Petitot, voi. XIX, pag. 293. (2) Op. cit., voi. XVII, pag. 10 seg. (3) De Leva, Storia documentata di Carlo V in correlazione all’Italia, Padova, 1895 segg., voi. III, pag. 244 segg. — Capasso, op. cit., voi. I, pag. 393, 425, 432 seg. (4) Loc. cit. (5) Giornale Ligustico, a. XXIII, pag. 216 segg. - 411 - prende le mosse dalla partenza del papa da Genova : u Assai mi dispiacque che io non basciassi la mano a V. M.tia innanzi che la partissi, fui certo assai negligenti, et confesso che anchor dormiua quando S. S.tt imbarcò, fui distato dal suono dell’artiglieria, et uestito alla leggiera, quanto più presto potei corsi alla marina, et no uenni a tempo , bastim adunque il dolor per penitentia, ciò chiedo in mercede „. Carlo V, con tutta la flotta, partì poco dopo del pontefice, ma dovette trattenersi due due giorni a Laigueglia, in causa del vento contrario, finché , questo mutatosi, toccò l’isola di S. Margherita. Quivi giunse mons. di Vely, per iscusare la partenza del re da Marsiglia ed invitare Carlo a spingersi sino ad Acquemorte. È assai curiosa la ragione addotta, dal Vely, per giustificare tale mutamento....... “ havendo il Re Xmo intesa sua M.a Ces.a esser passato Sauona, indicò chel douesse tardare qualche giorno di più, et per ciò, essendo Maxime la Ser.ma Regina, con il Dolfino , et altri Signori gionti da Villanoua a Marseglia battuti dal mare, esso Re andò a cacciare, et altri a piaceri in una parte, la Regina in un’ altra, et il Dolfino in altra, di muodo che s’erano partiti chi in qua, et chi in la per lor diuersi spassi, ma che poi che sua M.a C.a era in camino, et per mare, fusse contento giongere sino in Aquamorte doue sarebbe il suo re fra dua dì, il quale subito uenirà ad abboccarsi con sua M.a nella sua Galera, con altre assai parolle in tal materia L’invito, per Acquemorte, fu u-gualmente gradito “ però Cesare discretissimo disse, che quanto al andar in Acquamorte era molto contento, perchè lui desiderava molto abboccarsi con sua M.a X.ma Il re Francesco volendo largheggiare con Cesare e dargli prova di straordinaria generosità, per mezzo del Vely, “ pregava S. M.a Ces.a che gionto in Marseglia fusse contento intrar in porto, et smontar per riposar alquanto , perche haueua leuati tutti li soldati, et che le sarebbero date le chiaui della Citta in mano, accio che sua M.a sene servisse al suo piacere „. Dopo una fer- - 412 - mata, di vari giorni, alle isole di Hyeres, per causa del fortissimo vento di libeccio, Carlo si avvicinò a Marsiglia. Gli mossero incontro venti galere francesi ed in vicinanza del porto furono tanti gli spari e salve d artiglieria “ che pareua chel mondo rouinasse Il viaggio da Marsiglia ad Acquemorte venne funestato da gravi accidenti, per la fittissima nebbia sopravvenuta e grave rischio corse la stessa galera dell’ imperatore. “ ...... Non era ancor X miglia in mare che si leuò una nebbia tanto spessa , che non si poteua uedere tutta una galera da poppa a prora, di modo che tutta quella notte si fece camino con assai trauaglio. Alchune galere francese an-dauano uerso mezzo di, altre uerso leuante , et alchune inuero ritornauano uerso Marseglia, ognuno pensando di far buon camino verso Acquamorta; la nostra galea ebbe assai che fare a guardarsi da molte che la inuestiuano ; la matina durando il caligo grande, si tirò molti tiri per adunar le galee delle quali alcune erano molto lontane..... la galera di Cesare fu inuestita da un’altra galera delle sue , nel timone , il qual andò in pezzi, di modo che a sua M.a, al Principe Doria, et a quanti erano su quella galera, non mancò trauaglio et fastidio...... „ (1). Giunto nel porto di Acquemorte, fu l’imperatore complimentato dal gran contestabile di Francia, che annunziò 1 arrivo del re, il quale venne “ dalla terra detta Acquamorta, qual’è lontano di qui dua miglia per un fiume detto mon-canet, assai piccolo, con alcune barchette benissimo fornite di panno de oro, et de seta Erano col re il gran contestabile, il Duca e il Cardinale di Lorena, u et Cesare venne alla scaletta della galera, a receuere S. M.a li quali ambi con le berette in mano si riceuettero con tanta amoreuolezza quanta si possi imaginare et sempre basciandosi l’un l’altro „!! La relazione distrugge completamente una leggenda, (1) Si ofr. a proposito di questa travagliosa navigazione Jurien de La Graviere, Les derniers jours de la marine a rames , Paris , 1885 , pagina 88 segg. — 413 - che pur aveva trovato credito presso gli storici nostrani, a riguardo di Andrea D’ Oria. Si dava come cosa certa che, pregato il principe daH'imperatore, di venir ad ossequiare il re, questi, vedendolo, gli dicesse : che di buon cuore ad intercessione dell’imperatore suo fratello lo riceveva nella sua grazia, al che il principe replicasse: ben ha ragione la M. V. di far questo, perchè mentre V ho servita non ho mai mancato, nè di rispetto nè di fedeltà (1). Così però non la racconta il nostro anonimo, il quale asserisce, ciò che è assai più verosimile e certo più dignitoso, che il principe tacque e andò via. “ A me parue che il Re non li facesse molto buona cera et li disse: Principe, poi che voi sete del Imp.or qui mio fratello et lui vole ch’io ve accetti per mio, son contento di compiacere a S. M.a........ Il Principe non rispose nulla et si partì Scese poi Carlo a terra e fu ricevuto dal re Francesco, dalla Regina , dal Delfino, dal duca di Orleans e fu alloggiato in un palazzo, contiguo a quello del re, (1) Casoni, op. cit., ad annum. L’aneddoto, secondo la versione del Casoni, donde poi l’attinse il Canale (Storia della Rep. di Genova dall’anno 1528 al 1550, Genova, Sordomuti, 1874, pag. 128 seg.), fu messo in giro primamente dal Sigonio (De vita et rebus gestis Andreae Auriae, Genuae , 1586 , c. 66) e accolto , sebbene più sobriamente, dal Cappelloni, (Vita di A. D., Genova, 1853, pag. 98). Ma in modo diverso ne toccarono altri scrittori ; lasciando stare il Brantome, (cit. da Petit , André Boria, Paris, 1887, pag. 176) che a que’ primi in qualche guisa s’accosta, ricorderemo che un cenno fugace ne dà il Bonfadio (Annales, Papiae, 1584, pag. 122), il quale si contenta del semplice « reconciliatus est »; cenno suggeritogli forse dall’Ulloa (Vita di Carlo V, Venezia, 1562, c. 143) là dove in quell’idillio di conciliazione riferisce le insistenze dell’imperatore « co ’l re che rimettessi le ingiurie ricevute de’ tempi passati al Principe Doria, essendogli presentato a baciargli la mano » : mentre il Sandoval (Historia cit., voi. II, pag. 258 seg.) ce ne ha lasciato la narrazione seguente: « Embiò el Emperador à dezir con Granvela à Andrea Doria, que estava de tras del mastil que viniesse a besar la mano al Bey ; vino, y hincose de rodillas con todo acatamiento. El Bey le dixo: Soys vos Andrea Doria. Y corno el Emperador rogava que le perdonasse , dixo no sé que , con muestsas desabridas. Quiso Andrea Doria responder por si, mas el Emperador le hizo senas que callasse ». La quale , come si vede, si accorda assai meglio con quella dell’ anonimo relatore. - 414 - tutto parato con drappi d’ oro, d’ argento e di seta, “ et con tanta tenerezza et tante uolte si abbracciauano et basciauano che era merauiglia, ognuno sta stupido della gran confidenza....... hoggi tutto il giorno sono stati insieme , burlando hor con questa, et hor con quell altra dama et poi essi si abbracciavano Come si vede non vi fu penuria di baci e di abbracci, i quali, all ingenuo e certo ancor giovane anonimo, fecero nascere tante illusioni nel cuore. Un voto ed una preghiera egli innalza, fidente, alla vista di tanto trasporto e di tante carezze: u Dio facci che questo sia per beneficio della Rep. X.a Ma le illusioni svanirono appena nate, perchè, ad onta di tutte le tenerezze, pubblicamente diceasi “ in corte di Francia che la Ul.ma Sig.ria è d’accordo col Turco „ !! E questa fu la morale ultima di tante regali ipocrisie. Paolo Accame. Assai mi dispiacque che io non basciassi la mano a V. M.tia innanzi che la partissi, fui certo assai negligenti, et confesso che an-chor dormiva quando S. S.a imbarcò, fui distato dal suono dell ai-tiglieria, et uestito alla leggiera, quanto più presto potei corsi alla marina, et no uenui a tempo, bastim adunque il dolor pei penitenza, et ciò chiedo in mercede. Cesare come V.ra Mag.ia deue lia-uer inteso imbarcò alli 4 del presente innanzi fransa, et la matina sequente essendo stato li uenti assai propitii, gionse a uno loco detto lengueglia lontano da Genoa miglia 70. oue per li uenti contrari] et il mar glosso da Garbino fu costretto in ter tei) ersi pei dua giorni, la notte poi si leuò et la mattina assai pertempo gionse all’isola di S. Margherita, done incontrò una galera francese con Monsignor di Vely oratore del Re X.m0 quale ueniva da sua M.a Cesarea per iscusare la partita del suo Re da Marseglia, doue si do-uena abboccare con Cesare, in questo modo, che hauendo il Re X.m0 intesa sua M.a Ces.a esser passato Sauona, indicò chel douesse tardare qualche giorno di più, et per ciò , essendo Maxime la Ser.ma Regina, con il Dolfino, et altri Sig.ri gioliti da Villanoua a Marseglia battuti dal mare esto Re andò a cacciare, et altri a piaceri in una parte, la regina in un’altra, et il Dolfino in altra, di niuodo che s’erano partiti chi in qua, et chi in là per lor diuersi spassi, madie poi che sua M.a Ces.a era in camino, et permare, fusse contento giongere sino iu Aquamorte dove sarebbe il suo re fra dua dì, il quale subito ueniria ad abboccarsi con sua M.a nella sua Galera, con altre assai parolle iu tal materia, poi disse, che il suo Re - 415 - pregarla S. M.a Ccs.a che giolito in Marseglia fusse contento intrar in porto , et smontar per riposar alquanto , perchè haueua leuati tutti li soldati, et che le sarebbero date le chiaui della Citta in mano, accio che Sua M.a sene seruisse al suopiacere, le offerte fuo-rono assai et di granliberalità, Però Cesare discretissimo disse, che quanto ad andar in Acquamorte era molto contento, perche lui desiderava molto abboccarsi con sua M.a X.ma et quanto alle offerte gli refferì quelle gratie, che si conueniuano et con questo partì. Cesare si leuò etiam lui et a poco a poco giunse alle Isole deres alli Vili, doue tardò IIII giorni per rispetto del vento grandissimo di Prouenza, il quinto giorno poi durando pur ancor quel uento terribile si uolse leuare et alla mezzanotte hauendosi prouizato fin que-lhora con durissimo trauaglio delli poueri sforzati, il uento mancò di muodo che la matiuà per tempo si trouò X miglia sopra Marseglia, oue fu incontrato da uenti galere francese, le quali hauendo salutato con tutta 1’ artiglieria, et medesimamente essendoli stato risposto se misero in compagnia, et uennero fino alle Pomege, doue dal castello, che è sopra il scoglio, et dalle castella, et Città de Marseglia, et da tutte le galere furono tirati tanti tiri d’artiglierie, che pareua cliel mondo rouinasse. Cesare dette fondo in fronte del detto castello a manco de tiro d’ archibuso, et ivi stette fino al tardo. Molti Sig.ri et cauallieri andorno a Marseglia, et io etiam vi andai, non le catene del Porto alzate come quando V. M.ia passo in Spagna ma leuate le catene liberamente et senza difficultà ognn’uno ui poteva entrare et non era in Marseglia pur uno soldato del Re, certo pochi furono quelli cortegiani, che non andorono, et molti andorono cun le proprie galee, però Cesare comandò, che restassero fuori del porto , et cosi ognuno pigliati rinfrescamenti al tardo ritornò in galea et subito S. M.a si leuò et le galee francesi etiam quelle che l’hanno accompagnato fin qui. Non era ancor X miglia in mare che si leuò una nebbia tanto spessa, che non si poteua uedere tutta una galera da poppa a prora, dimodo che tutta quella notte si fece camino con assai travaglio, alchune galere francese andauano verso mezzo dì, altre uerso leuante, et alchune in uero ritornauano verso Marseglia, ognuno pensando di far buon camino verso acquamorta, la nostra galea Irebbe assai che fare a guardarsi da molte che la inuestivano , la matina durando il caligo grande, si tirò molti tiri per adunar le galee delle quali alcune erano molto lontane, et ue-niviano a tuonolo, la galera de Cesare fu inuestita da un’altra galera delle sue, nel timone, il qual andò in pezzi, di modo che a sua M.a al Principe Doria, et a quanti erano sopra quella galera, non mancò travaglio, et fastidio, maxime andando alla uela con uento fresco, pur si rimediò presto con un altro timone, la galera di Mons. de Gran uela dette sopra una seca, et si ruppe nel fondo un poco, fece segnai con molti tiri, et fu aiutata da altre galere, che andorouo al tuono delli tiri. Sul mezzo giorno el tempo si fece chiaro — 416 — et ci trcmamo sopra Acqua morta un X miglia, et alhora si scopersero tutte le galere, molte delle quali erano lontane dalla cap.a 30 miglia, a hora di vespro dette fondo lontano dal porto d’Acqua morta 1111 miglio doue subito ueime il gran contestabile di Francia a far reverentia a S. M.a et dirle che 1’ entrasse nel porto , perche il Re qual liaueua pransato due leghe lontano giongeria fra due liore et ueneria a uedere S. M.a in galera, et poi entrò nel porto, doue non stette guari, che uenne il Re X.m0 dalla terra detta Acqua Morta, qual è lontano di qui dua miglia, giù per un fiume detto moncanet, assai piccolo , con alcuue barchette benissimo fornite de panuo de oro, et de seta, ui uenue il gran Contestabile, il Duca; il Car.ie de Lorena, et molti altri Sig.ri et cauallieri, giunto che fu S. M.a X.ma alla galera di Cesare sparoruo tutte Partigliene, et Cesare uenne alla scaletta della galera, a recevere S. M.a li quali ambi con le berrette in mano si riceuettono con tanta amoreuolezza quanta si possi imaginare, et sempre bastandosi l’un l’altro ando-rono a seder nella poppa, et iui facendosi gran feste ragionorno un poco col Duca, et car.al de Lorena, quali poi si ferno da parte, et li duchi, et li Sig.ri Cesarei uennero a far reuerentia al Re, Cesare, mandò Mons. de Granuela a pregare el Principe Doria qual era a mezzo galera che uenisse ancor lui a far reuerentia al Re, et cosi fece, a me parue che il Re non li facesse molta buona cera, et li disse, Principe, poi che uoi sete del Imp.01' qui mio fratello, et lui uole ch’io uè accetti per mio, son contento di compiacere a S. M.a per quanto mi fu detto ; Il Principe non respose nulla, et si partì. Li dua Principi ragionorno poi soli insieme forse un’ora, et già era passala l’Aue Maria quando si leuorno, et allegramente il Re presa licentia non comportando che Cesare l’accompagnasse fuori della poppa si partì. Questa matina a l’alba, Cesare mandò un trombetta a tutte le galere a comandare che nessuno delli suoi andasse in terra, et S. M.a a hore 4 di giorno montò sopra il suo schifo assai ben fornito, et con lui dua altri schifi con Duchi et Principi, eccetto chel Doria, se nandò S. M.a Ces.a, et etiam il Delfino, et Duca d’orlians, quali alhora giongeuano per le poste d’Auignone, vennero ad incontrar S. M.a et lo condussero in uno Palazzo contiguo a quel del Re X.mo benissimo fornito di drappi d’oro, d’argento et (le seta, le feste, et accogliense furono grandissime, et contanta tenerezza et tante uolte si abbracciauano, et basciauano, che era merauiglia, o-gnuno sta stupido della gran confidenza, che l’uno di questi Principi à hauuto de l’altro, ma molto più di quella de Cesare, il quale et suoi consigliere et sig.ri de Spagna si è messo in descretione del Re di Francia. Certo le son gran cose. In quest’ hora già tarda è uenuto il Baron Monfalconetto m.° di casa de Cesare, dal Principe Doria da parte de S. M.a a dirli che li astretto da gran preghi del Re, et della Regina di star li questa notte , et domani a desinare, et che a hora di uespro ritornerebbe a Galera. Detto Montefalco- - 417 - netto referi al Principe, che gionto che fu Cesare alla terra doppo lo prime accoglienze il Re gli disse: Sire, qui non uoglio che si ragioni in materia di pace, ma il tutto voglio remettere alla M. V.a, la qual faccia et disponga come la vole, perchè del tutto sarò contento, et altre amoreuolissime parole, poi dice che lioggi tutto il giorno sono stati insieme, burlando lior con questa et hor con quel-1’ altra dama, et poi essi si abbracciauano, mai non hauer ueduto Cesare più allegro d’hoggi, Dio facci che questo sia per beneficio della Rep.a X.ana come si spera. In corte di Francia si dice che la Ul.ma Sig.ria è d’accordo col Turco, pero noi cesarei non credemo nulla. Di Galera in Porto d’acque morte alii XV di luglio MDXXXVatl. In quest’ ora 21 delli XVI ditto è ritornato Cesare a galera accompagnato dal Re X.m0 e figli, et dal Re de Navaria, et tutti questi Sig.ri Franciosi hanno fatto colatione insieme sopra la poppa con molte risa et abbracciamenti, poi si sono tutti spartiti, et noi partiremo alla prima guarda, si dice certo che lapace è fatta. Ho scritto assai incomodamente per essere in Galera. VARIETÀ UNA SCULTURA DIMENTICATA DI FELICE PALMA. Sul finire del sec. XVI, quando già 1’ arte italiana dopo un lungo periodo d’insuperati splendori fatalmente decadeva, nacque in Massa lo scultore Felice Palma (1), artista che per il suo forte ingegno e le belle opere lasciate dovrebbe tenere un buon posto nella storia dell’ arte del suo tempo, dove è invece ingiustamente poco meno che un dimenticato. Gli uomini illustri nati a Massa, non pochi avuto riguardo alla ristrettezza del suo territorio, ad eccezione di qualche nome sono addirittura ignoti; ma si può dire che Massa stessa li abbia per il passato condannati all’ oblio : si rammentò finalmente del Guglielmi dedicandogli il Teatro Comunale e facendo eseguire un sipario, vero capolavoro, che illustra un episodio della sua vita; gli altri due insigni suoi figli Agostino Ghirlanda e Felice Palma, che in un momento di tarda resipiscenza si voIIq parimente raccomandare alla (1) Felice Palma nacque in Massa il 12 luglio 1588. Cfr. Campori. No-lizie Ijioyr ajxchc dctjh scultori 6cc. nativi di Qavvara & di altri luocjlii della prov di Massa, Modena, Vincenzi, 1873, pag. 172. — 418 - memoria dei cittadini, danno il loro nome arido e direi quasi enigmatico a due brevissimi tratti di strada di cui quello intitolato a Ghirlando (?) Ghirlanda — d’ignota genesi storica, come mi suggerisce un egregio amico — pare sia destinato a rimanere come monumento della cultura massese. Di Felice Palma fece per il primo una diligente biografia il Baldinucci (1), il quale, essendo stato quasi contemporaneo dell’ artista , ebbe modo di raccogliere su di lui notizie che possono ritenersi attendibili, però l’enumerazione che egli fa delle sue opere è tutt'altro che completa ; il Campori (2) ritessendo poi la biografia del Palma ne aggiunse delle altre, ma egli stesso confessa che molte restano ancora sconosciute; e tali saranno forse destinate a rimanere se nuovi documenti non ci guideranno a rintracciarle. Il numero delle opere assegnate al Palma resta anche oggi quello già dato dal Campori, se non che un documento venuto fuori recentemente , mentre conferma un fatto già noto , ma non provato, dimostra in modo inconfutabile che le due statuette in bronzo che si trovano nel duomo di Pisa, poste sopra le pile dell’acqua santa lateralmente alla porta principale, e che il Morrona (3) asserì essere state modellate sul disegno del Gianbologna e soltanto gettate dal Palma, furono invece invenzione e fattura del Palma stesso (4). Non volendo pertanto ripetere cose già note e che ognuno potrà leggere ricorrendo agli scrittori già citati, verrò senz’altro al mio modesto assunto, il quale si limita a rilevare un’ opera d arte di mano del Palma che trovasi in Massa nella chiesa di S. Rocco; opera che a suo tempo fece rumore e destò l’ammirazione del Tacca e che il Campori, non si sa come, dette come perduta o distrutta (5). (1) Notizie de’ Professori del disegno. Ediz. milanese, Tom. IX, p. 475. (2) Op. cit., pag. 172 e segg. (3) Pisa illustrata nelle arti del disegno, seconda edizione , T. 1, 301. (4) Curzio Ceoli operaio del duomo di Pisa cosi scriveva nel 1618 : . Livorno, Giusti, 1905. Urani inedili dei « Promessi Sposi « di Alessandro Manzoni per cura di Giovanni Sforza. Seconda edizione accresciuta. Milano, Hoepli, 1905, un voi. in 2 parti. Francesco Luigi Mannucci. Il Petrarca in Arcadia. Genova, Sandolino, 1905. Giovanni Setti. La Grecia letteraria nei * Pensieri » di Giacomo Leopardi, Livorno, Giusti, 1905. AVVERTENZE 1) Il giornale si pubblica di regola in fascicoli bimestrali di 80 pagine ciascuno. 2) Per ciò che riguarda la Direzione rivolgersi in Genova al Prof. Achille Neri - Corso Mentana, 43-12. 3) Per quanto concerne l’Amministrazione, esclusivamente al-l’Amministrazione del periodico - Spezia. 4) Il prezzo d’associazione per lo Stato è di L. 10 annue. — Per l’estero franchi 11. AI SIGNORI COLLABORATORI La Direzione concede ai propri collaboratori 25 copie di estratti dei loro scritti originali. Coloro che desiderassero un maggiore numero di copie, potranno rivolgersi alla Tipografia della Gioventù - Via Corsica, N. 2 (Genova) che ha fissato prezzi seguenti: Da 1 a 8 pagine Da 1 a 16 pagine Copie 50 .... L. 6 Copie 50 . . . . L. 10 „ 100 .... „ 10 „ 100 . . . . „ 15 „ 100 successive „6 „100 successive „ 8 In questi prezzi si comprendono le spese della copertina colorata e della legatura, nonché di porto a domicilio degli Autori. Prezzo del presente fascicolo L. 3